Il film di Bong è entrato a pieno diritto non solo nelle collezioni dei cinefili di tutto il mondo ma anche nella cultura pop, grazie alla vittoria dei Premi Oscar come Miglior Film, Migliore Regia, Miglior Film Internazionale e Migliore Sceneggiatura Originale.
Bong Joon-ho e Park Chan-wook sono il simbolo del Cinema sudcoreano in tutto il mondo; per gli appassionati di audiovisivo è praticamente impossibile non essere mai incappati in un approfondimento sulla Trilogia della vendetta o su Memorie di un assassino - Memories of Murder: di fatto parliamo di due dei registi più importanti degli ultimi vent’anni, piacciano o meno.
[Oldboy di Park Chan-wook è stato riproposto in sala nella sua versione restaurata in 4K]
Il Cinema sudcoreano però ha radici molto antecedenti ai primi anni 2000, che vanno ricercate nella storia di questo Paese, diviso tra voglia di libertà, repressione giapponese e un’abbondante dose di influenze statunitensi.
Per tutto il XIX secolo la Corea - termine con cui si indicano entrambe le Coree fino alla loro divisione - è stata sottoposta al dominio delle grandi potenze coloniali.
I primi film furono prodotti a partire dal 1898, quando il Paese era sottoposto alla dominazione giapponese: si trattava prevalentemente di pellicole di propaganda, con finalità sia politiche che commerciali.
Stabilire quando sia nata una cinematografia locale non è affatto semplice, visto il totale controllo delle produzioni ad opera dei grandi Studios occidentali e soprattutto giapponesi.
Le pellicole erano usate come un mezzo ramificato ed efficace per estirpare ogni desiderio di indipendenza del popolo sottomesso, subivano non poca censura e persino gli spettatori all’interno delle sale erano sottoposti ai controlli delle forze dell’ordine.
I registi sudcoreani dovettero ripiegare sul melodramma o su opere fortemente ispirate alla letteratura e al teatro tradizionali, come le numerose pellicole ispirate al pansori, dramma cantato tradizionale.
Nel 1938, con l’avvento del sonoro, fu proibito l’utilizzo della lingua coreana.
Nel 1941 i controlli sul Cinema sudcoreano subirono un ulteriore inasprimento: fu bandito qualsiasi film non fosse giapponese, italiano o tedesco.
I registi locali non potevano apparire nei titoli di coda con i propri nomi coreani.
Il 1945 è l’anno in cui il il Paese si divise in Corea del Nord e Corea del Sud, la prima controllata dalla Russia e la seconda dagli Stati Uniti, ma entrambe governate dal Partito dei Lavoratori.
Per la Corea del Nord il Cinema rimase uno strumento di educazione delle masse ai principi dello Juche; la Corea del Sud d’altro canto vide alla fine della Seconda Guerra Mondiale un’importazione massiccia di prodotti statunitensi a cui i registi locali si ispirarono.
Tra il 1945 e il 1959 il Paese si spaccò in due, tra chi abbracciò appieno lo stile di vita americano e chi guardava invece con adorazione il regime comunista in Corea del Nord.
In questi anni però il Cinema sudcoreano non era certamente libero dalla censura: le pellicole dovevano essere approvate da enti governativi e rispettare un codice etico e morale.
Nel 1960, a seguito di una manifestazione studentesca, venne meno la censura.
Questa condizione durò soltanto un anno, fino al colpo di stato militare da parte di forze anticomuniste: fu proibita tutta la critica sociale e la denuncia alle condizioni di povertà, qualsiasi cosa richiamasse - seppur lontanamente - le istanze marxiste.
Non mancano proprio nel 1960 pellicole degne di nota, come Aimless Bullet di Yu Hyun-mok (1960) e, soprattutto, The Housemaid di Kim Ki-young (1960), di cui si parlerà in una posizione di questa Top 8.
[Aimless Bullet restaurato e reso disponibile in modo gratuito e legale da Korean Classic Film, canale di Korean Film Archive]
I decenni successivi segnarono altre dittature, altre repressioni, tradimenti, omicidi e scontri.
La Storia contemporanea della Corea del Sud sembra essere segnata dal sangue di decine di migliaia di civili.
Le due Coree erano inoltre terreno effettivo di confronto tra Russia e Stati Uniti durante gli anni della Guerra Fredda.
Per quanto riguarda il Cinema, fin dagli anni ’70 entrò in vigore un sistema di screen quota che garantiva percentuale fissa ai titoli locali di programmazione delle sale.
Solo nel 1988 la Corea del Sud divenne un paese democratico.
In seguito al terribile massacro di Gwanjiu - di cui parla il bellissimo A Taxi Driver (2017) di Jang Hoon - ai registi fu data la libertà di trattare questioni politiche e sociali.
[Il trailer di A Taxi Driver con Song Kang-ho]
Alla fine degli anni ’80 nasce la cosiddetta New wave sudcoreana, in particolare con il successo di Im Kwon-taek.
Nonostante dirigesse pellicole dal 1962 è in quel periodo che il regista conquistò i primi veri successi anche all'estero.
Emblematico di quegli anni è anche Chilsu and Mansu (1988) di Park Kwang-su, che narra le vicissitudini di due proletari.
Un gruppo di giovani cineasti decise di ribellarsi all’egemonia dei film nazionali o commerciali in favore di tematiche di denuncia: un esempio di questo periodo è TheNight Before the Strike (1990) diretto da Lee Jae-gu, Jang Dong-Hong e Chang Yoon-hyun.
Il film che racconta la lotta di classe venne proiettato principalmente nelle università; nonostante le ingerenze del governo, furono gli studenti di tutto il Paese a imporsi per poterlo guardare.
A metà degli anni ’90 avevano già esordito Hong Sang-soo con The day a pig fell into the well (1996), Lee Chang-dong con Green Fish (1997), il già citato Park Chan-wook con The moon is the sun’s dream (1992) e Im Sang-soo con Girls’ night out (1998).
A quegli anni risale anche Coccodrillo (1996), esordio di Kim ki-duk,un altro dei registi più importanti del panorama cinematografico sudcoreano: l'autore di opere imprescindibili come Ferro 3 - La casa vuota (2004), Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), L'arco (2005) e Pietà (2012) ha vinto premi ai più importanti festival del mondo e si è distinto non solo come regista, ma anche come sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia e in qualche film persino come scenografo.
Kim Ki-duk, scomparso prematuramente nel 2020, è stato un artista a tutto tondo capace di stregare gli spettatori di tutto il mondo con uno stile sempre in bilico tra la violenza e la poesia, cinismo e romanticismo.
[Il trailer di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera di Kim Ki-duk]
Gli screen quota introdotti negli anni ’70 furono fondamentali affinché il Cinema sudcoreano, tutto sommato giovane rispetto alle industrie concorrenti, non venisse soffocato dai prodotti di importazione.
Fu però Shiri di Kang Je-gyu (1999), un thriller d’azione basato sul timore di infiltrazioni spionistiche dalla Corea del Nord, a rendere concreta la possibilità di esportare i film all’estero.
Nella pellicola ci sono alcuni degli attori più importanti del Paese, tra cui Song Kang-ho e Choi Min-sik.
Il film ha battuto in patria il grande successo di Titanic e fu il primo vero segnale di riscossa dell’industria cinematografica locale.
Il Cinema sudcoreano a quel punto sarà pronto a diffondere i propri semi in tutto il mondo, tra le partecipazioni ai festival più importanti e incursioni originali nel Cinema di genere.
[Il trailer di Shiri]
Il segreto del successo degli ultimi 20 anni di Cinema sudcoreano non sta solo nella bellezza delle sue opere, ma anche nell’apparato produttivo e distributivo; tra i finanziatori dell’industria cinematografica contribuiscono i grandi conglomerati industriali come Samsung ed LG.
Miky Lee, produttrice esecutiva di Parasite, ad esempio, è la nipote di Lee Byung-chul, che negli anni '30 fondò la Samsung Group.
Il Cinema sudcoreano ad oggi vanta inoltre un importante sostegno governativo, basti pensare che Lee Chang-dong (lo incontreremo nella Top 8) ha coperto persino l’importante carica di Ministro della Cultura e del Turismo.
Il Korean Film Archive ha contribuito attivamente al recupero, alla digitalizzazione e alla diffusione delle pellicole tradizionali sudcoreane e ha realizzato un canale YouTubeattraverso cui è possibile fruire di decine di titoli gratuitamente, in lingua originale e sottotitolati in inglese.
[Il video promozionale di Korean Film Classic, il canale YouTube di Korean Film Archive]
La Corea del Sud è stata segnata da effluvi di sangue e di lacrime che vediamo ancora oggi sgorgare dalle cineprese dei suoi registi: uno stile eccessivo, sopra le righe, molto spesso critico, che porta sulle spalle il peso di una Storia complessa.
Il Cinema, che come ogni forma d’arte assorbe e rielabora le influenze della società, rileva e riflette tutta una serie di idiosincrasie all’interno di un Paese spaccato tra la volontà di urlare al mondo tutte le problematiche e la fascinazione verso lo stile di vita occidentale, il desiderio di affermarsi nella propria indipendenza e quello di riappropriarsi delle tradizioni, brutalmente evirate per decenni dalla dominazione giapponese e oscurate dall’ombra degli americani.
La redazione di CineFacts.it ha indicato otto titoli - tenendo fuori gli ormai celeberrimi Park e Bong - per riscoprire le bellezze della cinematografia di un Paese che, con furbizia e costanza, si è saputo imporre tra le più importanti realtà del panorama contemporaneo.
[Il trailer di House of hummingbird di Kim Bora, un film che ha fatto incetta di premi in tutto il mondo, di una regista di cui sicuramente sentiremo parlare in futuro]
In tal senso è individuabile già un empireo dello star system sudcoreano e una serie di nomi ormai cari ai media di tutto il mondo.
Oltre ai già citati Song Kang-ho (Parasite, Memories of Murder, Snowpiercer, Thirst, Secret Sunshine, Il buono, il matto e il cattivo) e Choi Min-sik (Oldboy, Lady Vendetta, Ebbro di donne e di pittura, The quiet family), possiamo citare Gong Yoo (Train to Busan, L'impero delle ombre, Squid Game), Bae Doo-na (Mr Vendetta e The host, ma anche il giapponese Air Doll e alcune incursioni nel mondo occidentale come Cloud Atlas e la serie TV Sense8), Kim Min-hee (The handmaiden, Right now wrong then, On the beach at night alone), Moon So-ri (Oasis, La moglie dell'avvocato), Youn Yuh-jung (di cui ricordiamo molte collaborazioni con Hong Sang-soo e Im Sang-soo, oltre al recente Oscar come Migliore Attrice non Protagonista per Minari) e Lee Byung-hun (Joint Security Area, I saw the devil, Bittersweet life).
Considerando il recente successo di Squid Game e l'interesse verso il k-drama e le serie TV locali, è possibile che altri attori sudcoreani facciano il salto sul grande schermo, com'è successo per Choi Woo-shik, il giovane protagonista di Parasite.
[Song Kang-ho e Choi woo-shik con Bong Joon-ho: l'unione di una vecchia e di una nuova generazione di attori?]
Alla luce di quanto appena detto, pare lecito asserire come - anche per un osservatore distratto - l'esplosione di apprezzamento del grande pubblico verso il Cinema sudcoreano non fosse poi così imprevedibile: sono anni che addetti ai lavori, festival cinematografici e realtà di settore si impegnano nella divulgazione delle produzioni del "Paese dei cinque petali".
Va da sé, vista la natura di questa Top 8, che la maggior parte dei titoli selezionati dalla redazione (su richiesta dei nostri sostenitori Patreon) sia purtroppo disponibile solamente in home video: la nostra speranza è che con il crescente interesse verso il Cinema sudcoreano aumenti anche la proposta sui servizi streaming.
Se si parla di pietre angolari del Cinema sudcoreano, Hanyeo è uno di quei film che proprio non possono essere omessi.
Si tratta infatti dell'opera probabilmente più celebre della filmografia di un autentico gigante come Kim Ki-young, capace di generare una trilogia, di ispirare un remake e influenzare generazioni intere di cineasti in ogni angolo del mondo.
L'intreccio narrativo di Hanyeo ruota attorno alla famiglia di Kim Dong-sik, insegnante di musica sposato con una donna incinta e padre di due figli, il quale sceglie di assumere la domestica Myung-sook per badare alla sua casa ancora in ristrutturazione.
La neo-assunta, in un primo momento mostratasi educata e servizievole, si rivela ben presto ossessionata dal suo padrone e fermamente intenzionata a sedurlo.
Ciò che ne scaturisce è, pertanto, un triangolo morboso nel quale le dinamiche sociali vengono sovvertite dalla naturale predisposizione al dominio della domestica.
Su queste basi, tratte da una storia realmente accaduta a Geumcheon, Kim Ki-young - che del film è anche produttore, soggettista, sceneggiatore e montatore - ha dato vita a una commistione tematica del tutto irripetibile.
Mediante dei personaggi quasi prigionieri all'interno delle mura domestiche, Hanyeo critica la condizione della donna all'interno della borghesia coreana, corrode l'istituzione familiare alle fondamenta e scardina la rigidità dei costumi del paese toccando temi quali il tradimento, l'aborto e la perdita in ogni sua sfaccettatura.
Il tutto senza che il film perda mai aderenza con il proprio desiderio di mostrare la brutalità delle pulsioni umane secondo gli stilemi del Cinema di genere.
Critica sociale, tensione ed erotismo si ritrovano dunque condensati perfettamente in un'unica opera all'alba degli anni '60: insomma, non è proprio un caso che Hanyeo sia stato più volte citato da Bong Joon-ho come uno dei suoi film preferiti, oltre che una delle ispirazioni principali per il suo Parasite.
Ci sono degli autori cinematografici capaci di insinuarsi nel cuore dello spettatore, di spadroneggiare con i sentimenti, muovendoli con agilità dalla tristezza alla meraviglia.
Ci sono film dotati di una potenza espressiva tale da incastrarsi nella memoria del fruitore; non importa quanti chilometri di pellicola abbia ingurgitato dopo la visione: restano lì, impressi, tra la razionalità e il ricordo sopito.
Se si uniscono questi due elementi abbiamo il Cinema di Lee Chang-dong (Peppermint Candy; Burning - L’amore brucia) e il suo Oasis.
Il film, premiato a Venezia nel 2002 con il Leone d'argento per la regia, racconta la storia di Jong-du (Sol Kyung-gu), un asociale bordeline appena uscito dal carcere.
È giovane, ha una famiglia, eppure non c’è nessuno ad attenderlo al suo rilascio.
E poi c’è Gong-ju (Moon So-ri), ragazza tetraplegica con difficoltà espressive e motorie che vive chiusa in casa, inerte, sola.
È giovane, ha una famiglia, ma il fratello non ha tempo per lei, così la fa sfamare da una vicina di casa quasi fosse un animale domestico.
Il film rappresenta l’incontro fra due emarginati, due storie che si intersecano con una potenza emotiva non comune nel panorama cinematografico mondiale contemporaneo.
Chang-dong tuttavia non gioca col dramma, non enfatizza il sentimento, né dal punto di vista della scrittura né da quello tecnico rappresentativo, utilizzando una messa in scena estremamente concreta, una fotografia scevra da qualsiasi orpello estetico e mostrando dinamiche sociali spesso abrasive.
Il regista di Secret Sunshine si affida ai suoi due straordinari protagonisti (Moon So-ri venne insignita del Premio Marcello Mastroianni) per raccontare un contesto sudcoreano alienante, razzista, dove il debole (o il “problematico”) viene sistematicamente isolato.
Nel leggere queste righe si potrebbe pensare a un dramma senza scampo, pieno di dolore e miseria.
Eppure in Oasis esiste la dolcezza dell’incontro, della mutua comprensione fra esclusi, della felicità per un karaoke o un ballo in autostrada; in Oasis si parla di limiti, disabilità, amore con una delicatezza rara e mai stucchevole.
Il terzo, imperdibile lungometraggio dell’autore sudcoreano è decisamente un film double face: tanto “ruvido” nella sua denuncia - tipica del regista nato a Taegu - quanto “morbido” per le sensazioni meravigliose che riesce a lasciarci addosso a fine visione.
Il 2004 è stato per Kim Ki-duk il suo annus mirabilis: risalgono infatti a quell’anno ben due film che ne hanno sancito la definitiva consacrazione e uno dei due è Ferro 3 - La casa vuota.
Il Cinema di Kim Ki-duk ha spesso trattato temi scottanti in maniera distaccata, attraverso pellicole spesso caratterizzate da rabbia e violenza a tratti disturbanti.
Nella sua carriera - interrotta prematuramente dalla morte nel dicembre 2020- il regista coreano tuttavia ha filmato anche storie pervase da poetico lirismo. Ferro 3 - La casa vuota rientra certamente nella seconda categoria, pur non mancando di scene forti.
Il film racconta le peripezie di Tae-suk, giovane solitario che trascorre i suoi giorni in case temporaneamente lasciate vuote dai proprietari. La sua vita si dipana senza particolari sussulti fino alla conoscenza di Sun-hwa, donna maltrattata dal marito.
Dall’incontro di queste due anime nascerà un sentimento messo poi a dura prova da un evento inatteso.
Ricordo di aver visto per la prima volta Ferro 3 - La casa vuota agli albori della mia passione per il Cinema e fui colpito in primis dalla lentezza del ritmo, fattore inusuale per me che all’epoca ero fruitore per lo più di un certo tipo di Cinema occidentale.
Il film di Kim Ki-duk è una parabola sulla solitudine (condivisa) che assume sin dal suo incipit contorni onirici; d’altronde, anche il finale suggerisce quanto possa essere difficile talvolta distinguere la realtà dal sogno.
I dialoghi sono ad esempio ridotti al minimo: i due amanti non si scambiano alcuna parola, sono gli sguardi e i gesti a valere più di ogni possibile comunicazione verbale.
In tale contesto, naturalmente, grande importanza assumono gli effetti sonori e il delicato sottofondo musicale che accompagna alcuni momenti del film, mentre l'atipica love story di Tae-suk e Sun-hwa, è seguita dalla cinepresa con occhio discreto e puntuale.
Questo piccolo gioiello della filmografia orientale venne presentato alla 61ª Mostra del Cinema di Venezia: la giuria assegnò allora il Leone d’argento - Premio speciale per la Regia proprio a Kim Ki-duk, reso da tale vittoria ancor più noto in ambito internazionale.
È impossibile parlare di Cinema sudcoreano degli ultimi decenni senza citare l’exploit di Na Hong-jin.
The Chaser, The Yellow Sea e Goksung – La presenza del diavolo: tre film, tutti grandissimi successi di pubblico e critica presentati a Cannes (il primo in competizione, il secondo nella selezione di Un Certain Regard e il terzo fuori concorso).
Un regista capace di incarnare quella perfetta alchimia che si è creata in Corea del Sud tra il Cinema di genere e i nuovi autori degli anni 2000, di cui Park Chan-wook e Bong Joon-ho sono perfetta espressione.
In particolare The Chaser è un thriller che gioca con i toni del noir e del giallo seguendo le indagini di Jung-ho, ex poliziotto riciclatosi come protettore, il quale, sospettando che un rivale gli stia portando via alcune sue ragazze, si mette alla ricerca di Mi-jin, l’ultima prostituta scomparsa.
Na flirta con il clichè nella creazione di questo antieroe stereotipico per il genere e lo fa scillare tra la disillusione che permea il film e un’estrema genuinità che lo allontanano dalle maschere del Cinema classico noir americano. A Jung-ho contrappone la bestialità e la lucidità di Young-min, in un connubio che è tra i motori principali del film.
In The Chaser, come in molto altro cinema sudcoreano contemporaneo, il centro dell’indagine non è scoprire il colpevole, ma seguirne la ricerca tra le pieghe di una burocrazia asfissiante e di una società sempre più lasciata a se stessa e ai suoi istinti più bestiali.
In questo Na è bravissimo nel dosare ritmo e attese in un film che viaggia costantemente sul bilanciamento tra la ricerca della donna e la bassezza del mondo che questo viaggio ci svela: da Jung-ho stesso - che è mosso solo dalla volontà di recuperare i debiti lasciati dalle sue prostitute - a scendere assistiamo a una carrellata di figure spregevoli, che ben si adattano al degrado che ci viene mostrato.
In un contesto sporco e ferino il regista è bravissimo nello sfruttare una certa estetizzazione dell’efferatissima violenza che mette in scena, donando così al film un’immersività totale e una ineluttabilità che resta attaccata allo spettatore.
Tra inseguimenti nei vicoli e stanze segrete The Chaser è uno sguardo che poco a poco mette a fuoco un contesto sociale, come quello sudcoreano, fatto di degrado, violenza e lontananza di qualsiasi forma di controllo e ordine e che sembra non suggerire alcuno spiraglio di ottimismo a breve termine.
Castaway on the moon è un film che riscosse subito grande successo, in particolar modo in Italia trionfando al Far East Film Festival di Udine dove ottenne quasi l'unanimità dei voti.
Il nostro protagonista, Kim Seong-geun (Jae-yeong Jeong), ci viene introdotto nel tentativo di buttarsi da un ponte, spinto dalla voglia di mettere fine alla propria vita a causa sia della bancarotta sia della sua ormai ex ragazza.
Purtroppo per lui fallisce miseramente e si risveglia su un’isoletta nel fiume Han.
In un primo momento cerca di contattare i soccorsi, poi rinuncia e ricomincia con vari tentativi di suicidio. Più ci prova, più si rende conto che effettivamente la vita su quell’isola non è poi così male: decide dunque di studiare dei metodi per vivere al meglio la sua nuova condizione.
Contemporaneamente, in lontananza, qualcuno lo osserva atrraverso la macchina fotografica: è una ragazza hikikomori, (interpretata da Ryeowon Jung) il cui nome ci verrà rivelato solo alla fine, impegnata costantemente su chat online e la cui unica connessione con l’esterno è ammirare la luna dalla finestra della propria stanza.
Per non rivelare troppo, basti sapere che i due cominciano ad avere una particolarissima forma di comunicazione che porterà entrambi a fare nuovi passi nel mondo e a sfidarsi l’un l’altro per cominciare ad accettare nuovamente la vita.
Hae-jun Lee utilizza un linguaggio particolare e delicato, smorzandolo in moltissimi momenti attraverso una componente ironica, rendendo così il suo secondo lungometraggio da regista decisamente dinamico.
Il film inizialmente presenta i due protagonisti come personaggi un po’ folli e bizzarri ma, in realtà, non sono altro che delle persone spezzate e sole, lontane dal voler risolvere problemi personali.
Il loro modo di fare, di parlare e di agire viene man mano scomposto e scardinato per dimostrare come ci sia sempre un motivo dietro ad ogni atteggiamento e che, attraverso l’amore (in questo caso romantico) e un tipo di vicinanza più spirituale che fisica, ci si possa effettivamente aiutare per stare meglio.
In Castaway on the Moon si sottolineal’importanza delle piccole cose, dei dettagli, rappresentati in modo mai banale: un elemento che rende questa commedia romantica assolutamente creativa e immancabile nella lista dei titoli sudcoreani da non perdere.
Il tema della vendetta ricopre un ruolo cardine nel nuovo Cinema sudcoreano e I Saw the Devil di Kim Ji-woon ne rappresenta forse il volto più sporco e brutale.
La storia che getta le fondamenta per lo sviluppo del film è abbastanza classica: una persona in cerca di giustizia privata nei confronti di un serial killer.
È tuttavia l'imprevedibilità con cui I Saw the Devil si addentra in un tunnel oscuro, inumano, popolato da personaggi dagli occhi demoniaci a rendere il film semplicemente agghiacciante.
Kim Ji-woon pare non essere troppo interessato ai modus operandi delle indagini investigative (come nel caso di Memorie di un assassino), quanto piuttosto all'esplorazione della psicologia delle due pedine messe in campo, dove la sete di vendetta di Soo-hyun (Lee Byung-hun) finisce per mostrare la banalità del male, captando quel lato della ferocia umana che si pensava appartenere esclusivamente al serial killer Kyung-Chul, interpretato da un Choi Min-sik mostruosamente in parte.
Si instaura dunque, durante lo sviluppo del film, un rapporto tra vittima e carnefice non più dicotomico, sintonizzato su posizioni da "bianco o nero", bensì contaminato da grigi (macchiati spesso dal sangue dei cadaveri), che in I Saw the Devil raggiungono contorni grandguignoleschi.
Non c’è perciò un percorso catartico - in questo è esemplificativo il finale - ma una vera e propria discesa negli inferi della ferocia umana, un cammino necessario secondo Soo-hyun per vendicare la propria compagna.
Un percorso utile a conoscere quel diavolo capace di tanto orrore, anche se, alla fine, si percepisce come il vortice di violenza mostrato scaturisca più dai sensi di colpa che da una vera e propria necessità di vendetta.
L’eclettico Kim Ji-woon dirige I Saw the Devil con la maestria che contraddistingue le sue opere, premendo sul dinamismo della regia quando serve (penso alla scena del taxi) e calibrando al millimetro i campi e controcampi nei momenti in cui la tensione si può tagliare con un coltello, confezionando un film soffocante - a metà strada tra l’horror e il thriller - e che lascia attoniti una volta conclusa la visione.
I Saw the Devil è una danza con il diavolo al ritmo dei Rolling Stones... ma dal sapore decisamente più amaro.
Zombi su un treno: il pitch meeting di Yeon Sang-ho per questo film probabilmente è stato riassunto in queste quattro parole, che bastano a dare l'idea del concept di Train to Busan.
Danno l'idea, ma non raccontano fino fin fondo.
I film con i morti viventi hanno avuto negli ultimi anni un'inaspettata vitalità - scusate il paradosso - con prodotti arrivati da più o meno tutte le cinematografie mondiali più note; Train to Busan è però a mio avviso uno dei pochissimi davvero degni di nota.
La trama potrebbe davvero essere scritta su un francobollo, eppure il regista (anche soggettista e sceneggiatore) coglie l'occasione per riprendere il discorso lanciato dal papà di tutti gli zombi George A. Romero: il messaggio sociale è forte ed evidente, la lotta tra poveri in funzione della sopravvivenza evidenzia gli egoismi, gli opportunismi e le meschinità della società occidentale intrisa di capitalismo.
Il protagonista interpretato da Gong Yoo - lo avete visto recentemente come reclutatore di poveracci in Squid Game - e la figlia interpretata da Kim Su-an sono una coppia che solo apparentemente segue i cliché: un padre assorbito dal lavoro e una bimba che non lo vuole, preferendo prendere il treno per recarsi dalla madre mentre il mondo è in preda a un virus devastante che trasforma le persone in affamatissimi zombi.
L'arco narrativo dei due non è scontato, così come non lo è quello dei personaggi secondari, nonostante anche questi sulla carta siano quanto di più "già visto" si possa immaginare.
Gli zombi di Train to Busan si tramutano in vere e proprie creature del terrore, che avanzano spinte dalla voglia di infettare i pochi ancora sani, muovendosi come insetti brulicanti votati all'inevitabile autodistruzione; si schiacciano, si rompono, si spezzano, ma continuano inesorabili: a metà tra gli infetti boyliani di 28 giorni dopo e i non morti di World War Z, dimostrano anche un certo acume e capacità di aprire porte e finestrini che rende il tutto ancora più spaventoso.
Train to Busan è un viaggio veloce e claustrofobico, girato con maestria nelle scene d'azione e con classe sui primissimi piani dei protagonisti che diminuiscono minuto dopo minuto; almeno un paio di scene entrano di diritto nella Storia del genere, con un ribaltamento di aspettative che coglie impreparati: terribile, divertente, fotografato quasi interamente in luce diurna e con più di un tocco di classe, il film di Yeon colpisce e commuove, inorridisce e intrattiene.
Per ricordarci che la vita che stiamo vivendo la dobbiamo a chi abbiamo accanto e non solo a noi stessi.
Per ricordarci che nel momento in cui diventiamo degli esseri umani migliori, il nostro sé precedente è soltanto un'ombra destinata a cadere.
Nelle opere del pittore impressionista Claude Monet osserviamo la ripetizione costante di alcuni soggetti tratti dall'osservazione della natura circostante, con l'intento di catturarli "nell'immediatezza di un attimo irripetibile".
È solo il più emblematico di molti casi.
La Storia della musica classica è disseminata da esempi di variazione sul tema, compositori che applicano delle modifiche alla linea melodica, allo schema armonico, al ritmo o alla strumentazione impiegata.
Anche la Storia del Cinema pullula di autori che hanno scelto di analizzare, dirigere e restituire al pubblico osservazioni differenti di uno stesso tema; il pluripremiato e prolifico Hong Sang-soo è uno di quelli.
L'uomo e la donna, il modo in cui si attraggono e si respingono, i centri di gravità nei rapporti, il modo in cui le relazioni - ma soprattutto i singoli personaggi - si inseriscono nelle aspettative della società ricorrono ossessivamente nella sua opera.
Hong Sang-soo, più che dai propri connazionali, pesca a piene mani l'eredità di Eric Rohmer.
L'attrice Younghee (Kim Min-hee), dopo aver intrapreso una relazione con un uomo sposato, decide di partire per Amburgo e prendersi una pausa di riflessione. Al ritorno in Corea del Sud si ritrova con un gruppo di amici; qui, complice un ingente quantitativo di alcol, si scaglia contro i commensali, gli uomini e il regista.
Il mare, vasto e misterioso, è infine simbolo di malinconia e libertà, due aspetti che si intersecano ineluttabilmente sulla linea della solitudine.
La musica di Franz Schubert ribattuta a più riprese, la scenografia minimalista e le zoomate improvvise sono sempre funzionali al tentativo di rappresentare le sensazioni, le contraddizioni, le paure e il processo di crescita della protagonista.
La storia di On the beach at night alone ha un valore aggiunto per il regista e l'attrice protagonista: le dinamiche della relazione e la fuga della donna all'estero ricalcano infatti alcuni momenti della relazione romantica proprio tra Hong Sang-soo e Kim Min-hee.
Avviene un'evidente sovrapposizione tra il piano filmico e la realtà.