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Queer - Recensione: fin dentro l'abisso del desiderio

Queer di Luca Guadagnino è un viaggio lisergico nell'ossessione per il desiderio del protagonista

Queer è un film lacerante sull’ossessione per il desiderio.

Tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, l’adattamento per il Cinema di Luca Guadagnino sceglie di seguire la scrittura frammentaria dell’autore statunitense intercettandone perfettamente l’essenza.

 

Diviso in tre atti più un epilogo, la struttura adottata da Justin Kuritzkes (Challengers) per la sceneggiatura è calibrata all’evoluzione del linguaggio filmico di Guadagnino, forse mai così - a suo modo - sperimentale come in questo caso.

Nel primo atto sembra di assistere a un musical, non tanto per l’uso della colonna sonora quanto per la leggiadria dei movimenti dei personaggi messi in scena. 

Come se si trattasse di un film muto, seguiamo il corteggiamento sfrenato da parte di William Lee (Daniel Craig) nei confronti di Allerton (Drew Starkey) in una Città del Messico ricostruita negli studi di Cinecittà.

 

L’artificiosità della scenografia - con tanto di sfondi dipinti - è utile a infiammare la visceralità dei corpi dei due protagonisti, che sembrano ripetere a memoria i passi di una danza dell’amore cinicamente studiata da entrambi.

 

 

[In Queer Daniel Craig mette a nudo i sentimenti e il corpo]
Queer

 

La loro è una partita a scacchi volta a rivelare le rispettive debolezze, d’altronde la sequenza dell’incontro fra i due sulle note di Come As You Are dei Nirvana è girata in maniera tale da esaltare la proiezione dello sguardo di uno verso l’altro, un duello che Lee ha perso in partenza.

 

Finita la fase della conoscenza inizia quella dell’ossessione.

L’ossessione di Lee per Allerton, per ciò che rappresenta, per ciò che lui non è. Lo sguardo del protagonista si fa scopico, annebbiato dall’alcol e dalle droghe e da un’insofferenza di fondo dovuta a traumi irrisolti del passato. 

 

Guadagnino con il passare dei minuti trasforma Queer in una sorta di horror lisergico nella mente di William Lee, richiamando in determinate sequenze Il pasto nudo di David Cronenberg (altro esaltante adattamento del romanzo di William S. Burroughs). 

Una scolopendra che ritorna a più riprese diventa il passepartout per addentrarci nell’abisso della dipendenza affettiva, dove l’ingabbiamento in una condizione sessuale rappresenta il dramma e la tenerezza del vivere.  

Essere Queer all’interno del film rappresenta un’identità che indica un’appartenenza a uno stile, a un linguaggio. Se questa determinata appartenenza viene minata da un elemento esterno (Allerton/Scalopendra) il passo verso l’ignoto è un rischio, ma anche una necessità. 

 

Il secondo capitolo è quindi il naturale prosieguo del viaggio del protagonista verso gli inferi, una giungla conradiana per scoprire il potere dello Yage, la droga secondo cui Lee può esercitare la telepatia e, di conseguenza, il controllo.

 

Come nei peggiori incubi, però, il desiderio si trasforma in un abbandono alla propria personalità che porta a uno svuotamento del sé (letteralmente).

 

 

[Ai nostri amori: in Queer gli elementi della scenografia sono già una dichiarazione d'intenti]
Queer

 

Capiamo dunque che Allerton era solo un’epifania, un pass per il teatro astratto del ricordo.

 

Il sentimento viene tradotto in linguaggio cinematografico e dall’horror passiamo a un viaggio spazio-temporale come se ci trovassimo nella stanza finale di 2001: Odissea nello spazio.

 

Per Lee non c’è più bisogno di inseguire la propria ossessione perché ormai fa parte dell’etere, un corpo celeste appartenente a un universo di stelle morte. 

 

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