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Eden è il nuovo film di Ron Howard con Ana de Armas, Jude Law, Vanessa Kirby, Daniel Brül e Sydney Sweeney; distribuito in Italia da 01 Distribution.
A distanza di tre anni da Tredici vite, il regista torna nuovamente al cinema con un’altra storia ispirata a fatti realmente accaduti.
Eden ci dà l’illusione di una sorta di svolta nel Cinema del regista senza tuttavia riuscire, nonostante la determinazione che emerge dai suoi propositi, a ottenere risultati a mio avviso pienamente soddisfacenti.
[Il trailer di Eden]
Sul piano narrativo Ron Howard è certamente un regista tradizionale e rigoroso.
Nella maggioranza dei casi il suo interesse appare direzionato più che altro verso l’accessibilità di ciò che scrive e dirige. Il senso del suo messaggio è contenuto all’interno di un raggio che il regista si impegna quasi sempre ad ampliare, certo di poter arrivare tanto al pubblico quanto alla critica.
Attento alla costruzione dei personaggi e al realismo scenico, a partire soprattutto dagli anni 2000 Ron Howard si è dedicato ad alcune true stories, verosimilmente per mettere ancora più in risalto le tematiche centrali della sua poetica tipicamente statunitense, dalla resilienza al potere della volontà individuale.
Lavorando in modo consistente sulla tridimensionalità e verosimiglianza dei suoi personaggi e dedicandosi sempre più spesso al racconto di eventi reali, Howard è senza dubbio un regista che ha scelto di porsi al servizio delle storie, evitando di includere nella messa in scena generale una sua particolarità stilistica.
In un primo momento, Eden sembra quasi stonare all’interno della filmografia di Howard.
Sembra un’opera piuttosto lontana dalla sua consueta formalità e, in effetti, alcune scelte rendono Eden superiore, in quanto a adattabilità con il contesto cinematografico attuale, rispetto ai film più recenti del regista.
In realtà, l’ultimo film di Howard è tutt’altro che un’anomalia e la sua intera costruzione ne è la prova schiacciante.
[Daniel Brühl e Sydney Sweeney in una scena di Eden]
Eden è la trasposizione cinematografica del cosiddetto Galapagos Affair (per citare il documentario di Daniel Geller e Dayna Goldfine), ovvero la misteriosa sparizione della Baronessa Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn e del suo amante Robert Phillipson.
Intorno agli anni ‘30, infatti, l’isola di Floreana delle Galapagos venne colonizzata da tre nuclei familiari differenti: i primi furono il dottor Friedrich Ritter e la compagna Dora Strauch, determinati a fondare una nuova filosofia radicale capace di rivoluzionare la società dell’epoca attraverso la rinuncia a ogni bene e privilegio; i secondi, ispirati dall’ambizione e dal coraggio dei due coniugi, furono Heinz e Margaret Wittmer, una coppia di neo-sposini alla ricerca di benessere e stabilità.
L’ultima a giungere sull’isola insieme ai suoi amanti-servitori fu Eloise, un’eccentrica baronessa interessata a costruire un esclusivo resort per miliardari.
La tensione tra questi tre nuclei aumentò con il passare del tempo, complice la reale difficoltà di sopravvivenza verso la quale ognuno doveva prima o poi fare i conti.
Ron Howard racconta questa convivenza forzata sfruttando la formula del survival thriller e servendosi di un cast notevole.
Jude Law è l’idealista, scorbutico e geniale dottor Ritter, mentre Vanessa Kirby è la sua quieta compagna, una donna malata di sclerosi multipla che lotta contro il progredire della malattia mentre si prende cura dei suoi amati animali.
Heinz e Margaret Wittmer sono Daniel Brühl e Sydney Sweeney: il primo è un ex militare afflitto dai traumi della guerra che trova nel progetto del dottor Ritter l’occasione per costruirsi una nuova vita, la seconda è una giovane donna che, pur di essere sposata a causa delle pressioni sociali, ha accettato di condividere la sua vita con un uomo psicologicamente compromesso, più vecchio di lei e con un figlio malato di tubercolosi avuto da un’altra donna.
La baronessa Eloise è invece Ana de Armas, una donna che sembra aver costruito intorno a sé stessa una vera e propria pantomima, allo scopo di riuscire a raggiungere il successo economico, politico e sociale diventando una signora rispettata e amata da tutti, proprietaria di un gigantesco impero.
[Ana de Armas, Tony Wallace e Felix Kammerer in una scena di Eden]
Al centro della storia c’è senza dubbio il tema dello scontro tra la natura e la civiltà, il concetto di colonizzazione e l’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Una rilevanza però la assume anche la critica all’istinto primordiale: lo sguardo verso l’essere umano che, costretto alla sopravvivenza, si abbandona inevitabilmente a uno stato primitivo dimenticando la sua morale e i suoi valori civili.
Nonostante Ron Howard sperimenti maggiormente con la violenza in Eden rispetto ai suoi precedenti lavori, la sensazione è comunque quella di un regista che, in fondo, avrebbe volentieri evitato di mettere in scena una certa crudeltà visiva e narrativa.
Quella di Eden è una brutalità fin troppo trattenuta e immediatamente censurata da affettuose rassicurazioni: non c’è tempo per esplorare la tragicità della cattiveria umana, l’importante è sottolineare che la speranza di una salvezza universale esisterà in eterno.
Dal mio punto di vista è proprio questo il problema principale di Eden.
Sul piano contenutistico la storia dell’Isola di Floreana è ricca di prospettive potenzialmente esplorabili, tuttavia Howard si aggrappa totalmente alla storia vera e, anzi, attinge in modo consistente alle autobiografie di Dora Strauch e Margaret Wittmer - che raccontano la storia attraverso punti di vista opposti - dichiarando palesemente il suo schieramento rispetto alle testimonianze di Margaret.
Contemporaneamente abbatte con prepotenza la mitologia costruita intorno al personaggio del dottor Ritter, distruggendo soprattutto ciò che rappresenta.
Il dottor Ritter è un uomo che sceglie di rinunciare alla civiltà e alla morale imposta dalle convenzioni del tempo perché convinto che ogni regola sociale vada letta esclusivamente come invenzione narcisistica partorita dalla corruzione della mente umana. L’arrivo di nuovi e indesiderati vicini lo stimola a ulteriori riflessioni, tanto da fargli iniziare a mettere sullo stesso piano uomini e animali, ma insieme a ciò si sprigiona una bassezza, persino intellettuale, che porta il personaggio a un’eccessiva distruzione di sé.
Indubbiamente Howard si affida alle testimonianze, ma l'annientamento di un personaggio come il dottor Ritter è, inevitabilmente, la ridicolizzazione della sua ideologia.
Jude Law nei panni del dottore si trasforma gradualmente in un energumeno patetico, governato da soli istinti primordiali e incapace, di punto in bianco, di riflettere sui cambiamenti sociali dell’isola in senso filosofico e antropologico.
[Jude Law in una scena di Eden]
La disumanizzazione forzata di Friedrich Ritter va di pari passo con l’accentramento, in senso narrativo, del personaggio di Dora Strauch la quale, stoica, si oppone alle follie del compagno per mantenere intatti i valori che fino a quel momento hanno governato le loro esistenze.
Il focus su questo aspetto è però troppo debole per evitare che passi l’idea di un’ideologia intesa come sciocca utopia per persone fragili e disturbate.
Ron Howard rifiuta completamente il nichilismo e, anzi, lo mette sullo stesso piano dell’avarizia. Sceglie per Eden due nemici diversamente uguali: una finta baronessa che vuole arricchirsi sfruttando ciò che non è suo e un medico ambizioso sull’orlo di una crisi di nervi.
Cosa rimane dunque?
La coppia perbene che ha scelto di fuggire dalle atrocità del mondo in cerca di una migliore prospettiva di vita.
Eden si risolve dunque attraverso una visione riduttiva e tradizionalista della salvezza umana, l’idea che ognuno di noi possa sperare nella totale assoluzione solo attraverso l’integrità e la compattezza della propria famiglia.
Chiaramente, resta difficile separare Eden dall’attuale situazione politica degli Stati Uniti, anche perché il regista è stato il primo a sentirsi in dovere di commentare i recenti accadimenti, colto (forse) nell’imbarazzo di aver diretto Elegia americana, adattamento cinematografico del libro di memorie di J. D. Vance realizzato cinque anni fa, quando il Vice Presidente degli Stati Uniti d’America era ancora un forte sostenitore del movimento Never Trump.
La volontà di attualizzare questa bislacca e misteriosa storia degli anni '30 dandogli un carattere universale è piuttosto chiara in Eden a partire dall’importanza data ai personaggi femminili e alle loro interpreti.
Sydney Sweeney e Ana de Armas interpretano due tipologie di personaggio piuttosto tipiche nel contesto delle loro carriere: Sweeney nei panni di una ragazza ingenua che svela improvvisamente un temperamento solido e deciso mi ha (purtroppo) quasi ricordato la sua suor Cecilia in Immaculate - La prescelta; mentre de Armas ha dimostrato come sempre di sapere perfettamente interpretare personaggi femminili psicotici e libertini che nascondono una fragilità pietosa e disarmante.
Sul piano recitativo la più interessante è sicuramente Vanessa Kirby, forse anche grazie alla costruzione più raffinata e sottile del suo personaggio. La fisicità stanca, il corpo zoppicante e il volto stravolto dalla vita selvaggia dell’isola la rendono quasi una creatura soprannaturale, disarmata di fronte a un ricatto morale che la consuma proprio come la sua malattia.
La sua ottima interpretazione mi ha fatto pensare a quanto mi piacerebbe vedere più spesso Kirby al cinema.
[Vanessa Kirby in una scena di Eden]
Eden è dunque un film indubbiamente ottimo da un punto di vista di messa in scena.
Floriana per esempio è un luogo estremamente interessante per come sceglie di riprenderlo Ron Howard che evita infatti di riportare sullo schermo i soliti cliché visivi della paradise island tipici dei survivor movie.
Di fatto il titolo stesso è una provocazione: l’isola non è il luogo in cui si trova il paradiso terrestre, bensì una minaccia vera e propria per l’essere umano, un habitat completamente inospitale e pieno di insidie.
Allo stesso tempo però, a mio parere Eden si ferma al piano di visivo e crolla in quanto a sostanza, rivelando una piattezza e un’inconsistenza intrinseca.
Un film che sembra puntare a una riflessione più ampia sull’essere umano, dando modo allo spettatore di meditare sul nostro attuale modo di vivere, che finisce invece per trovare soluzioni convenienti e davvero poco stimolanti.
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