Una classifica torrida e bollente, in cui la redazione di CineFacts ha selezionato per voi 8 scene di sesso vietate ai minori, è un buon rimedio per l'inverno, dove si sta più volentieri sotto le coperte... e non solo per guardare Netflix!
Non una semplice Top 8, ma una Top Hot-to (un po' di freddo ci vuole, dai), in cui abbiamo raccolto alcune delle scene erotiche più memorabili della Storia del Cinema.
Trattandosi di CineFacts non manca certo la varietà: coming-of-age on the road, drammi psicologici, grottesche allegorie politiche, storie di fantasmi e persino acrobatiche marionette.
La nostra classifica spazia tra generi e stili diversi, con un unico denominatore comune: spingere i confini del Cinema nella rappresentazione dei rapporti sessuali.
Ne sanno qualcosa John Cameron Mitchell e Vincent Gallo che in Shortbus e The Brown Bunny, rispettivamente, hanno sfidato la linea sottile tra Cinema e pornografia, esplorando sia la gioia che il dolore dell'atto sessuale.
Due estremi che affascinano anche registi come Alfonso Cuarón nel suo Y Tu Mamá También e Patrice Chéreau con Intimacy.
Sesso come celebrazione e sesso come distruzione, Eros e Thanatos: chi meglio di David Cronenberg e del suo Crash poteva rappresentare in immagini questo legame viscerale, ispirato al romanzo di James Ballard?
Un tema, quello dell'incontro tra desiderio e morte, che trova spazio anche nel macabro e visionario Taxidermia di György Pálfi, un gioiello del Cinema arthouse europeo tutto da riscoprire.
Sesso che attraversa ogni fase della vita, come direbbe Sigmund Freud, e ogni genere cinematografico.
Può diventare una chiave di lettura profonda, come in A Venezia... un dicembre rosso shocking del Maestro Nicolas Roeg, o una parodia irresistibile che prende in giro l'erotismo hollywoodiano, come nel caustico Team America di Trey Parker e Matt Stone.
Vi abbiamo scaldat* abbastanza?
Allora state pront* a spegnere le luci, accendere le candele e mettere su un disco di Joe Cocker: solo leggere queste righe vi farà sentire come Kim Basinger e Mickey Rourke in 9 settimane e 1/2!
[Introduzione a cura di Marco Lovisato]
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Se fossimo stati online nel 1973 avremmo sicuramente premiato A Venezia... un dicembre rosso shocking con l'Eternal Sunshine Award per il titolo italiano peggiore dell'anno; d'altronde, come saprete, in quegli anni nel nostro Paese andavano di moda per i thriller dei titoli molto lunghi e basati sugli animali o, appunto, i colori.
Molto meglio l'originale e più suggestivo Don't Look Now, all'epoca dell'uscita terzo film da regista dell'ex direttore della fotografia inglese Nicolas Roeg; un horror psicologico tratto dal racconto di Daphne Du Maurier (già autrice di Rebecca e Gli uccelli, entrambi adattati da Alfred Hitchcock) ambientato, come suggerisce il fin troppo didascalico titolo italiano, tra i canali della Serenissima.
Il film parla di una coppia inglese di stanza in Italia (alzi la mano chi ha pensato a Roberto Rossellini) che si trova ad affrontare inquietanti misteri e oscuri presagi mentre cerca nel frattempo di elaborare il lutto per la scomparsa della figlioletta.
Horror di atmosfera che compare spesso nelle classifiche dei critici dei migliori film dell'orrore (o dei migliori film britannici in generale), A Venezia... un dicembre rosso shocking è divenuto celebre per due motivi: il primo è l'incredibile finale, del quale non riveliamo nulla, il secondo è la scena di sesso "fin troppo reale" tra i due protagonisti Julie Christie e Donald Sutherland.
La scena in questione è divenuta celebre non solo per il realismo dell'interpretazione ma anche per il suo significato: i coniugi John e Laura Baxter, infatti, si abbandonano alla passione nella loro camera veneziana con un trasporto che, più che puramente erotico, esprime una ricerca di conforto dal dolore e di distrazione dalla triste ombra del lutto.
Nicolas Roeg, con il suo celebre montaggio frammentato e dinamico, capace di unire diverse linee temporali e stati emotivi in un'autentica sinfonia per immagini, eleva la sequenza a scena madre di un film in cui è la morte, non la vita, a farla da padrone.
Sutherland e Christie interpretano la scena con un trasporto fisico ed emotivo che cavalca la linea tra recitazione e trascendenza, tanto che per anni si è pensato che il rapporto tra i due fosse autentico - diceria poi smentita dagli attori stessi.
Un testamento alla bravura di due interpreti capaci di elevare un intero film grazie a una sola, intensa scena di passione.
Disponibile su MUBI e Apple TV
[articolo a cura di Marco Lovisato]
Posizione 7
Crash
di David Cronenberg, 1996
Il sesso in Crash è meccanico, cioè privo di emozione e di sentimento e Cronenberg lo fa capire subito: l’orgasmo non è più affare della carne, del contatto tra persone.
Ciò che è veramente è vitale nel mondo di Crash sono le auto, il traffico che ostruisce le arterie del nostro tempo.
D’altronde lo sguardo del protagonista è sempre rivolto verso il passato, come a dire che oggi non c’è più spazio per nulla che riguardi un possibile futuro. La naturale conseguenza di tutto ciò è una feticizzazione per quello che è già stato, già avvenuto.
Non è dunque un caso che in Crash vi siano delle persone - una sorta di setta - il cui piacere derivi dalla replica di incidenti famosi, come quello che si prese James Dean nel 1955.
La macchina diventa perciò l'unico involucro possibile per sentirsi vivi, ancora umani ed è nelle auto che il sesso viene praticato.
In particolare c’è una scena in cui il protagonista JamesBallard osserva la propria compagna scopare con Vaughan, uno dei membri della setta.
Ballard osserva i due dallo specchietto retrovisore, diventando spettatore di una messa in scena - nella vita è un regista - dove il piacere sconfina con la brutalizzazione della carne, quasi a rendere il corpo una parte di un ingranaggio.
Allo stesso tempo l’auto sulla quale i tre si trovano entra in autolavaggio: un’altra penetrazione simbolica, futuristica, ma sempre asettica.
Una donna citofona a casa di un uomo che non sembrava aspettarla, lui si chiede se quell'incontro fosse concordato: senza ulteriori parole tra i due scatta uno degli amplessi più sconvolgenti, famosi e controversi della Storia del Cinema.
In uno squallido appartamento londinese i corpi scomposti dei due si intrecciano sul pavimento, senza alcuna grazia ma con un'intensità che sembra quasi guidata dalla disperazione delle rispettive condizioni.
Solo in seguito scopriremo che i due protagonisti si chiamano Claire e Jay: da quel momento in poi ogni mercoledì diverrà il giorno dedicato ai loro incontri, caratterizzati dall'anonimato assoluto e dalla volontà di non conoscere nulla delle rispettive vite.
Due esistenze, quelle dei quarantenni al centro dell'opera, caratterizzate da un forte senso di perdizione, esattamente come l'irruenza e lo squallore del primo amplesso tra i due lasciano intuire.
L'apertura di Intimacy, quindi, riesce nello straordinario doppio intento di settare immediatamente il tono dell'intera opera e di sconvolgere gli spettatori con una scena che difficilmente dimenticheranno.
A destabilizzare pubblico e critica in particolare è una fellatio reale, non simulata né in alcun modo celata all'interno dell'inquadratura: un shock visivo che rappresenta senza alcun dubbio il momento maggiormente distintivo di un film in cui Patrice Chéreau indugia ripetutamente sul sesso tra i due protagonisti, osando dal punto di vista stilistico al punto da incollarsi ai loro corpi.
La giustapposizione del fallo di un allora sconosciuto ma eccelso Mark Rylance con il volto di un'attrice nota - una strepitosa Kerry Fox che per la sua prova in questo film vinse l'Orso d'argento al Festival di Berlino - peraltro in una fase così embrionale dell'opera, rappresenta uno squarcio troppo ampio del tessuto narrativo per buona parte degli spettatori, a quel punto quasi incapaci di proseguire in una visione conscia.
Inutile sottolineare come il film sia stato ricevuto in maniera eterogenea, malgrado la vittoria dell'Orso d'oro.
Intimacy, però, a partire dal suo straordinario incipit si sviluppa come una profonda analisi degli istinti umani ed è in grado di sedimentarsi nelle coscienze degli spettatori, riportando su schermo i temi di Ultimo tango a Parigi e consacrando Hanif Kureishi - autore dei racconti Lampada da notte e Nell'intimità da cui l'opera è tratta - come uno degli scrittori maggiormente in grado di catturare lo spirito del tempo nella Londra di fine millennio.
Premiato alla 58ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per la Migliore Sceneggiatura, Y tu mamá también è un film profondamente legato alla sfera della sessualità e in modo naturale riesce ancora oggi a sviscerare il puro erotismo attraverso diversi livelli di interpretazione, tra i quali occupa uno spazio importante quello di stampo politico-sociale.
Alfonso Cuarón unisce l’esperienza diretta dei protagonisti alla rievocazione (sostanziata dalla presenza di un narratore esterno) per costruire un road movie dal duplice carattere.
Dopo due produzioni statunitensi, La piccola principessa e Paradiso Perduto, il regista aveva infatti sentito la necessità di ritornare alle origini, girando un film in lingua spagnola ambientato in Messico con uno stile grezzo e privo di ingombranti strutture.
Per questo motivo Y tu mamá también pare da un lato rigettare la scuola hollywoodiana e dall’altro sfidare quella messicana, proponendosi come esempio di regia e scrittura conflittuale rispetto agli standard del Cinema del paese latino-americano.
Nel film Julio (Gael Garcia Bernal) e Tenoch (Diego Luna) sono due migliori amici che, in attesa di iniziare l’università, passano le loro giornate estive tra spinelli e sessioni collettive di autoerotismo, fino all’incontro con Luisa (Maribel Verdù), una donna spagnola più grande di loro che li porterà a intraprendere un viaggio in macchina alla scoperta delle più belle spiagge messicane.
Nel film le classi di appartenenza dei protagonisti si mescolano in modo consistente lasciando emergere i retaggi di ognuno.
Man mano che Città del Messico diventa più lontana, svelando una natura sempre meno contaminata dall’uomo, i protagonisti abbandonano gradualmente le loro inibizioni sociali: scoprono così la pulsione sessuale nella sua più pura e libera espressione, come forma di attrazione ancestrale nella dimensione della pubertà e come rinascita catartica al di là delle aspettative sociali.
La sequenza finale, prima dell’epilogo vero e proprio, mette in luce tale rivelazione: Cuarón intreccia i suoi protagonisti in un ballo a tre lento e passionale che culmina in un rapporto sessuale sognato, ricercato e quasi preteso.
Sono in particolar modo Julio e Tenoch, con il loro bacio appassionato, a lasciare andare per un attimo quell’ambiente machista in cui sono cresciuti, trovandosi così, al riparo da occhi indiscreti, uniti da un legame che abbatte confini, pregiudizi e sovrastrutture.
Chissà quale carriera da regista ci avrebbe regalato Vincent Gallo se non avesse scelto The Brown Bunny come secondo progetto.
Non basta infatti che il film soffra di un ritmo a dir poco letargico e che abbia ricevuto un'accoglienza critica spietata (ci arrivo tra poco): The Brown Bunny contiene anche una delle scene di sesso più esplicite mai portate sul grande schermo, un elemento sufficiente a scoraggiare i futuri investitori dallo scommettere sul personalissimo Cinema dell'eccentrico ma talentuoso attore.
In The Brown Bunny Vincent Gallo interpreta Bud Clay, motociclista sportivo che gira gli Stati Uniti tormentato dal ricordo di una relazione finita.
Durante il suo viaggio Bud si rifugia tra le braccia di diverse donne, anime solitarie come lui, senza però trovarvi conforto, fino a quando Bud riesce a riunirsi fugacemente a Daisy (Chloë Sevigny), la sua amata perduta, in una camera di motel.
Qui Bud e Daisy intraprendono un rapporto sessuale culminante in una scena in cui Chloë Sevigny esegue una fellatio non simulata su Vincent Gallo, con cui aveva avuto una breve relazione in passato.
Inutile dire che questa scena è stata ampiamente interpretata come uno shock gratuito, senza considerarla nel contesto di una narrazione che, al contrario, fa del sussurrato e del sofferto la sua cifra distintiva. La scena, infatti, non ha nulla di erotico o pruriginoso: l’atto sessuale diventa nel film un rituale catartico, un momento di incontro tra due anime irrimediabilmente sole.
Tra i più grandi detrattori del film troviamo il compianto critico Roger Ebert, che definì The Brown Bunny "il peggior film mai presentato in concorso al Festival di Cannes".
Un'affermazione che Vincent Gallo non prese alla leggera, rispondendo con "eleganza" definendo Ebert un "grasso maiale".
Ne scaturì una memorabile guerra di parole, culminata in una replica fulminante di Ebert: "Un giorno io diventerò magro, ma Vincent Gallo rimarrà sempre il regista di The Brown Bunny".
Gallo, a quel punto, augurò simpaticamente al critico un cancro al colon.
La poco elegante schermaglia si chiuse con un lieto fine: una volta visionata la versione rivista e accorciata del film, Ebert diede finalmente la sua approvazione con il suo celebre thumb up.
Anche per Chloë Sevigny non si materializzò quella "fine di carriera" che molti avevano previsto: nonostante la coraggiosa scelta di partecipare a una scena tanto controversa, l’attrice ha continuato a lavorare senza problemi sia per Hollywood che in opere indipendenti, affermandosi negli anni come un’autentica icona di stile e regina dell'indie.
Il film non è al momento disponibile per lo streaming, ma tenete d'occhio JustWatch per aggiornamenti o per trovarlo in altri Paesi (magari con l'aiuto di una VPN!).
[a cura di Marco Lovisato]
Posizione 3
Team America
di Trey Parker, 2004
Sono film come Team America che ci fanno immaginare quanto sarebbe bello, a volte, essere una mosca negli uffici degli studios, per assistere alle reazioni degli executive di Paramount di fronte al pitch di Trey Parker e Matt Stone.
I "malefici" creatori di South Park si saranno sicuramente divertiti a proporre l’idea di un lungometraggio animato nello stile dei Thunderbirds, con marionette mosse da fili e congegni elettronici per simulare il movimento. Questa tecnica, nota come Supermarionation, viene qui reinventata in versione Supercrappymotion - letteralmente "animazione supermerdosa" - dove i fili delle marionette sono volutamente visibili e i movimenti tutto fuorché fluidi.
Con Team America Parker e Stone dirigono la loro satira caustica e irresistibile verso lo star system hollywoodiano, prendendo di mira attori come George Clooney, Matt Damon (caricaturizzato come disabile), Alec Baldwin, Liv Tyler, Susan Sarandon e molti altri.
Il film è una parodia dei blockbuster d’azione campioni di incassi, in cui il Team America del titolo combatte il terrorismo dal suo quartier generale situato dentro il Monte Rushmore, ma l’opinione pubblica politicamente corretta si schiera contro il Team America, fomentata dalla G.A.Y. - Gilda Attori Yankee (o F.A.G., Film Actors Guild, nella versione originale), un’associazione di star di Hollywood che legami segreti con la Corea del Nord.
Nella battaglia tra il bene (gli U-S-of-A of course) e il male ne vediamo ovviamente di tutti i colori: da Michael Moore in versione suicide bomber a un Kim Jong-il canterino, il film è ricco del tipico umorismo di Parker e Stone, che ci regalano tra le altre cose una delle scene di vomito più esilaranti di sempre e una scena di sesso tra marionette talmente assurda da essere finita nel mirino della censura della Motion Pictures Association.
La scena in questione è una parodia delle tipiche sequenze romantiche nei film hollywoodiani, fintamente focose: i protagonisti Gary e Lisa si cimentano in posizioni sempre più improbabili e grottesche, il tutto in totale assenza di genitali.
Questa sequenza non rappresenta solo una gag esilarante, ma una critica mordace alla spettacolarizzazione del sesso nei film, dove l’esagerazione elimina qualsiasi senso di autenticità o intimità reale.
La lunghezza e la natura esplicita della scena hanno portato il duo a effettuare drastici tagli per ottenere il Rating R ed evitare il temutissimo NC-17 (vietato ai minori di 17 anni, una vera e propria condanna al box-office).
Curiosamente il film è stato distribuito senza restrizioni in diversi Paesi, scambiato per un innocuo film per famiglie.
Per chi volesse gustarsi la scena nella sua versione integrale, invece, può trovarla nella versione unrated disponibile in home video.
Disponibile su Apple TV+ e Paramount+
[a cura di Marco Lovisato]
Posizione 2
Taxidermia
di György Palfi, 2006
La tassidermia è il mestiere di ridare dignità e portata estetica a un corpo che non ha più nulla da dire.
In definitiva sancisce il processo dalla rozzezza alla nobiltà, lo stesso sul quale muove l’intero film.
Un corpo devastato che viene ricomposto in forma d’arte è una delle immagini in chiusura della terza e ultima parte dell’opera del regista ungherese György Pálfi.
L’impagliatore inscenato è figlio dei giorni nostri, il vecchio corpo sgraziato è quello di suo padre, vecchio atleta di caratura internazionale nella singolare disciplina di abbuffate allo stremo delle forze.
Il corpo è ancora una volta al centro della seconda sezione del film.
In questo periodo di giochi olimpici e paraolimpici ci viene ricordato che un ogni gesto fisico di livello agonistico suscita emozione per via della sua eccezionalità; emozioni senza distinzioni di sorta: ciascuna ha la sua dignità, anche le più repellenti.
Questo film evoca a più riprese disgusto nello spettatore, ma mai un disgusto gratuito e privo di senso che rinunci al processo di nobilitazione.
Carne sfatta che si fa scultura artistica, il gesto meccanico del fagocitamento asservito alla gloria sportiva.
Dopo la pulsione di morte vissuta dal figlio e quella del godimento orale incarnata dal padre non ne resta che un’ultima e fondamentale: la pulsione sessuale-genitale, della quale si appropria il nonno nella prima parte del film.
È nel contesto di povertà della campagna ungherese durante il secondo conflitto mondiale che assistiamo a un'intensa scena di sesso del protagonista.
La morte è la compagna quotidiana di questo povero angolo di mondo tanto quanto lo è la fame e nella fantasia sessuale di Morosgoványi, provocata da una forzata repressione dei suoi istinti, le tre pulsioni convergeranno in un’unica immagine ributtante e tuttavia in alcun modo fine a sé stessa.
Rare volte nel Cinema la sessualità è stata rappresentata con la stessa autenticità gioiosa e spensierata di Shortbus - Dove tutto è permesso.
Il regista John Cameron Mitchell, autore del cult movie Hedwig - La diva con qualcosa in più, ha sempre esplorato il tema delle relazioni umane con empatia, spontaneità e senza pregiudizi.
In Shortbus la poetica di Mitchell raggiunge il suo climax, con l'autore che flirta con la concezione comune di ciò che viene solitamente etichettato come pornografia e integra scene di sesso non simulato per rappresentare la gioia e la complessità del desiderio.
Ambientato nella New York post-11 settembre, Shortbus racconta la storia di diversi personaggi alla ricerca di connessione umana in una città segnata da solitudine e paura.
Arricchito da un cast corale formato da attori in gran parte non professionisti (selezionati dopo un processo di audizioni che ha visto la partecipazione di circa 500 persone), il Shortbus del titolo si riferisce a un salotto underground che funge da punto di incontro per persone che esplorano la reciproca sessualità come momento di condivisione e accettazione.
Tra loro troviamo Sofia (Sook-Yin Lee), una sessuologa intrappolata in una relazione inappagante e incapace di raggiungere l’orgasmo, che inizia un percorso di scoperta personale grazie anche alla guida di una coppia gay.
Scena madre del film è un'orgia che vede coinvolti i frequentatori dello Shortbus, girata con particolare partecipazione emotiva e sensibilità, in cui i rapporti sessuali tra gli attori sono in gran parte non simulati.
Lo stesso regista compare in un cameo mentre performa cunnilingus su una delle attrici; questo perché Mitchell, omosessuale, voleva trasmettere ai suoi attori un senso di liberazione, solidarietà e gioia.
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2006, Shortbus è stato accolto calorosamente con una standing ovation, ma anche aspramente criticato per il suo contenuto esplicito e, a oggi, rimane una delle opere più coraggiose nel loro intento di rappresentare la gioia della comunione umana in un'epoca segnata dalla paura e dalla solitudine.