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#top8

8 scenografie spettacolari per 8 film da vedere subito

Questo mese gli Amici di Cinefacts.it hanno scelto un'opzione particolare e la redazione ha provato a stupirvi con 8 scelte che speriamo non appaiano scontate! 

La scenografia è una delle arti cinematografiche più influenzate dal progresso tecnologico del nostro mondo. 

 

Comporre una scena oggi significa nella maggior parte dei casi, soprattutto se a quella scena si vuol dare l’aspetto di visione spettacolare, sfruttare l’utilizzo di computer grafica sia per i progetti in interni sia per quelli in esterni.

Il lavoro dello scenografo in ambito audiovisivo deriva in realtà dalla lunga e appassionata tradizione di pittori e artigiani impegnati sin dall’epoca classica nello sviluppo degli elementi visibili della scena teatrale; si tratta di un mondo affascinante che sarebbe in questa sede impossibile approfondire a dovere. 

Un’arte potentissima, capace di coadiuvare ogni singolo aspetto della messa in scena, dai costumi al trucco, dall’illuminazione al colore e alla recitazione. 

Le scelte scenografiche che dipendono dalle scelte di regia e sceneggiatura enfatizzano e al tempo stesso sono enfatizzate dall’impostazione delle luci e della fotografia che tendono sempre ad esaltare le strutture architettoniche, l’arredamento e gli elementi scenografici selezionati.

 

Il risultato è, in numerosi casi, una scenografia che è personaggio, racconto sotterraneo e parallelo all’intreccio del film.

 

 

[La scenografia di Povere creature!,vincitrice quest’anno del Premio Oscar, è un ottimo e recente esempio di una costruzione scenografica, tra computer grafica ed elementi reali, che racconta un'ulteriore storia rispetto a quella di Bella Baxter]

 

 

Soprattutto in ambito cinematografico, quello dello scenografo è un lavoro che permette un’ampia possibilità di scelta. 

 

A volte le ambientazioni si costruiscono interamente in grandi teatri di posa con tutti i vantaggi che la decisione comporta, altre volte invece si tende a mettere in luce i luoghi della realtà in funzione neorealista. 

Lo scenografo allora cambia continuamente volto: oggi è colui che è chiamato a disegnare una serie infinita di bozzetti riunendo intorno a sé un folto gruppo di esperti artigiani per costruire da zero intere spettacolari strutture, domani accompagna il location manager, verosimilmente insieme al direttore della fotografia, per trovare le aree del mondo più adatte alla poetica del film. 

 

Ovviamente una simile sintesi non rende giustizia all’enorme contributo che lo scenografo è in grado di dare al film, anche perché la Storia della scenografia inizia nel contesto del Cinema delle origini ma si sviluppa in altrettanti contesti estremamente diversi tra loro, modificandosi anche in base ai generi cinematografici (pensiamo banalmente al western), alle tendenze e, soprattutto, all’evoluzione tecnologica.

I grandi cambiamenti della tecnologia hanno dato vita alla fortunata collaborazione tra computer grafica e costruzione materiale. Tale sinergia ha reso possibile la trasformazione dell’immaginazione in realtà, anche se attraverso panorami fondamentalmente fittizi. Risultato di questa sinergia sono, ancora oggi, le indimenticabili ambientazioni di alcuni dei più grandi capolavori del Cinema mondiale. 

 

Impossibile accennare alle più grandi scenografie della Storia del Cinema senza citare almeno gli iconici set dei film di Stanley Kubrick, le grandi ambientazioni de Il Signore degli Anelli, le spettacolari visioni di Carlo Simi per i western di Sergio Leone e, infine, l’intera opera di Dante Ferretti.

 

Gli esempi si sprecano ed è meglio introdurvi alla Top 8 di questo mese, scelta come al solito dagli Amici di CineFacts.it.

La redazione ha selezionato 8 film che hanno saputo distinguersi per una costruzione scenografica originale e spettacolare, 8 opere che hanno reso la messa in scena un vero e proprio linguaggio.

Buona lettura! 

 

[Introduzione a cura di Matilde Biagioni]

 

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Posizione 8

Femmine folli 

di Erich von Stroheim, 1922 

 

La produzione di Femmine folli ha assunto contorni quasi leggendari nel contesto della Storia hollywoodiana, vuoi per quel medesimo regista che due anni più tardi sarebbe incappato nel supremamente mitico Rapacità, vuoi per le spese da capogiro che ne fecero - per le locandine - la prima pellicola da un milione di dollari.

 

Oltre alla lunghezza del girato, la principale colpevole è la grandeur scenografica richiesta dalle ambigue pretese di realismo di Erich von Stroheim, deciso a ricostruire sostanziose fette di Monte Carlo, peraltro titolo di lavorazione del film.

 

Il risultato è incantevole eppure concettualmente non così lineare, soprattutto soppesando ciò che accade mentre abbiamo occasione di osservare quella sequela di ambienti (in interni e in esterni).

 

Von Stroheim non ha mai cercato la pura mimesi (né poteva ottenerla): il subdolo insinuarsi delle sue ossessioni è lì a testimoniarlo, volta per volta.

 

Più che altrove il dato scenografico non è pronto alla subitanea auto-cancellazione, alla regressione a sfondo inerte o - peggio - da cartolina; insieme, tuttavia, il fiume di denaro concesso da Universal non si traduce in sfarzo barocco.

 

Il gustoso gioco di inganni che informa la trama, pilotata anche corporeamente dallo stesso von Stroheim, spinge difatti - siamo ancora vicini alla conclusione del primo conflitto mondiale - verso una sottile resa dei conti tra Europa e Stati Uniti.

 

Senza dubbio le vicissitudini del cineasta di origine viennese trovano obliquamente spazio, ma - al di là della componente (auto)biografica - a interessare è un danzar di riverberi che restituisce un'atmosfera socio-psicologica quantomeno complessa, a dispetto delle apparenze più luminose.

Non siamo dinnanzi alla rivelazione modernista e metalinguistica della finzione, ma sopra un terreno che trema e inizia a venir meno: questo realismo non può affatto far scudo né vuole far scudo.

 

Riflettendo sulla fotografia documentaria, lo psicanalista Luigi Zoja ha parlato di "inconscio ottico collettivo" operando una sintesi tra Carl Gustav Jung e Walter Benjamin.

 

Tra le ossessioni (di von Stroheim ma non solo) e la fragilità della modernità che percorrono Femmine folli emergono anche quei palazzoni ricostruiti meticolosamente, palazzoni che oscillano sui loro piedi d'argilla soprattutto sulla scorta del lavoro implacabile di quell'inconscio. 

 

Disponibile su IWonderFULL

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 7

Play Time - Tempo di divertimento 

di Jacques Tati, 1967 

 

Jacques Tati ha realizzato sei film in venticinque anni.

 

I primi tre (Giorni di festa, Le vacanze di Monsieur Hulot, Mio zio) si sono rivelati un successo al botteghino mentre gli ultimi (Playtime - Tempo di divertimento, Monsieur Hulot nel caos del traffico e Il circo di Tati) un fallimento.

 

Il declino - in senso economico - arriva proprio con il film che doveva essere la sua consacrazione, il delirio artistico di un’idea di Cinema che rifiutava la modernità della parola per coerenza nei confronti di un linguaggio (quello cinematografico) che Tati ha imparato ad amare all’epoca del muto: Playtime - Tempo di divertimento

 

Per il film il regista francese fece costruire alle porte di Parigi 15000 metri quadri di grattacieli, strade ed edifici di ogni tipo.

 

Lo scopo era quello di riempire ogni immagine con più informazioni possibili, come se si trattasse di un quadro fiammingo la cui profondità di campo a ogni sguardo è in grado di rivelare dettagli nuovi, mai superflui e in grado di acquisire una propria storia.

 

L’ironia quindi non doveva provenire solo dalle sventure di Monsieur Hulot, ma da ciò che accadeva al di là di quello che a una prima impressione poteva incuriosire il nostro occhio. 

 

Così nell’imperiale scenografia che prese il nome di Tativille il disorientamento del protagonista è anche il nostro, confusi e abbacinati da tanta modernità. Un Cinema bigger than life (fu realizzato in 70mm) che si rivelò troppo anche per il pubblico dell’epoca.

 

Quella che era una città in tutto e per tutto e che successivamente si sarebbe dovuta trasformare in una Scuola di Cinema è stata distrutta per lasciare spazio a un’autostrada. 

Jacques Tati con Tativille voleva proprio mettere a nudo la nostra mancanza di capacità di convivere con gli spazi e le costruzioni che abbiamo creato.

 

Costruzioni - il più delle volte grigie - che al posto di connettere le persone fra loro le separano: l’autostrada che sgombera Tativille si rivelò dunque un sardonico e beffardo scherzo del destino.

 

Disponibile su MUBI

 

[a cura di Emanuele Antolini]

 

Posizione 6

Giochi nell'acqua 

di Peter Greenaway, 1988 

 

Il Cinema di Peter Greenaway è un vero e proprio puzzle da risolvere: l'autore britannico è noto per la messa in scena elaborata, simmetrica e disseminata di indizi che chiama continuamente in causa lo spettatore rendendolo parte attiva. 

 

Tra le tante opere multiformi di Greenaway Giochi nell'acqua (Drowning by Numbers) si distingue come uno dei titoli più in equilibrio tra sperimentazione e giocosità narrativa, in cui alla scenografia è affidato un ruolo essenziale per la risoluzione della complessa struttura ricca di rimandi figurativi e matematici.

Il film è composto di corsi e ricorsi: le tre donne protagoniste - nonna, madre e figlia - tutte chiamate Cissie Colpitts e numerate dall'1 al 3, decidono di eliminare i propri partner nello stesso identico modo, ossia, come suggerisce il titolo originale, annegandoli.

 

Giochi nell'acqua, costruito in una serie di vignette, è preceduto da una sorta di prologo in cui una bambina conta le stelle dall'uno al cento recitandone i nomi; tale progressione è al centro della costruzione narrativa, che chiama in causa i numeri (anche tramite le regole di diversi giochi inventati dal piccolo Smut) relegando alla scenografia il compito di far progredire la storia mediante la disseminazione di indizi. 

Gli olandesi Ben van OsJan Roelfs riempiono i set di riferimenti numerici, con le cifre che appaiono in diversi contesti (cartelli, disegni, magliette), a volte in primo piano e a volte sullo sfondo, in una serie di tableaux vivants ispirati alla pittura di artisti fiamminghi e olandesi come Rembrandt, Vermeer e Peter Bruegel (il cui quadro Giochi di bambini appare nella stanza di Madgett, il coroner che aiuta le Colpitts a coprire i delitti).

 

Lo spettatore viene dunque chiamato in causa e coinvolto "gioiosamente" a prendere parte ai giochi di morte messi in atto dalle tre donne, cercando di dare ordine al caos, che sia quello figurativo dei set, ricchissimi di dettagli come fossero una serie di nature morte, oppure quello morale dell'omicidio.

Commedia nerissima ed estremamente colta, in Giochi nell'acqua Greenaway si compiace di una messa in scena tanto raffinata nelle sue simmetrie e giochi di luce quanto ricca di particolari rancidi e grotteschi, con morte e desiderio che convivono in mezzo a frutta marcescente e carcasse di animali; larve e mosche brulicano e donano dinamismo a inquadrature che richiamano invece il tempo sospeso della composizione pittorica o della scena teatrale. 

Giochi nell'acqua è stato presentato al 41° Festival di Cannes, dove ha vinto il Premio per il miglior contributo artistico; gli scenografi van Os e Roelfs otterranno successivamente la nomination al Premio Oscar per Orlando (insieme), Gattaca (solo Roelfs) e La ragazza con l'orecchino di perla (solo van Os).

A distanza di quasi quarant'anni, Giochi nell'acqua rimane tra i titoli più celebrati ed enigmatici di Greenaway, forte anche dell'apporto della fotografia di Sacha Vierny e delle musiche ipnotiche di Michael Nyman

 

Un puzzle perverso e sardonico in cui abbandonarsi contando le stelle, le mosche e i precisi incastri della morte. 

 

Disponibile sul canale Raro Video di Prime Video

 

[a cura di Marco Lovisato]

 

Posizione 5

Dracula di Bram Stoker

di Francis Ford Coppola, 1992

 

Dracula di Bram Stoker è uno dei progetti più ambiziosi di Francis Ford Coppola per numerose ragioni. 

 

Innanzitutto parte dalla volontà di portare ancora una volta sullo schermo la figura di Dracula, già ampiamente esplorata nel passato più o meno fedelmente da una spropositata quantità di autori, con l’obiettivo di umanizzare la mostruosità del celebre vampiro.

L’ambizione di Coppola però supera l’aspetto meramente tematico grazie a una precisa linea artistica che il regista impone al lavoro dei suoi collaboratori artistici. Coppola è convinto di voler sfruttare effetti visivi tradizionali per rispettare il contesto in cui è stato scritto il romanzo da Stoker che è anche, puntualmente, il periodo di nascita del Cinema delle origini, con i suoi trucchi di magia e le sue straordinarie illusioni ottiche.

Questo in un periodo in cui la computer grafica sta seguendo una vera e propria impennata in ambito cinematografico: il momento, per intendersi, di Terminator 2, Jurassic Park e poco più tardi Matrix, tutti film realizzati con tecnologie digitali.

La spettacolare scenografia di Dracula di Bram Stoker è quindi funzionale ai numerosi effetti visivi che caratterizzano il film e per cui è prima di tutto costituita da una serie di miniature e props utili all’impiego di precise tecniche di ripresa (si fà riferimento all’utilizzo di specifiche cineprese in pellicola, al loro posizionamento strategico e allo sfruttamento di tecniche come la doppia esposizione o il reverse). 

La direzione artistica del film viene affidata a Tom Sanders (scenografo l’anno precedente di Hook - Capitan Uncino e futuro curatore delle scenografie di Braveheart - Cuore impavido, Salvate il soldato Ryan e Crimson Peak) che, insieme a Coppola, per riuscire a portare a termine il film nei tempi e nel budget previsti, decide di costruire il set e girare il film interamente all’interno di grandi teatri di posa, evitando inoltre di incappare in irritanti impedimenti meteorologici.

 

Per far comprendere ai suoi collaboratori artistici il concept a cui fare riferimento, Coppola fà realizzare 1000 storyboard da un team di artisti grazie ai quali viene ricreata una vera e propria trasposizione animata, con tanto di narratore e colonna sonora, che intreccia ispirazioni all’arte pittorica e all’iconografia dell’horror e dell’incubo.

Per questo motivo la messa in scena di Dracula risulta piena di interessanti riferimenti, soprattutto nella rappresentazione della Transilvania che attinge all’immaginario della corrente simbolista e nella opposta rappresentazione dell’Inghilterra di fine secolo caratterizzata da suggestioni preraffaellite.

Le scenografia di Dracula è quindi fortemente ispirata alla riproposizione di stili pittorici di artisti del primo Novecento come Gustav Klimt, ma riprende anche gli sfondi floreali e le graziose pergole dei pittori preraffaelliti, soprattutto nelle scene di Mina e Lucy.

Il castello di Dracula che sporge da uno sperone, per esempio, è chiaramente ispirato al dipinto The Black Idol del 1903 di František Kupka.

 

Nel 1993 Sanders viene candidato agli Oscar, ma a differenza della costumista Eiko Ishioka non vince l’ambito premio, che viene invece assegnato a Luciana Arrighi per il suo lavoro in Casa Howard.

 

Disponibile su Netflix

 

[a cura di Matilde Biagioni] 

 

Posizione 4

Dogville 

di Lars von Trier, 2003 

 

La spettacolarità di questa scenografia è… la sua (quasi) totale assenza.

 

Lars von Trier, regista danese che ha fatto di sperimentazioni e aperte provocazioni la sua cifra stilistica, costruisce un film che sembra il girato delle prove del film stesso in un ipotetico teatro di posa. Definito avanguardistico, è molto di più.


Dogville è la prima parte di un dittico dedicato agli Stati Uniti, seguito nel 2005 da Manderlay

 

La protagonista è sempre Grace Margaret Mulligan, interpretata da Nicole Kidman solo nel primo capitolo: nel secondo, l’attrice venne sostituita da Bryce Dallas Howard poiché, a fine lavorazione di Dogville, affermò che non avrebbe mai più collaborato con von Trier a causa dello stress subito durante le riprese. 

 

Dogville è un piccolo villaggio sulle montagne rocciose, teatro di un dramma a metà tra una tragedia greca e un gangster movie, che vedrà la comunità accogliere inizialmente Grace, nuova arrivata nel paese perché in fuga da alcuni malviventi, e poi trasformarla in nemico ed esternare ogni possibile aberrazione nei suoi confronti, dal ridurla in totale schiavitù fino ad abusare di lei su più livelli.

Ma la vendetta di Grace non si farà attendere…


L’inquadratura iniziale, una ripresa a volo d’uccello del villaggio, rivela da subito la particolarità scenografica del film: la pianta di Dogville è semplicemente delineata da strisce bianche, delimitanti strade ed edifici.

 

I pochi elementi scenografici sono i mobili all’interno delle case, e nemmeno in ogni stanza. Gli attori - tra i quali troviamo glorie del Cinema classico come Lauren Bacall e James Caan - procedono lungo tutto il film a simulare l’atto di bussare o di aprire e chiudere porte inesistenti.

Tutte le azioni che gli attori compirebbero normalmente con la scenografia completa vengono mimate.

L’assenza di scenografia influenza la loro interpretazione, facendosi parte integrante della narrazione, della prossemica e dell’essenza dei personaggi.

Ne deriva una messa in scena originale, estraniante ma sempre puntuale, che amplifica il messaggio di fondo della storia: l’innegabile e innata crudeltà dell’essere umano, fil rouge che lega molte opere di von Trier.

Il film, presentato in concorso al Festival di Cannes 2003, ha vinto due European Film Awards 2003, Miglior Regia e Miglior Fotografia a Anthony Dod Mantle, aggiudicandosi anche il nostro David di Donatello 2004 per Miglior Film dell’Unione Europea.

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Elena Bonaccorso]

 

Posizione 3

The Fall 

di Tarsem Singh, 2006  

 

Esiste un film tragico che travalica la finzione del set e si fa specchio della realtà, un film che omaggia il Cinema delle origini e degli stuntmen che rischiavano davvero la vita per un ciak, un film che in Italia non è nemmeno mai uscito in sala, un film che incassò circa un decimo di quanto era costato e che era sostanzialmente finanziato dal sogno di un uomo solo. 

Un film che andrebbe visto anche solo per il fatto che non esisterà mai più un film di questo tipo, voluto e girato così. 

Quando negli anni '90 le pubblicità televisive hanno cominciato a investire milioni di dollari per 30 secondi, uno dei registi più coinvolti dai grandi brand era Tarsem: Coca-Cola, Philips, Infiniti, Nike (i demoni che perdono per un rigore tirato da Eric Cantona con il colletto alzato dopo aver detto "Au revoir" sono parte della Storia della Pubblicità), i marchi internazionali si contendevano il regista indiano, che assieme alla propria troupe curava particolarmente la messa in scena con fotografia, scenografia e regia da fare invidia a Hollywood, per degli spot che ai tempi si alternavano in TV con quelli della nonnina di Ace Gentile per i capi delicati. 

Tarsem diventava ricco a ogni spot e intanto metteva da parte i soldi. 

Nel 2000 il suo primo lungometraggio per il Cinema non ottenne il successo sperato: nonostante la presenza di Jennifer Lopez e Vincent D'Onofrio il visionario The Cell ottenne applausi solo per la parte visiva dove costumi, colori, scenografie oniriche e da incubo si mescolano in un trionfo dell'eye candy. 

Pochi anni dopo Tarsem iniziò a mettere in pratica un processo produttivo destinato a restare unico: girava per il mondo per lavoro, ma accettava solo se lo spot o il videoclip godevano di una location meravigliosa; a quel punto coinvolgeva la sua troupe e oltre a ciò che doveva fare per lavoro girava un pezzetto del proprio passion project: The Fall

Quattro anni per essere girato in 24 paesi nel mondo, dalla Cina alla Namibia, dall'India all'Argentina, da Roma a Città del Capo. 

Il risultato è un film che splende grazie a delle scenografie completamente naturali - esistono solo location reali - fotografate in maniera spettacolare, con delle transizioni e dei raccordi ambiziosi e geniali. 

The Fall racconta di uno stuntman che non ha più voglia di vivere, depresso per una delusione d'amore e costretto in un letto d'ospedale senza poter lavorare a causa di un incidente sul set: conoscerà una bimba curiosa con la quale legherà e a cui racconterà una favola fantastica, piena di personaggi e situazioni meravigliose, per ottenere in cambio qualcosa che non può raggiungere da solo. 

Il tutto è però solo un pretesto per urlare un amore particolare per il Cinema delle origini e del futuro, per quello che è stata la Settima Arte e per ciò che il lato visivo ed emozionante del Cinema può dare e darà ai suoi spettatori. 

E poi c'è Lee Pace, che rende sempre il tutto un po' più interessante. 

Una dimostrazione del fatto che la scenografia non ha sempre bisogno di essere costruita da zero per venire incontro alla storia che si vuole raccontare: a volte capita che sia la storia a piegarsi a ciò che di meraviglioso ci può offrire la scenografia naturale dei continenti del nostro pianeta... a patto di essere disposti spendere 30 milioni dei propri dollari per un film che vedranno in pochi.  

 

Mi auguro che con questo trafiletto di questa Top 8 possano diventare un po' di più. 

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 

Posizione 2

Il racconto dei racconti - Tale of Tales

di Matteo Garrone, 2015

 

Adattamento cinematografico della raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, Il racconto dei racconti è un film che fa della scenografia uno dei suoi maggiori punti di forza. 

 

Per il suo primo film in lingua inglese, Matteo Garrone inaugura la collaborazione con lo scenografo Dimitri Capuani che lo seguirà in futuro per Dogman, Pinocchio e il recente Io capitano

Racconta Capuani che l’obiettivo primario del film era quello di raccontare storie senza tempo, evitando perciò la mera ricostruzione storica, creando invece un ambiente che ispirasse magia, ma che avesse anche un’impostazione teatrale.

 

Il riferimento principale della sua scenografia è certamente il 1600, ma in realtà il film è impreziosito da numerosi richiami alla pittura, alle opere di Diego Velázquez, Rembrandt, Francisco Goya e, per stessa ammissione dello scenografo, anche ad Annibale Carracci, Pietro Longhi, Jan Vermeer e alla pittura ottocentesca inglese preraffaellita per quanto riguarda la rappresentazione dei boschi e degli ambienti naturali.

Per nessuno dei tre regni protagonisti de Il racconto dei racconti le riprese sono state fatte nello stesso posto in esterno e in interno, per cui ogni luogo appare come surreale e irriconoscibile, ad eccezione del celebre Castel del Monte che, tuttavia, è stato 'ripulito' dalla computer grafica di Leonardo Cruciano.

 

In realtà, la maggior parte degli edifici inquadrati è stata manipolata con interventi scenografici materiali e con effetti visivi digitali, cancellando gli elementi della modernità come tralicci e strade asfaltate e aggiungendo componenti artistiche e naturali come muschio o nebbia.

 

La scenografia di Capuani e l’arredamento di Alessia Anfuso sembrano però più che altro avere l’obiettivo di rappresentare ed enfatizzare le caratteristiche degli affascinanti, mostruosi e grotteschi personaggi del film.

Per esempio l’architettura del castello del regno di Selvascura di Salma Hayek, vale a dire il castello di Donnafugata in Sicilia per gli esterni e il castello ottocentesco di Sammezzano in Toscana per gli interni, accentua notevolmente la mediterraneità dell’attrice e lo stile quasi moresco che essa rappresenta; allo stesso tempo il regno di Altomonte di Toby Jones è caratterizzato da un arredamento fuori scala che evidenzia la ridotta statura del re e rende l’ambiente ancora più bizzarro.

 

Ai David di Donatello 2016 Capuani e Anfuso ricevono il premio per la scenografia che, unito alle altre 6 statuette assegnate (regia di Matteo Garrone, fotografia di Peter Suschitzky, costumi di Massimo Cantini Parrini, trucco di Gino Tamagnini, acconciature di Francesco Pegoretti ed effetti speciali di Makinarium), dimostra il grande lavoro, di cura minuziosa e profonda attenzione al dettaglio, svolto dall’intero team artistico per la realizzazione di un film esteticamente sbalorditivo.

 

Disponibile su RaiPlay

 

[a cura di Matilde Biagioni]

 

Posizione 1

Mister Link 

di Chris Butler, 2019 

 

Laika Studios è famosa per i suoi film realizzati in stop-motion con incredibile maestria.

 

I meravigliosi scenari in cui passeggiano i più bizzarri personaggi sono tutti realizzati a mano - l’uso della CGI è sempre stato parecchio limitato - e contribuiscono a portare lo spettatore a portare in luoghi misteriosi, che sembra quasi di poter toccare.

Dalla filmografia di questo studio di animazione è difficile scegliere soltanto una scenografia di cui parlare perché lasciano tutte a bocca aperta, ma vale la pena spendere due parole in più per Mister Link, la pellicola che presenta gli scenari più variegati e singolari.

 

Sir Lionel Frost (Hugh Jackman) è un intrepido esploratore, rivelatore dei più disparati misteri, miti e mostri.

Un giorno riceve una lettera in cui si afferma l’esistenza del Sasquatch, ovvero “l’anello mancante” della specie evolutiva: Frost decide di partire alla ricerca dell’essere mitologico. 

Quando arriva, però, il Sasquatch si presenta, dicendo che la lettera è stata inviata proprio da lui. 

Mister Link (Zach Galifianakis) - così lo chiama Lionel - dice che è ormai stanco di vivere in solitudine nel Pacifico nord-occidentale e che vuole ritornare dai suoi simili nella valle di Shangri-La, per stare in compagnia della sua famiglia. I due decideranno così di partire e affrontare insieme le sfide che si porranno sul loro cammino: mentre Link imparerà qualcosa in più delle sue origini e della sua identità, Lionel capirà che il mondo è più complesso di ciò che credeva.

 

La supervisione dei set è stata affidata a Nelson Lowry e, nonostante l’intero dipartimento delle concept art fosse composto solo da lui e altre tre persone, circa 300 concept art sono state create per avere idee sul potenziale aspetto della pellicola.

I personaggi, di piccole dimensioni, si muovono su questi set su scala - alcuni piccoli quanto le classiche case delle bambole, altri immensi e ingombranti - che non solo possiedono delle palette uniche di colori accuratamente scelte, ma sono anche dettagliatissimi, al punto che non basta rivedere un paio di volte la pellicola per individuarne i singoli elementi: ci vorrebbero ore o giorni, se non addirittura mesi!

 

Per avere un’idea di quanto sia maestoso il lavoro di scenografia, la produttrice Arianne Sutner in un’intervista ha affermato che “(…) Abbiamo creato 110 set con 65 location uniche per raggiungere la maestosa portata e bellezza geografica del film (…)”.

 

Mister Link è un’opera imperdibile anche solo per l’incredibile mole di lavoro manuale e creativa, difficilmente raggiungibile. 

 

Disponibile su RaiPlay

 

[a cura di Eris Celentano]

 



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