Come si potevano rappresentare dinamicamente gli inseguimenti a teatro?
Semplice: non si poteva fare.
Gli inseguimenti sono infatti una delle cose che fin dagli albori del Cinema ha distinto la Settima Arte dalla sua sorella maggiore: il grande schermo poteva ospitare scene d'azione che a teatro erano pressoché impossibili da rappresentare e la cosa ha sempre stuzzicato i cineasti che ne hanno approfittato praticamente da subito.
Il primo film della Storia del Cinema nel quale si può individuare "il papà degli inseguimenti" risale infatti al 1903: The Great Train Robbery di Edwin S. Porter è passato alla Storia per il famoso primo piano del cowboy che spara verso l'obiettivo della macchina da presa - inquadratura che secondo il regista poteva essere montata in qualsiasi punto del film, tanto era decontestualizzata e pensata solo per stupire - ma al suo interno troviamo il primo inseguimento mai visto prima al cinema, tra la polizia e i rapinatori.
[Qui potete vedere tutto The Great Train Robbery]
L'inseguimento avviene a cavallo, ma di lì a poco le automobili ne avrebbero preso il posto per imporsi come i mezzi più cinematografici in assoluto da riprendere per restituire allo spettatore un senso di velocità e adrenalina che non si poteva trovare altrove, se non dal vivo.
Dobbiamo però aspettare più di mezzo secolo per vedere il migliore degli inseguimenti, girato davvero alla perfezione: nel 1968 esce infatti in sala Bullitt, film con Steve McQueen che divenne subito pietra di paragone per le scene di inseguimento, ma ne parlerò meglio nella posizione della classifica dedicata al film.
Il 1971 è un altro anno fondamentale per gli inseguimenti cinematografici: al cinema esce Il braccio violento della legge del recentemente compianto William Friedkin e in televisione viene trasmesso Duel, il primo film di un certo Steven Spielberg.
Il braccio violento della legge portò ulteriormente avanti la spericolatezza degli inseguimenti visti in Bullitt, con alcune scene girate senza i permessi della polizia, con le auto che sfrecciano per New York nelle strade in cui non era previsto che ci fossero delle riprese: molte di quelle inquadrature le girò lo stesso Friedkin alla macchina da presa, perché la squadra di operatori "teneva famiglia" e aveva paura di venire coinvolta in qualche incidente.
[Niente da aggiungere: è sufficiente guardarlo]
Duel fu invece il film che diede il via alla carriera di uno dei più importanti e noti registi hollywoodiani di sempre: girato in appena due settimane, il film piacque così tanto che dopo il successo televisivo Spielberg girò apposta altre scene per allungarlo da 74 a 90 minuti e ottenere così la distribuzione in sala.
Duel è letteralmente un film su un inseguimento.
Al di là delle metafore e delle simbologie nascoste, che vanno dalla crisi della borghesia al pericolo dell'ignoto, l'intero film è basato su una misteriosa e inquietante autocisterna che insegue un malcapitato in auto.
Non vedremo mai chi guida il mezzo inseguitore, ma conosceremo a fondo chi invece guida l'auto inseguita e ci immedesimeremo in lui, sentendoci preda di una minaccia di cui non capiamo fino in fondo il motivo.
Per girare alcune delle scene del film la troupe di Spielberg utilizzò una camera car ricavata dalla stessa Chevrolet Corvette approntata proprio per le riprese degli inseguimenti di Bullitt, giusto per dire quanto fosse stato seminale quel film, ed è notizia di pochi mesi fa che il regista di Cincinnati girerà un film ispirato proprio a quello di Peter Yates del 1968.
Giusto per chiudere il cerchio o, meglio, il cerchione.
[Se inizi la carriera con un film del genere sei un predestinato]
Da questa parte dell'oceano è proprio in questo decennio che esplode un sottogenere cinematografico, quello del poliziottesco, anche noto come "poliziesco all'italiana": tutori della legge integerrimi che hanno a che fare con pericolosi criminali in film dove gli inseguimenti in auto divennero un appuntamento fisso.
Il salto successivo mi sento di farlo fino al 1980 di The Blues Brothers, quando ormai gli inseguimenti automobilistici erano già diventati un cliché da prendere in giro:John Landis ci mostra i fratellini inseguiti da chiunque, con una scena memorabile dentro un centro commerciale dove vennero usate più di 120 auto distruggendone la metà, esagerando al punto di avere a un certo punto la polizia, i nazisti dell'Illinois e i Good Ole Boys alle calcagna di Elwood e Jake, per quello che diventò l'inseguimento con più macchine di sempre.
Nel film in tutto riuscirono a demolire 103 automobili.
["Sono 126 miglia per Chicago: abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutti e due gli occhiali da sole" "Vai."]
Il record venne battuto di lì a poco dal film The Junkman, dove forse per dispetto ne distrussero 105, e qualche anno dopo fu la volta di Matrix Reloaded, il secondo capitolo della serie cinematografica firmata Wachowski, dove le auto distrutte furono addirittura 300.
Ormai siamo al Cinema contemporaneo e dato il tema diventa obbligatorio citare Fast & Furious, che ha basato sulle corse e gli inseguimenti in auto tutto il franchise, anche se poi nel tempo le cose hanno deragliato un filo.
La saga composta da 10 film, uno spin-off, due cortometraggi e una serie animata va avanti dal 2001 e ha incassato finora circa 7 miliardi e mezzo di dollari, a testimonianza che gli inseguimenti di auto che corrono sul grande schermo non hanno ancora smesso di affascinare il pubblico.
[Esiste forse un folle inseguimento girato e montato meglio di questo nel Cinema contemporaneo?]
Lo sa molto bene anche George Miller, che con il suo Mad Max: Fury Road ha creato nel 2015 un gioiello cinematografico di tecnica e messa in scena, premiato con 6 Oscar, dove una storia di lotta al patriarcato, sfruttamento delle risorse naturali e delle classi più basse viene mascherata da un inseguimento lungo quasi tutte le due ore di film.
Ma anche di questo ne leggerete meglio in classifica.
Sarebbe obbligatorio citare anche tutti gli inseguimenti che non avvengono su quattro ruote, dato che il Cinema ci ha mostrato cavalli, bighe, astronavi, motoscafi e motociclette, ma vi ruberei troppo tempo e qui bisogna correre veloci, come i mezzi cinematografici protagonisti di questa Top 8.
7 minuti su 96 per sfiorare forse l'apice di quello che André Bazin ha definito "un equilibrio perfetto tra i miti sociali, l’evocazione storica, la verità psicologica e la tematica tradizionale della messa in scena del western".
Spannung tra i più efficaci della Storia del Cinema, l'inseguimento che fa esplodere inequivocabilmente la carica politica e umanistica di Ombre rosse consacra John Ford come vedetta del classicismo statunitense.
Tuttavia Ford compie un passo a lato proprio nei confronti di un certo modo di intendere la classicità: se la diligenza-mondo assaltata dai nativi è un efficace coagulo di derivazione letteraria - con lo sceneggiatore Dudley Nichols che adatta un racconto di Ernest Haycox - e se la strutturazione linguistica della Hollywood anni '30 ha spesso sposato (talvolta in superficie) un'idea di trasparenza che legittima gli accostamenti concettuali rispetto alla forma-romanzo, Ombre rosse cambia le carte in tavola.
L'inseguimento non restituisce infatti (solo) una verità letteraria, ma una verità cinematografica che non può che innestarsi - eventualmente anche negandolo: il gioco è tra il piano extra-diegetico e quello diegetico - sul movimento, ciò che il teorico Sean Cubitt ha chiamato le vif, il vivo.
Sul biancore astratto del lago prosciugato Lucerne, nel deserto del Mojave, si alternano inquadrature ottenute con il matte painting, carrellate velocissime e punti macchina mozzafiato, tra una semisoggettiva dei conducenti della diligenza e una contre-plongée degna di Carl Theodor Dreyer.
La dialettica interno/esterno, con riferimento alla diligenza-mondo, si afferma in tutta la sua potenza grazie alla partitura emotiva che un simile trattamento formale impone.
Qui fiorisce una consapevolezza estetica che, lungi dal tradursi dogmaticamente, informerà appena due anni più tardi Orson Wellese il suo Quarto potere.
Banditi a Milano è un film imprescindibile nella Storia del Cinema Italiano, universalmente individuato come l’opera che ha dato il via al filone dei polizieschi all’italiana - noti anche come poliziotteschi - che ha imperversato tra il finire degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80.
La pellicola è ispirata alla vera storia della banda Cavallero e racconta le rapine di una banda criminale basata a Torino, composta da insospettabili uomini d’affari, che ha terrorizzato Milano con ben 17 rapine. Accanto a un carismatico Gian Maria Volonté - intossicato dalla sua stessa meticolosità criminale - il film presenta nel cast un paio di attori che diventeranno sinonimo del genere di riferimento: Tomas Milian, nel ruolo del commissario Basevi, e Ray Lovelock.
Tra gli elementi fondanti del poliziottesco c’è, com’è ovvio che sia, il grande inseguimento tra polizia e criminali che innescherà gli eventi conclusivi del film, girato da Carlo Lizzani con la maestria di chi conosce la portata di un simile evento all’interno di un contesto urbano.
Dopo l’ennesima rapina i banditi fuggono scontrandosi con un paio di commesse di un negozio vicino alla banca rapinata, che segnalano la targa dell’autovettura su cui viaggiano e innescano una manovra di accerchiamento della polizia: la scena dal grande impatto e dalla forte carica adrenalinica mostra speronamenti, sparatorie e schianti ma trova compimento grazie all’eloquenza dei punti di vista mostrati dall’autore; a inframezzare la violenza urbana ci sono le concitate reazioni vissute nell’abitacolo dai criminali, al centro di comando della polizia e dai cittadini apparentemente inermi.
L’interazione tra le tre componenti risulterà ecisiva per un finale che tornerà con piena coerenza nella struttura tematica del film, mostrando il crimine come una scelta di vita dei protagonisti al pari di un qualsiasi altro lavoro, e l’invasamento del Piero Canestraro interpretato da Volonté nel ruolo di leader di una banda ormai senza futuro.
Un grande inseguimento è un ottimo catalizzatore per la narrazione: Banditi a Milano lo insegna, creando un genere senza accantonare l’analisi sociale.
Da Bullitt in poi, Hollywood fu costretta a ripensare il concetto di "riprese di inseguimenti automobilistici".
Protagonista della pellicola non poteva che essere Steve McQueen, attore divenuto sinonimo di "vita spericolata": Frank Bullitt è un un detective della polizia che lavora per il dipartimento di San Francisco e viene incaricato di proteggere un testimone per 40 ore, rilasciato dall'ambizioso politico Walter Chambers.
Prima che la notte finisca, due sicari irrompono nella stanza del testimone, lo uccidono e feriscono un agente di polizia; Bullitt raccoglie le informazioni sull'incidente e apre un'indagine per conto proprio, dopo che il suo capitano di polizia gli ha dato il permesso di indagare sul crimine.
L'inseguimento che ha fatto scuola arriva circa a metà film: la Ford Mustang di Bullitt e il Dodge Charger dei cattivoni sono ancora oggi automobili di riferimento per quel che riguarda questo tipo di scene, con le quali Peter Yates realizza una sequenza imitata per decenni, che vi invito a guardare nel video presente nell'introduzione di questa Top 8.
Dieci minuti in cui nessun personaggio pronuncia battute, dove il racconto è portato avanti dal dinamismo della messa in scena e dalla musica; le inquadrature si alternano tra campi in cui la macchina da presa aspetta che l'azione si sposti nel quadro a stacchi veloci da un'auto all'altra, ora dentro l'abitacolo, ora vicino all'asfalto, ora sul primissimo piano di chi insegue e ora su quello di chi viene inseguito. Chiunque voglia girare una scena simile deve per forza prendere appunti: lo spettatore sa sempre dove si svolge l'azione e il montaggio non viene adoperato per mascherare la realtà, ma anzi è al servizio della scena che quasi sembra avvenire in tempo reale.
Steve McQueen guidò realmente la Mustang alternandosi con Bud Ekins, uno dei migliori stuntman dell'epoca: la star di Hollywood volle però assicurarsi che il pubblico sapesse quando era lui alla guida, ecco perché lo si vede al volante con la testa quasi fuori dal finestrino e perché nelle riprese all'interno dell'auto il suo volto è ben visibile nello specchietto.
La moglie di McQueen era preoccupata e pare gli vietasse di prendere parte a certe riprese, ma Steve la ascoltava poco... A lui dobbiamo uno dei momenti più spettacolari, quando la Ford sgomma in uno spettacolare burnout: la cosa non era prevista dalla sceneggiatura, ma McQueen sbagliò la curva e risolse in quel modo, che ovviamente il regista fece montare nel film.
Quando vedrete un inseguimento automobilistico in uno dei prossimi film che guarderete, sappiate che in un certo modo anche quello deve molto a Bullitt, a Peter Yates e a Steve McQueen.
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Italia a mano armata è l’ultimo film della Trilogia del commissario Betti di Marino Girolami (qui firmato Franco Martinelli) e rappresenta per il Cinema italiano di genere una sostanziale tappa: da un letto esso sperimenta l’applicazione di un modello seriale al filone del poliziottesco, dall’altro formalizza le scene d’azione e gli iconici inseguimenti in automobile, che sono marchio inconfondibile della suddetta corrente cinematografica.
Non è in fondo un caso se Umberto Lenzi e il produttore Luciano Martino, poco dopo l’uscita del film, avvertirono l’esigenza di spremere fino all’osso il personaggio interpretato da Maurizio Merli, facendolo reincarnare nel pressoché identico commissario Tanzi in Roma a mano armata e ne Il cinico, l’infame, il violento.
In Italia a mano armata, ambientato tra Torino, Genova e Milano, il commissario Betti è sulle tracce di una banda responsabile del rapimento di uno scuolabus pieno di bambini.
Proprio nel capoluogo lombardo prende il via l’inseguimento più spettacolare del film: all’Ortomercato Betti ruba la splendida Fiat 124 Coupé di un cittadino e inizia a rincorrere in automobile due banditi, superando abilmente grandi carrelli con imponenti pile di scatole e casse di legno, facendo lo slalom tra le altre vetture - spesso in senso contrario - in direzione Navigli e sfiorando addirittura una colluttazione con un treno prima di giungere all’Idroscalo.
L’inseguimento, che termina con una rissa in cui ovviamente Betti mette in riga i due criminali, è una grande operazione tecnica in termini di ritmo e dinamismo: Girolami alterna i primi piani e le soggettive di Merli e dei banditi a frenetici campi medi in movimento, optando per un montaggio serratissimo nei momenti più salienti (l’auto della polizia che vola dal pontile e finisce nell’acqua).
L’intera sequenza è accompagnata dal celebre tema di Franco Micalizzi che, unito ai fischi degli pneumatici sull’asfalto e ai rombi dei motori, enfatizza la rapidità nervosa e sincopata di ciascuna scena.
Nell'ondata di rivalutazione post-tarantiniana del Cinema italiano anni '70, un regista è stato forse ingiustamente escluso: Alfonso Brescia.
Un cineasta che, come spesso accadeva in quegli anni, ha attraversato vari generi del Cinema commerciale italiano, fino ad approdare a quello che lo ha reso famoso: la sceneggiata-gangster, interpretato quasi sempre da Mario Merola.
Certamente non paragonabile a un Lucio Fulci, Brescia aveva quello che spesso manca nel Cinema italiano contemporaneo: il mestiere.
Avere pochi mezzi e portare a casa un film di intrattenimento formalmente dignitoso in poco tempo, con il progressivo smantellamento dell'industria cinematografica italiana, è diventato a poco a poco merce rara, perché è una cosa che si impara solo facendo molta esperienza sul campo.
Per capire meglio di cosa parlo, basta vedere l'inseguimento in motoscafo di Napoli... serenata calibro 9, film campione di incassi all'epoca dell'uscita.
In questa scena un bambino viene preso in ostaggio da dei malviventi che cercano di scappare in motoscafo e Mario Merola li insegue con la sua imbarcazione, a sua volta seguita da una terza.
Con pochissimi punti macchina, Brescia riesce a girare un inseguimento pressoché perfetto, in cui lo spettatore non è mai disorientato ma è anzi sempre consapevole della sua collocazione nello spazio rispetto ai protagonisti della scena.
Spesso quello che si nota nelle scene d'azione dei film di oggi è come le inquadrature siano molto confuse e il montaggio inutilmente sincopato: grazie al lavoro di scelta corretta del punto di vista delle singole inquadrature, nel film di Brescia il montaggio dà il ritmo ma dà anche il tempo di capire quello che sta succedendo sullo schermo.
Un inseguimento del genere, anche se non è il migliore della Storia del Cinema, merita di essere ricordato, così come va ricordato Alfonso Brescia, per rifuggire l'idea che il budget sia l'unica cosa che permette il successo di un film d'azione.
Alle volte basta avere delle buone idee e abbastanza mestiere da poterle mettere in scena in modo dignitoso.
Nel 1985 il regista statunitense decise di ripetere l’operazione con Vivere e morire a Los Angeles.
Sebbene il film con protagonista William Petersen non ebbe l’impatto mediatico de Il braccio violento della legge, a distanza di quasi quarant’anni Vivere e morire a Los Angeles ricopre un ruolo decisivo nello studio dell’estetica del Cinema anni ‘80, fonte d’ispirazione per molti film d’azione (leggasi Jason Bourne), come dimostra la scena dell’inseguimento tra gli agenti dell’FBI Chance e Vukovich e i malavitosi di Los Angeles.
Oltre alla maestria tecnica messa in scena durante la scena in questione, dove l'immedesimazione da parte degli spettatori nell’ansia del personaggio di Chance è totale grazie all’ampio uso di inquadrature soggettive, ciò che è fondamentale in questo inseguimento è il suo valore simbolico.
Quando tutto sembra perduto, infatti, Chance sceglie di affrontare una strada in contromano.
Una scelta che dice molto sul suo personaggio, disposto a tutto pur di catturare il falsario Masters.
Per di più l’andare contro tutto e tutti è rivelatorio anche della poetica di Friedkin, regista che ha sempre cercato di imporsi attraverso le sue immagini, a volte vincendo (L’esorcista, Il braccio violento della legge) e a volte schiantandosi (Vivere e morire a Los Angeles, Il salario della paura).
Nel 1979 George Miller con Mad Max (da noi Interceptor) dà vita all’embrione di un nuovo genere, che poi definisce meglio e va a consolidare nel 1981 con Mad Max 2 - The Road Warrior (Interceptor - Il guerriero della strada).
La strada è l’unica cosa che rimane vitale in un futuro distopico e anarchico in cui il bene fondamentale è la benzina e il potere si misura in ottani e pistoni.
Girati con pochi mezzi nel deserto australiano, i film di Miller dimostrano la grande inventiva e il coraggio del regista nel ridefinire le auto in corsa sul grande schermo: stunt folli e accelerazioni improvvise delle immagini definiscono lo stile della saga, ma sono soprattutto i personaggi a distinguersi e rimanere impressi nella mente degli spettatori.
L’immaginario punk post-apocalittico di Mad Max fa nascere negli anni successivi un’infinità di emuli, copie, omaggi e taroccature, mentre lo stesso regista si fa da parte dopo il terzo film della serie uscito nel 1985 e rimane silente fino al 2015, anno di uscita di Mad Max: Fury Road.
Tom Hardy prende il ruolo che fu di Mel Gibson e Charlize Theron è co-protagonista con la sua Furiosa.
Come per i film più memorabili della Storia, anche qui la produzione del film è un disastro: le riprese si trascinano per quasi un anno, di cui 6 mesi nel deserto della Namibia, e i due attori arrivano a odiarsi tra di loro. L’unica cosa che li accomuna a fine riprese è l’astio verso il regista.
George Miller gira 480 ore di materiale, ma ha un piano ben preciso in mente: quello di creare il più grande inseguimento mai portato sullo schermo.
Se togliamo il preambolo e l’epilogo, infatti, l’intero Mad Max: Fury Road è un unico grande inseguimento attraverso il quale vengono raccontati i personaggi, dove l’azione stessa è il veicolo attraverso il quale fluisce il racconto.
L’inventiva estetica e narrativa del film è di una ricchezza raramente vista sullo schermo e si nota che la continuità non è importante per Miller, quello che conta è dare vita a personaggi memorabili esprimendo al massimo il dinamismo del suo stile e raccontando il più immaginifico e iconico inseguimento del Cinema di fantascienza.
E ci riesce, ottenendo le scuse pubbliche di Tom e Charlize e l'ammirazione di tutti i cinefili del mondo, consci del fatto che i film d’azione più belli della Storia del Cinema, quelli in cui l’elemento che contraddistingue il genere è distillato nella maniera più pura, sono impossibili da raccontare a parole.
Vanno visti e vanno vissuti in totale ammirazione dello schermo.
Disponibile su NOW
[a cura di Paolo Cellammare]
Posizione 1
Baby Driver - Il genio della fuga
Edgar Wright, 2017
L'incipit di Baby Driver è senza dubbio una delle scene di apertura più impattanti del Cinema recente: il film si apre con un inseguimento in auto mozzafiato che mette in mostra l'abilità del regista britannico Edgar Wright, stabilendo il tono tecnico che caratterizzerà l'intera opera.
La sequenza cattura subito l'attenzione dello spettatore, sfruttando il ritmo e la musicalità tipici dell'autore, ma va oltre: fonde i toni del teen movie con quelli del film adrenalinico, trasmettendo il conflitto generazionale tra giovani come Baby e Debora e adulti senza scrupoli come Doc e Buddy, il tema portante del film.
Il tutto è inoltre un omaggio visivo e sonoro allo stile e al percorso multimediale di Wright: riprende infatti il videoclip di Blue Song dei Mint Royale diretto dallo stesso autore e la fusione con Bellbottoms dei Jon Spencer Blues Explosion è perfettamente coreografata in sincronia con la musica.
Gli inseguimenti da citare all’interno del film - presentato al pubblico più come un emule della serie di Fast & Furious che come il film d’autore che è ovviamente - si sprecano, ma questa sequenza iniziale che mischia montaggio perfetto, musicalità e tecnica sopraffina racchiude in sé tutto il piccolo gioiello che è Baby Driver.
L'uso distintivo della musica come elemento narrativo crea un legame speciale con Baby e con le cuffie simbolo della sua patologia e ispirazione, guidando il film.
L'inseguimento iniziale di Baby Driver non è dunque solo una scena di azione spettacolare, ma un tributo visivo e sonoro allo stile distintivo di Edgar Wright e riesce - come spesso accade nei grandi film - a riassumere tutto ciò che seguirà nei primi fondamentali minuti.