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Gli 8 migliori film del 2022 secondo la redazione di CineFacts.it

Ecco quali sono i migliori film usciti quest'anno secondo noi!

Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno della rinascita.  

Riformulo: il 2022 è stato l’anno della rinascita. 

Quasi. 

 

Dopo i due anni precedenti colpiti dalla pandemia e dalle relative chiusure delle sale cinematografiche, negli scorsi dodici mesi abbiamo assistito a una piccola ripartenza: sembra passato un secolo, ma sono trascorsi appena sei mesi da quel 15 giugno in cui è caduto l’obbligo di recarsi al cinema con la mascherina. 

Siamo tornati alla normalità pre-COVID19, almeno per quanto riguarda l’accesso, ma cosa è cambiato nella testa degli spettatori? 

 

Cosa ha lasciato dentro questo periodo di divano forzato, di uscite cinematografiche importanti subito disponibili sulle piattaforme streaming? 

 

Cosa, dunque, spinge davvero le persone a uscire di casa per recarsi al cinema e assistere a uno spettacolo che la visione casalinga non può sostituire? 

 

 

[Vortex di Gaspar Noé è il primo degli esclusi: fuori di pochissimo dalla nostra Top 8]

 

 

Prima di questo periodo l’industria cinematografica non aveva mai vissuto uno stop di queste dimensioni.

 

È stato importante vedere come si sia mosso non tanto il cinefilo - quello che al cinema ci va sempre e comunque - quanto lo spettatore medio, cosa ha preferito vedere sul grande schermo combattendo contro la sicuramente più comoda fruizione tra le mura di casa e contro la poca fiducia nei confronti delle misure di sicurezza.  

 

Il 2022 ha visto i film di grandi registi come Steven Spielberg, Alejandro G. Iñárritu, Paul Thomas Anderson, Aleksandr SokurovGianni Amelio, David Cronenberg, Luca Guadagnino, Jafar Panahi, Giuseppe Tornatore, Pablo Larraín, Marco Bellocchio, Kenneth Branagh, Alex Garland, l’esordio da singolo di Joel Coen, due film di Guillermo del Toro e il ritorno dell’imperatore del box office James Cameron

 

La qualità dei film proposti è stata altissima ed è singolare notare come la cosa non venga mai notata fino in fondo dal pubblico generalista, forse distratto dal momento contemporaneo per rendersi conto che non c’è niente da rimpiangere nascondendosi nei decenni passati.   

 

[Il vincitore della Palma d'oro a Cannes 2022 ha ottenuto gli stessi voti di Vortex: fuori di poco dalla nostra classifica]

 

 

I dati ci dicono che in Italia nell’anno appena concluso ci sono stati 44,5 milioni di spettatori nelle sale, con un aumento del 79% rispetto al 2021.  

 

Facile confronto con un anno in cui le sale rimasero chiuse per quattro mesi, infatti è da sottolineare che quei 44,5 milioni sono praticamente la metà rispetto alla media del periodo compreso tra il 2017 e il 2019: il calo è del 51%. 

 

Quella che è rimasta pressoché uguale al periodo pre-pandemico è la risposta del pubblico all’offerta di produzioni e co-produzioni italiane: 9,3 milioni di presenze e 60 milioni di euro di incasso, ovvero il 21% della quota di mercato totale. 

 

I dati evidenziano come gli spettatori, ancora più di prima, siano disposti a muoversi da casa e andare in sala praticamente solo in due occasioni: per i blockbuster miliardari costruiti per essere visti in sala e per i film dedicati ai più piccoli, dovendo questi ultimi per forza essere accompagnati dagli adulti. 

 

Avatar - La via dell’acqua si sta infatti muovendo sulle orme del film precedente del 2009 - nonostante la situazione economica mondiale non sia la stessa, né siano migliorate le condizioni generali - e con un incasso mondiale di un miliardo e 400 milioni di dollari si trova già al 13° posto di sempre (senza calcolo dell’inflazione) dopo poco più di due settimane di tenitura: nel nostro Paese il film di James Cameron è arrivato al 31 dicembre a 27,5 milioni di euro, confermandosi ovviamente il più redditizio di tutto il 2022. 

 

 

[Pablo Larraín firma un altro grande film biografico, ma non entra nella nostra Top 8 per una manciata di punti]

 

 

L’altro grande film dell’anno per i botteghini nostrani è stato Minions 2 - Come Gru diventa cattivissimo, con 14,7 milioni di euro, e a seguire Doctor Strange nel Multiverso della Follia, Top Gun: Maverick - che a livello mondiale e in patria ha fatto registrare numeri impressionanti, che lo hanno portato al 5° posto di sempre per il mercato interno e a un soffio dalla Top Ten generale - Thor: Love and Thunder e The Batman, solo guardando chi ha superato i 10 milioni di euro. 

 

La tendenza è evidente: tolto l’ultimo di questa particolare classifica, gli altri sono tutti inesorabilmente sequel.  

Checché ne dicano coloro che si lamentano di un’eccessiva produzioni di secondi, terzi e quinti capitoli, l’industria cinematografica si regge grazie a questi. 

 

Anche i film italiani hanno fatto sentire la loro voce: grazie a un buon lavoro di distribuzione e promozione, infatti, La stranezza di Roberto Andò con Toni Servillo e la coppia comica Ficarra e Picone, Il grande giorno di Massimo Venier con il trio Aldo, Giovanni e Giacomo, Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (co-produzione nostrana con Belgio e Francia, con le nostre superstar Luca Marinelli e Alessandro Borghi) sono andati bene e hanno raccolto pubblico e consensi. 

 

Pubblico che ha dimostrato di apprezzare anche - seppur con le debite proporzioni in termini di box office - i film premiati a Cannes e a Venezia: Triangle of Sadness, Bones and All, EO, Tori e Lokita e il già citato Le otto montagne hanno sgomitato per ottenere una distribuzione decente che andasse al di là delle grandi città, ma in termini di consenso la risposta degli spettatori è stata ottima. 

 

[Lo abbiamo amato a Cannes ed è uscito a ridosso della fine del 2022: è il nostro 11° film dell'anno]

 

 

Quest’anno ci attendono altre proposte che arrivano dai grandi festival del 2022, come Gli spiriti dell’isola, Close e La donna del mistero, mentre dal punto di vista dei tentpole non ci sarà da lamentarsi.

 

Il nuovo Avatar continuerà a raccogliere almeno per tutto il mese di gennaio e nel corso dell’anno sono attesi film di sicuro riscontro come i supereroistici Ant-Man and the Wasp: Quantumania, Shazam! Furia degli Dei, Guardiani della Galassia Vol. 3, The Flash e The Marvels; tornerà sul grande schermo John Wick con il quarto capitolo, Fast and Furious con il decimo (sic) e i nuovi capitoli dello Spider-Man di animazione e dei Transformers, oltre alla versione live action de La sirenetta. 

 

Non solo, perché parlando di film molto attesi vanno per forza citati il nuovo capitolo di Mission: Impossible con l’ormai immarcescibile icona action Tom Cruise, il nuovo capitolo di Indiana Jones con l'instancabile Harrison Ford - che per la terza volta vestirà in età matura i panni di un suo eroe anni ‘80, dopo Blade Runner 2049 e i nuovi capitoli di Star Wars - e la seconda parte del Dune firmato Denis Villeneuve; senza dimenticare il potenziale successo di The Super Mario Bros. 

 

L’estate vedrà protagonisti due film agli antipodi come Oppenheimer - con Christopher Nolan che tenterà di recuperare dopo il mezzo flop Tenet - e Barbie di Greta Gerwig, mentre verso Natale sarà la volta del nuovo Classico Disney e di Wonka, con Timothée Chalamet nei panni del giovane genio del cioccolato già interpretato da Gene Wilder e Johnny Depp. 

 

Senza contare che stiamo ancora aspettando di capire che destino avrà uno dei film più attesi del decennio, ovvero quel Killers of the Flower Moon diretto da Martin Scorsese con Robert De Niro e Leonardo DiCaprio.  

 

[Il Pinocchio di Guillermo del Toro ci ha emozionato tanto, ma non al punto di meritarsi un posto in Top 8]

 

 

Il 2022 è stato un anno particolare, in cui abbiamo visto autori come Kenneth Branagh, Steven SpielbergAlejandro G. Iñárritu firmare un film autobiografico, dove gli indipendenti Daniels hanno stupito il mondo con un film che gioca con il Cinema come Everything Everywhere All at Once e dove le riflessioni sul momento storico contemporaneo e la feroce critica nei confronti dell'1% di privilegiati ha serpeggiato in tantissime opere da ogni angolo del mondo. 

 

Le sensazioni insomma sono a metà.

 

Da un lato la preoccupazione è che il pubblico generalista si sia ormai abituato ad avere in fretta a casa i grandi film che escono al cinema, con le finestre temporali obbligatorie rese sottili dalle decisioni prese durante l’emergenza sanitaria e che, a mio avviso, andrebbero adesso riviste riportandole alla situazione precedente; dall’altro lato la rinascita c’è stata ed è evidente la voglia di Cinema e di cinema da parte del pubblico, anche se restano ancora delle diffidenze e ci sarebbe da lavorare sull’educazione all’arte e alla fruizione di un film in sala, che prevede il rispetto non solo dell’opera per cui si è pagato un biglietto, ma soprattutto del prossimo che non ha certo scelto di farsi infastidire da chi ha accanto e pensa di essere a casa propria. 

 

Ci sarebbe da fare anche un altro, enorme discorso sulla questione distribuzione e promozione cinematografica, sui film che nel nostro Paese vengono annualmente prodotti già sapendo che non avranno una distribuzione, sul Cinema italiano che fatica a trovare fiducia da parte dei produttori a meno che non sia una delle classiche storie che - sulla carta - vanno sul sicuro. 

 

Ma non è questa la sede e non è questo il momento. 

Ricordatemelo, però: è un discorso che prima o poi riprenderemo.  

 

Senza dubbio però il Cinema come arte è in piena salute e offre ogni settimana proposte interessanti e meritevoli: testimonianza di ciò è anche la nostra Top 8 del 2022, che ha visto 9 titoli conquistare la classifica - con un ex aequo all'ultimo posto mai verificatosi in precedenza - su un totale di 52 titoli votati dalla redazione. 

 

E sinceramente credo che la media di un film alla settimana considerato degno di entrare tra i migliori dell'anno sia una delle dimostrazioni più lampanti della florida situazione cinematografica attuale.

 

[introduzione di Teo Youssoufian

 

[Forse solo Luca Guadagnino poteva raccontare una storia simile con un tocco così delicato e intimista; ma Bones and All è fuori dalla Top 8]

 

 

Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli dell'anno e li ha classificati. 

 

Le discriminanti erano queste: 

- Il film doveva essere stato distribuito in Italia tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2022  

- Per quest’anno non avrebbe fatto fede solo l’uscita in sala, quindi abbiamo tenuto conto di tutti film distribuiti in sala e su piattaforma (Netflix, Prime Video, Disney+, Infinity, TIMVision, AppleTV+, MUBI, Rakuten, RaiPlay, Paramount Plus, ecc) lasciando però fuori eventuali festival, anteprime stampa e anteprime online. 

 

Ne è uscito un totale di 52 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.  

 

Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori.

______________

 

Adriano Meis

Licorice Pizza

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Triangle of Sadness

Il male non esiste

Nostalgia

Atlantis

Men

Vortex

Le otto montagne

Ennio

 

Alessandro Dioguardi

The Fabelmans

Licorice Pizza

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità

Spencer

Everything Everywhere All at Once

Belfast

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley

Nope

The Batman 

Pinocchio

 

Emanuele Antolini

Licorice Pizza

Blonde

Memoria

Parigi, 13Arr.

Nope

The Fabelmans

Crimes of the Future

Tromperie - Inganno

Bones and All

Piccolo corpo

 

Eris Celentano

Licorice Pizza

Memoria

Gli orsi non esistono

Pinocchio

Alcarràs - L'ultimo raccolto 

Crimes of the Future

Il signore delle formiche

Argentina, 1985

Tromperie - Inganno

Rimini

 

Fabrizio Cassandro

Spencer

Licorice Pizza

Apollo 10 e mezzo 

Gli orsi non esistono

Fairytale

X - A Sexy Horror Story

Tromperie - Inganno

Un eroe

Generazione Low Cost

Red Rocket

 

Jacopo Gramegna

Gli orsi non esistono

Licorice Pizza

Il male non esiste

Saint Omer

The Girl and the Spider

Triangle of Sadness

Memoria

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità

What Do We See When We Look at the Sky?

Il corsetto dell'imperatrice

 

Jacopo Troise

Licorice Pizza

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità

Il male non esiste

Vortex

Alcarràs - L'ultimo raccolto 

Saint Omer

What Do We See When We Look at the Sky?

La figlia oscura

Generazione Low Cost

Boiling Point

 

Lorenza Guerra

Gli orsi non esistono

Memoria

Il male non esiste

Saint Omer

Belle

Crimes of the Future

The Girl and the Spider

Pinocchio

Spencer

EO

 

Matilde Biagioni

Licorice Pizza 

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità 

Crimes of the Future

Vortex

Finale a sorpresa - Official Competition 

Pinocchio

The Girl and the Spider

Saint Omer

Le otto montagne

Blonde

 

Mattia Gritti

Crimes of the Future

Licorice Pizza

Fairytale

Memoria

Blonde

The Fabelmans

Leonora Addio

Gli orsi non esistono

Vortex

Il Cristo in gola

 

Nadia Pannone

Stringimi forte

Le otto montagne

Memoria

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità

Blonde

Bones and All

Parigi, 13Arr.

Triangle of Sadness

Finale a sorpresa - Official Competition 

America Latina

 

Teo Youssoufian

The Fabelmans

Licorice Pizza

Bones and All

Macbeth

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Le otto montagne

Everything Everywhere All at Once

Triangle of Sadness

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità

RRR

 

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Non potete immaginare quale livello di stress portino in redazione le Top 8 di fine anno. 

Dicembre è ormai per noi il mese peggiore di tutti, quando partono i recuperi per poter vedere il più possibile e non restare indietro!  

Se volete conoscerci un po' meglio, parlare con noi in chat, ottenere contenuti esclusivi e al contempo supportare il nostro progetto... date un'occhiata a Gli Amici di CineFacts.it e diventate nostri sostenitori! 



Posizione 8

Blonde

di Andrew Dominik

 

Ne L'altra faccia del ventoOrson Welles assemblava il suo ennesimo discorso sul Cinema sposando una frammentazione inconsueta a livello diegetico: per immortalare la parabola di Jake Hannaford, dall'esito già scritto, frantumava la tradizionale unità (ideale) dell'occhio del regista attraverso più processi di soggettivazione. 

In luogo di un punto di vista esterno e solo apparentemente neutro, gli occhi - meccanici - di alcuni operatori calati nello stesso piano di realtà del protagonista.

In BlondeAndrew Dominik sposa una frammentazione inconsueta a livello extra-diegetico: per immortalare la parabola di Marilyn Monroe, dall'esito già scritto, dissolve ogni residuo di innocenza sopravvissuto nella visione, nell'atto della visione.

In luogo di un'unificazione agente anche nelle opere meno trasparenti, un carosello di formati, lenti e colori calato nello stesso piano di realtà dello spettatore.

Lo sguardo può darsi in maniera problematica e gli sguardi in questione sono molti, riassunti in un complesso iconografico multidimensionale e multiforme. 

Dare movimento - vita - alle foto che hanno strutturato il discorso (su) Marilyn significa allora innestare una frammentazione (di sguardo, quello del fruitore) su una frammentazione (di sguardi, quelli di chi ha guardato Marilyn in passato) che già era determinata e determinava un'altra frammentazione, quella esistenziale e mediale di un'icona.

 

[a cura di Mattia Gritti

___________

 

Saint Omer

di Alice Diop

 

Saint Omer è il primo approccio al Cinema di fiction di Alice Diop, documentarista francese di origini senegalesi: il modo in cui le sue origini si intersecano alle idiosincrasie intrinseche nel Vecchio continente, in particolare in terra francese, è il fulcro della sua produzione. 

Ispirato a un caso di cronaca nera, Saint Omer narra il processo per infanticidio condotto nei confronti di una donna di origine senegalese che ha ucciso la propria bambina abbandonandola nell’alta marea.

Non bisogna fare l’errore di credere che la narrazione ruoti attorno all’eventuale colpevolezza dell’imputata, perché questa è dichiarata senza remore fin dai primi atti processuali.

Il lungometraggio della talentuosa Alice Diop infatti si sviluppa attorno a tre percorsi, sapientemente interconnessi l’uno all’altro: il significato della maternità o della sua negazione senza rimpianti, le responsabilità dell’Altro - l’uomo, l’adulto, il maschio, la Francia, il bianco, il benestante, il potente - e il rapporto tra l’arte e la realtà. 

Alla luce del terzo punto si può affermare che, a discapito del minore screentime, la protagonista dell’opera non sia l’imputata ma Rama - scrittrice, professoressa, critica cinematografica, ma anche donna, senegalese, quasi madre - e il suo sguardo sulla vicenda, da cui ha intenzione di trarre un’opera intitolata Medea naufragata. 

Sono molteplici i riferimenti al mito greco di Medea - tant’è che Rama visiona proprio l’omonimo film di Pier Paolo Pasolini - e in generale alla tragedia ellenica: l’ineluttabilità dei legami di sangue, l’inconciliabilità degli opposti, fino al nome della città in cui è avvenuto il processo che, quasi con ironia, sembra rimarcare questo nesso. 

Saint Omer ha ottenuto due premi alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia: il Leone d'Argento - Gran Premio della Giuria e il Leone del futuro come opera prima.

 

[a cura di Lorenza Guerra]

 

Posizione 7

The Fabelmans

di Steven Spielberg  

 

I grandi registi sono a mio avviso esseri eccezionali che trovano nel linguaggio cinematografico la loro unica forma di espressione.

 

Non sono in grado di comunicare altrimenti e senza il Cinema sarebbero incompleti, privati della possibilità di elaborare le loro ossessioni e le loro paure, i loro sogni o i loro incubi. 

 

The Fabelmans è la summa del linguaggio di Steven Spielberg, la ragione dietro il suo amore spassionato per il Cinema, nonché meravigliosa opera nata da uno degli ultimi stendardi della Settima Arte il cui legame con questa è quasi atavico, più che la voglia, un po’ egomaniaca e un po’ figlia del fascino della fama, di avere successo o sentirsi chiamare artisti. 

 

Spielberg nel raccontarsi e nel parlare di Cinema fa quello che ha sempre fatto: ricorda di essere un narratore al servizio della storia e del pubblico: il racconto e i suoi messaggi, il suo cuore, sono al primo posto e la sua abilità diventa strumento invisibile per darvi risalto, rendendo quasi naturali e apparentemente semplici i suoi gesti e la sua arte. 

 

Il regista prende per mano lo spettatore e lo porta alla sua prima volta al cinema a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, perfetto nel descrivere cosa è il Cinema per lui: stupore, avventura, dramma, azione, tensione e, in definitiva, il più grande spettacolo del mondo.

 

Quale rivelazione Sammy Fabelman, il doppio di Spielberg, trova in quello spettacolo? 

La possibilità di controllare la realtà, di mettere ordine nel caos, per noi spesso inaccettabile, che è la vita.

 

Il Cinema è occasione per raccontare le avventure di grandi eroi e di grandi amori, di romanzare le gesta di chi, nella finzione, può spiccare il volo ed esporre matasse emotive che, in quanto analfabeti di ogni altro linguaggio, i registi non sanno sbrogliare altrimenti. 

 

The Fabelmans è il racconto di un'irrazionale magia tecnica che assume tutta la rilevanza del mondo al buio della sala, dove piangiamo e ridiamo per artifizi di montaggio creati alla moviola, seguendo la musica di un giradischi. 

 

Steven Spielberg dedica un’accorata opera al Cinema e a tutti i Sammy Fabelman del mondo, ricordando loro con una chiassosa e dolcemente triste sequenza che fare Cinema significa esporsi a una indecifrabile solitudine.

 

Niente come The Fabelmans racconta il Cinema portando lo spettatore al cinema, aprendo e chiudendo la visione con la stessa straordinaria capacità di giocare tra tecnica e creatività, rispondendo a un’impossibile domanda: vuoi più bene al papà o alla mamma? 

 

[a cura di Alessandro Dioguardi 

 

Posizione 6

Il male non esiste 

di Mohammad Rasoulof 

 

Quattro capitoli, altrettante storie, un solo male: quello che, ironicamente, secondo il titolo dell'opera non esisterebbe. 

 

Il male in questione prende forma in quell'aberrazione del diritto chiamata pena di morte, filo conduttore delle storie raccontate nell'ottavo film di Mohammad Rasoulof, vincitore dell'Orso d'oro in quello che sembra l'ormai lontanissimo 2020. 

Al momento della premiazione il regista non era presente per ritirare il riconoscimento: non aveva ottenuto dal regime il permesso per lasciare l'Iran, dato che si trovava agli arresti domiciliari.

 

Pochi giorni dopo per lui è arrivata una nuova condanna a un anno di carcere, con il conseguente divieto di girare film per due anni. 

 

Ma tutto ciò non deve stupire: Il male non esiste è uno dei più potenti j'accuse mai portati al cinema contro l'avvelenamento di uno Stato per mano di un regime, oltre che sul determinante peso delle scelte umane nel cambiamento di una storia. 

 

Muovendo dall'assunto arendtiano della banalità del male, l'autore iraniano ha messo in scena un trattato antropologico e sociologico sulla pena di morte, capace di essere tanto lucido nell'analisi quanto passionale nel trasporto umano. 

 

Lo sguardo di Rasoulof, storicamente attento all'umanità, alle tradizioni e alle contraddizioni della sua terra, si è posato stavolta sull'assurdo labirinto di cause ed effetti che si dipana attorno alla pena capitale all'interno del suo Paese, srotolando l'intricata matassa dell'argomento affrontato attraverso una serie di simboli e concatenazioni tra gli episodi narrati, che pur mantengono la propria potenza e autonomia stilistica. 

Un dolente affresco quadripartito di microcosmi, che custodisce la promessa di un macroscopico cambiamento fondato sulla volontà dei singoli, di coloro che dicono "No"

 

Mohammad Rasoulof, regista iraniano dissidente fu già arrestato nel 2010 per propaganda ostile al regime conservatore di Mahmud Ahmadinejad e in seguito nuovamente privato della libertà nell'estate 2022 per per aver lanciato appelli contro le violenze della polizia: con questo film ha vergato un inno di pace e un grido di libertà. 

 

Non a caso, tema portante dell'opera è il talvolta troppo discusso Bella Ciao, interpretato nel film nella sua chiave più viscerale: quella di canto di liberazione dall'oppressione.

 

Come torneremo a dire più avanti - e come dimostra la Storia del Cinema - talvolta la repressione e la conseguente voglia di ribellione portano l'arte a essere più pura, lucida e liricamente straziante che mai. 

 

Il male esiste, ma opere come queste rappresentano l'immortalità della lotta per sradicarlo.  

 

[a cura di Jacopo Gramegna]

 

Posizione 5

Crimes of the Future

di David Cronenberg

 

Dopo una limousine-spazio mentale; dopo "il pensiero come set" - parole che Gianni Canova riferisce non senza fecondi paradossi al body horror di Scanners e che guadagnano un senso ulteriore guardando a SpiderA Dangerous Method; dopo il set (hollywoodiano) come set, David Cronenberg sembra fare ritorno a temi apparentemente accantonati.

 

Il regista canadese realizza - dona realtà, una realtà che è (nuova) carne e che è contestualmente, quasi necessariamente, una realtà digitale - una visione nuova e vecchia insieme, una rilettura della propria filmografia (scenograficamente, in sequenze nettamente separate dalle altre, si riparte anche dal finale di Videodrome) che conduce, proprio in un corpus che potrebbe essere interpretato alla luce di un simile concetto, a un (auto)superamento. 

 

Animato da un approccio anti-cartesiano, Cronenberg dirige le proprie attenzioni verso il problema del senso, vocabolo caratterizzato da una rivelatoria oscillazione tra i due poli della concezione formalizzata dal filosofo francese. 

In un domani vagamente distopico, le porte del corpo umano si aprono a mutazioni sostanziali (e di sostanza, o meglio, di modi della sostanza): varia l'orizzonte sensibile - dunque anche estetico, seguendo l'etimologia del termine - e varia la relazione io/mondo, così come quella corpo/coscienza.

 

Un corpo nuovo, perennemente in divenire, apre a un mondo nuovo, a una riscrittura dei sensi e dei valori; e Crimes of the Future è, nel suo complesso, una contesa sul senso.

 

Tra le tante, sono in gioco la (bio)politica, la sessualità, l'ecologia (nel suo significato più proprio), l'arte. 

 

La politica come sforzo di disciplina dei corpi, connesso alla burocratizzazione del Registro Nazionale degli Organi, o come tentativo di aprire scenari alternativi; la sessualità, ridefinita e ridefinibile, come linguaggio del rapporto con sé e con l'altro; l'ecologia come reinserimento in un mondo umano e non-umano; l'arte come possibilità di interpretazione vincolata - ma non si tratta davvero di un vincolo - dalla carne, come apertura (anche letterale) della carne, del senso della carne.

 

Il set è il corpo, ma il corpo non è più collocato in un dualismo, il corpo è anche quello collettivo della nuova umanità, di una nuova architettura dei valori: il corpo interpreta ed è interpretato, e quando spunta un organo, che è già una risposta, spuntano altre risposte, una possibilità di risposta.

 

Sul banco non c'è una ghiandola pineale, ma la vita, nuova e vecchia. 

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 4

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità 

di Alejandro González Iñárritu

 

Sei anni dopo il suo secondo Oscar come Migliore Regista, Alejandro González Iñárritu torna a deliziare il pubblico con l’opera più intima e personale della sua intera carriera.

 

In Bardo, la cronaca falsa di alcune verità si alimentano vicendevolmente le esperienze cinematografiche della sua Trilogia della Morte (Amores perros; 21 grammi; Babel), ma anche il realismo magico di Birdman e la materialità di Revenant - Redivivo.

 

Così Iñárritu sembra pronto a ripercorrere le tappe della sua carriera attraverso un alter ego, esattamente come fece Federico Fellini con Guido Anselmi in .

 

Proprio all’interno di un bardo - termine che in alcune scuole buddiste è inteso come stato di transizione tra la morte e la rinascita - il regista incastra il protagonista Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), un giornalista e documentarista messicano residente negli Stati Uniti che è stato appena insignito di un riconoscimento importante per il suo lavoro.

 

Bardo, la cronaca falsa di alcune verità diventa allora una fotografia di uno stato di passaggio nella sua massima instabilità e, al tempo stesso, un diario pieno di confessioni e deliri narcisistici. 

 

In questo modo Iñárritu mette in scena il dolore della morte prematura di un figlio, ma riflette anche sull’aleatorietà della fama, sulla sovrastima del successo e sull’ipocrisia dell’artista borghese.

 

Il viaggio nel bardo si trasforma sempre più nel processo di elaborazione di un trauma personale e collettivo attraverso la critica aperta alla colonizzazione europea e il racconto del popolo messicano, invaso prima dagli spagnoli e poi dagli statunitensi.

 

La dimensione onirica sperimentata in Birdman, e perciò lo sguardo al confine tra realtà e finzione, in Bardo è spinta all’ennesima potenza soprattutto da un punto di vista stilistico.

 

Iñárritu infatti predilige una regia virtuosa, ricca di long shot e piani sequenza fotografati sapientemente da Darius Khondji (Seven; Diamanti grezzi), costruendo una serie infinita di straordinarie scene madre.

 

Alla vigilia dei suoi 60 anni, Bardo è forse l’unico film possibile a questo punto nella carriera del regista: un flusso di coscienza necessario, surreale e materico nel dare corpo alla Storia e alle paure dell’uomo, che pone al confine con la morte una ritrovata, amara e nostalgica pace dei sensi.

 

[a cura di Matilde Biagioni

 

Posizione 3

Gli orsi non esistono

di Jafar Panahi

 

Il Cinema di Jafar Panahi, come quello del suo Maestro Abbas Kiarostami, è da sempre un gioco con lo spettatore in cui realtà e finzione si confondono e si mischiano: uno spazio cinematografico in cui l’autore e le vicende messe in scena perdono la loro consueta dicotomia e in cui il racconto disvela le realtà, i dubbi e le criticità di un uomo e del suo rapporto conflittuale con la sua terra, l’Iran, fonte di tante sofferenze, ma allo stesso tempo oggetto del più profondo amore. 

 

Ne Gli orsi non esistono Panahi interpreta se stesso mentre sta girando un film a distanza: la troupe e gli attori lavorano a Teheran, lui si trova in un villaggio al confine con la Turchia dove studia e filma usi e costumi degli abitanti. 

 

 

La sua segregazione e la castrazione della sua professione dovuta all’impossibilità di dirigere sotto la luce del sole è autobiograficamente figlia delle vicende politiche e legali che attanagliano l’autore, così come molti attori e colleghi, come Mohammad Rasoulof, privati del proprio mestiere, della propria arte e della propria libertà: sia i protagonisti del film sia quelli del film nel film vivono il dilemma morale tra la scelta di abbandonare la propria terra superando il confine e quella di restare e soffrire le ingiustizie di cui sono già vittime. 

 

Mentre questa serie di piani metacinematografici si interseca (tra la realtà, l'autore che non ha il controllo sulla propria opera, l'opera stessa e le vicende al suo interno) Panahi si trova immerso nell’Iran rurale in cui i delitti d’onore, i matrimoni in grande stile, i riti e le cerimonie catturano il suo sguardo documentaristico fino a renderlo colpevole - in un parallelo tutt’altro che invisibile - di aver visto troppo.

 

Il senso di colpa, la purezza dell’arte e il rispetto di quest’ultima, anche durante un giuramento, in opposizione alla comodità di fuggire e negare, lo status di personaggio pubblico che a poco a poco si sgretola diventano così i protagonisti di un’altra vicenda nel film e ne caratterizzano altrettanti dilemmi etici: il pensiero di Panahi che si mette a nudo attraverso Gli orsi non esistono disvela i dubbi di un uomo che per la sua arte continua a combattere e soffrire.

 

 

Nonostante l’estremo interesse a livello di costruzione e intreccio dei molteplici piani, nonché la grande quantità di snodi etici e tematici di cui ho appena scalfito solo il guscio più esterno, Gli orsi non esistono riesce a muoversi con un ritmo in cui la tensione della realtà di Panahi e delle vicende nel piccolo villaggio si fondono perfettamente alle sue ritualità ancestrali.

 

Premio Speciale della Giuria alla 79ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

 

[a cura di Fabrizio Cassandro]

 

Posizione 2

Memoria

di Apichatpong Weerasethakul

 

Nel ricordo rimane aleatorio il passato, un vissuto che continua a rimandare al presente in momenti inaspettati attraverso segnali – visivi, acustici, tattili – della nostra memoria.

 

E se il ricordo non si limitasse a colpire la sfera personale ma sfociasse in un qualcosa che riesca ad unire tutti gli esseri umani collettivamente?

 

Memoria si apre con un boato, un suono talmente straniante da non lasciar più dormire Jessica (Tilda Swinton).

 

Tormentata da quest'ultimo, Jessica comincia una ricerca attraverso la quale prova a descriverlo e riprodurlo, incontrando persone e ritrovandosi in situazioni che l’aiuteranno a scoprire qualcosa in più di sé e della percezione del Mondo stesso.

 

Apichatpong Weerasethakul - al suo nono lungometraggio in pochissimi anni – si domanda ancora una volta delle connessioni tra Uomo e Natura, rafforzando il concetto di umanità andando oltre il significato stesso di umano.

 

Il regista sceglie preponderanza di inquadrature lunghissime e a camera fissa rompendo gli schemi classici della narrazione e giocando in modo del tutto originale – ma non lontano dai suoi precedenti – sull’importanza del suono in relazione alle immagini.

 

Si può dire, dunque, che il suono – di ogni tipo, sia letteralmente “rumore” che musicale e così via - sia il vero protagonista, offrendo un senso di completezza incredibile.

 

Quest’ultimo, infatti, non si limita ad attorniare ciò che scorre sullo schermo: non è riempitivo o rafforzativo ma custode di spazi così tangibili e pervasivi da dare la percezione di essere sensorialmente visibile. 

 

In questo continuo e apparentemente statico movimento Jessica diviene funzione, l’“anello mancante” che invita lo spettatore al superarsi spiritualmente al fine di una liberazione non individuale ma collettiva.

 

Il tema della morte è silente e sottile ma si diffonde attraverso il racconto spirituale – non divino - della vita stessa, nella quale la fine non rappresenta la distruzione ma bensì ricongiunzione con qualcosa di immenso e inspiegabile. 

 

In ciò, dunque, anche immagini che all’apparenza sembrano surreali divengono veritiere e possibili, tangibili per chi riesce a utilizzare la memoria come uno strumento di condivisione. 

 

Nonostante sia considerato un film minore, Memoria racchiude perfettamente tutta la poetica del regista, sottolineando un senso di bellezza incorporea dal quale è difficile sottrarsi.

 

[A cura di Eris Celentano]

 

Posizione 1

Licorice Pizza 

di Paul Thomas Anderson

 

Presentare il film alla prima posizione di una classifica di fine anno, senza sfociare nel panegirico o scadere in tonalità apologetiche, è impresa ardua.

Una soluzione percorribile per scongiurare parzialmente questa eventualità è quella di tentare un approccio alternativo, una variante argomentativa che possa evidenziare forza e pregevolezza insite nel nono, meraviglioso lungometraggio firmato Paul Thomas Anderson

Storicamente - dati alla mano - nella votazione di una Top 8 di fine anno si tende a premiare maggiormente le ultime visioni, quelle effettuate a ridosso della conclusione del periodo utile per la selezione, probabilmente in quanto più “fresche”. 

I frame sono nitidi nella memoria, coperti da una patina di polvere cinematografica più sottile rispetto alle uscite di inizio anno.

 

Licorice Pizza è stato distribuito nelle nostre sale il 17 marzo 2022. 

Eppure su 12 votanti ha ottenuto 10 voti, di cui 5 primi posti e 5 seconde posizioni, staccando di ben 50 punti la medaglia d’argento. Un risultato tanto netto quanto trasversale. 

Per quanto mi riguarda questa è la fotografia perfetta dell’ultima meraviglia di colui che, a tutti gli effetti, è uno degli autori cinematografici più talentuosi e affermati del panorama audiovisivo contemporaneo.

Qui sta la forza dell’opera omnia di Anderson: riuscire ad essere costantemente un collegamento fra potenza espressiva e tecnica, stile e passione narrativa, leggerezza e messaggi di rilievo indirizzati allo spettatore. 

Licorice Pizza è proprio questo: un'ode alla leggerezza, alla reminiscenza, all’idea di lasciarsi andare, cavalcando la vita al meglio delle nostre possibilità per seguire inclinazioni, istinto e sentimento.

Vivere a tempo di musica. 

Questo film è per me l’emblema di cosa vuol dire fare Cinema, grande Cinema: quel tipo di spettacolo maestoso e confortevole che, una volta usciti dalla sala, stropicciandoci via il buio dagli occhi, pare lasciarci addosso una strana magia. E in essa galleggiare. Anzi: correre. 

Il film di Anderson infatti si muove attraverso un intreccio narrativo appena abbozzato e corre a perdifiato, si fa largo attraverso ricordi e contesti fugaci, gioiosi, tristi, popolati anche da personaggi grotteschi: in questi luoghi della memoria è possibile trovare riparo e riconciliarsi con sé stessi e con il mondo. 

Approfondire in questa sede le splendide interpretazioni dei due protagonisti del film (Alana Haim e Cooper Hoffman), della fotografia del duo Bauman/Anderson, delle musiche del solito, strepitoso Johnny Greenwood o del montaggio perfettamente cadenzato di Andy Jurgensen sarebbe quantomeno stucchevole, oltre che inutile. 

 

Perché è sufficiente dire che Licorice Pizza, collocandosi con eleganza nel mosaico rappresentato dalla cinematografia di Anderson, è essenzialmente un inno alla vita, al ricordo, al Cinema. 

 

Il resto è superfluo.

 

[a cura di Adriano Meis]

 



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