Questo approfondimento richiede qualche precisazione: il ruolo posseduto dall’ambientazione fornita dalla sala cinematografica all’interno dei film ha infatti più di una funzione.
Comprendiamo che si stia parlando di un set intrinsecamente paradossale quando riflettiamo sul fatto che lo spettatore lo confronterà senza dubbio con l'esperienza attuale che sta vivendo in poltroncina, con un medesimo fascio luminoso alle spalle e uno schermo di fronte.
Come prima cosa vale la pena di notare come la sala cinematografica sia pressoché sempre stata rappresentata in relazione agli spettatori al suo interno, siano essi i protagonisti del film o il mero pubblico di contorno alla storia.
[Le lacrime di Mia Farrow e la centralità della sala cinematografica ne La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen]
Non si tratta dunque di uno spazio scenografico fine a se stesso, quanto piuttosto di portare l'attenzione su di una pratica umana da tutti i suoi punti di vista: quello del regista, della troupe, del pubblico e perfino del proiezionista.
Quella che vi proponiamo qui di seguito è un'analisi delle possibili intenzioni che hanno animato gli autori dei film lungo la Storia del Cinema riguardo alla scelta di introdurre nella loro sceneggiatura questo setting specifico.
In primo luogo potrebbe trattarsi di una semplice scelta di ricostruzione storica di un evento sociale.
Oppure, come nel caso de Il maschio e la femmina di Jean-Luc Godard: siamo negli anni '60 e i due protagonisti si danno appuntamento al cinema come nella più classica delle serate galanti dell’epoca (e non solo).
Il regista, inseguendo la vita dei due, non può che entrare all’interno della sala.
Lo stesso avviene in decine di altre pellicole, dai notissimi Io e Anniee The Dreamers (nel quale viene anche mostrato il ruolo “affettivo” che l’unione di penombra e l’oculata scelta delle ultime file garantivano alle novelle coppie, in fuga da situazioni familiari opprimenti).
Pensate anche al cinema stracolmo che si vede nell’allegorico e al contempo documentaristico Boccaccio ‘70, dove Mario Monicelli - regista di uno dei quattro episodi del film - vede la giovane coppia di protagonisti cercare disperatamente rifugio nell’unico ambiente nel quale le rispettive famiglie li avrebbero lasciati “soli”.
[Sono moltissime le pellicole nelle quali i personaggi sono semplicemente ripresi intenti a guardare un film, senza che questo sia un gesto diegeticamente significativo]
In questi casi descritti l’intenzione dello sceneggiatore di adoperare come location la sala cinematografica è pressoché una scelta obbligata, non particolarmente significativa.
Lo stesso avviene quando quando i protagonisti della pellicola vengono ripresi all’ingresso di un cinema quando esso avrebbe potuto essere sostituito da un qualunque altro luogo chiuso.
Questo perché il luogo è in funzione di una svolta di trama che prescinde dalla rilevanza dello spazio rappresentato.
È questo il caso, ad esempio, del film horror It Follows, dove l’esperienza al cinema ha la funzione di rendere più esplicite le apparenti allucinazioni di uno dei personaggi, il quale sembra non accorgersi della presenza di uno spettatore, a differenza dell’amica che lo accompagna.
Un'altra casistica ancora è quella per la quale l’esperienza della sala cinematografica è utile alla definizione psicologica dei personaggi: è osservando il modo in cui si approcciano a un film proiettato che scopriamo alcune loro caratteristiche; si pensi ai tre cinefili protagonisti di The Dreamers, o ad Amélie Poulain).
In un film capitale sul rapporto con il Cinema vissuto nel suo luogo d’espressione eletto, Nuovo Cinema Paradiso, vengono unite tutte le funzioni descritte fino ad ora: quella di offrire uno spaccato su una realtà storica, quella di osservare semplicemente il suo protagonista in una delle sue passioni quotidiane e quella di aiutarci a comprenderlo meglio osservando il suo comportamento e le sue reazioni seduto sulla poltroncina.
Queste sono tutte funzioni descrittive della sala cinematografica all’interno dei film.
[Che la funzione della sala sia centrale in Nuovo Cinema Paradiso lo testimonia lo stesso titolo del film]
Spostiamoci ora gradualmente, ampliando lo sguardo che nella Storia della Settima Arte si è dedicato a questo sacro ruolo per i registi.
Alcuni autori hanno compreso quanto l’inserimento di pubblico, sala e spettacolo cinematografico all’interno del loro film potesse avere una funzione meta-riflessiva sul linguaggio che essi stessi stavano utilizzando.
François Truffaut in Effetto notte ha mostrato tutte le soddisfazioni e le difficoltà che si incontrano sul luogo di lavoro del set cinematografico, sfruttando delle sezioni di sceneggiatura come fossero paragrafi di un saggio riflessivo sul suo medesimo lavoro.
Di nuovo un regista francese, Leos Carax, ha in più di un’occasione argomentato attorno al significato della funzione registica e della necessaria partecipazione cognitiva attiva dello spettatore in sala, perché si alimenti la sinergia che dia significato al film.
Nelle sue due ultime opere, Holy Motors e Annette, l'autore si occupa personalmente di dare avvio al film rivolgendosi, in un caso, proprio a degli spettatori rappresentati in una sala e, nell’altro, alla sua troupe.
Esiste poi un altro caso altrettanto sofisticato nel quale la sala - o per meglio dire: la possibilità di rappresentare la proiezione sul grande schermo - consente al regista di riflettere sulla sua stessa opera, suggerendo una chiave di lettura allo spettatore e mostrandogli il film che sta vedendo come “dall’esterno”, ma attraverso una scena di fatto posta all'interno di esso.
Questo slittamento metariflessivo rappresenta il polo opposto rispetto alle funzioni descrittive della rappresentazione dell’esperienza della sala cinematografica in un film.
L’operazione dell’autore diventa prettamente teorica, interessata alla rottura della quarta parete in ognuna delle ragioni per le quali venga messa in atto o, come è stato ben argomentato in questo articolo, in cui l'intenzione dell'autore può essere quella di riflettere sui meccanismi tecnici del Cinema e sullo statuto delle immagini in un vero e proprio film-saggio.
Apriamo una considerazione finale sul perché al posto di scegliere soltanto mille e più luoghi maggiormente fantasiosi gli autori abbiano scelto da oltre 120 anni di riprendere i propri personaggi anche all’interno della sala cinematografica.
È lapalissiano che si tratti del loro ambiente naturale e che coincida con le loro fissazioni: dirigendo un film un autore non può che applicarci se stesso; basti pensare al personaggio di Shosanna Dreyfuss in Bastardi senza gloria, che consente a Quentin Tarantino di unire la sua cinefilia alla sua passione per le ucronie.
Lasciando i registi e venendo all'intenzione di questo articolo: l'idea è stata quella di rivolgerci verso un punto intermedio della dicotomia fra quella che abbiamo chiamato l'intenzione meramente descrittiva e quella teorica della rappresentazione della sala cinematografica nel film.
Su indicazione degli Amici di CineFacts.itche hanno scelto il tema di questa Top 8, abbiamo dunque selezionato 8 film nei quali le sale cinematografiche fungono da vero personaggio aggiuntivo alla storia o che, in qualche modo, abbiano una rilevanza narrativa (o concettuale) essenziale per lo sviluppo dell'opera o per l'esplicazione del messaggio del suo autore.
Le scene descritte, oltre a essere significative in termini di minutaggio, travalicano i confini della narrazione in cui sono inserite, offrendoci un punto di vista sul Cinema tutto e sulle sue opere più memorabili.
Gli anni '50 e gli anni '60 sono stati un momento di grandissimo cambiamento per la Storia del Cinema: in Inghilterra questo periodo è quello in cui è nato il Free Cinema, diretta espressione del movimento culturale Kitchen sink e di una nuova centralità delle classi proletarie e della condizione socio-economica gravissima.
In questo si inserisce un vero e proprio giramondo come Jerzy Skolimowski che, dopo essersi diplomato nella famosissima scuola di Lodz, inizia a realizzare film in Polonia, Francia, Belgio, Germania dell'Ovest e Stati Uniti.
La ragazza del bagno pubblico è questo: la sintesi tra il Cinema di protesta giovanile inglese di Gioventù, amore e rabbia e l'esuberanza del Cinema polacco capace di raccontare in maniera esasperata, ironica e sensuale, come ci insegnano Roman Polański, Krzysztof Kieślowski e Walerian Borowczyk.
Il film è la storia dell'amore non corrisposto tra due giovani inservienti in un bagno pubblico: lui quindicenne e innamoratissimo, lei venticinquenne.
Tra le righe di un contesto che sembra leggero si vede tutta la pretesa violenta e bestiale che il mondo adulto esercita verso i corpi giovani: il paragone tra uomo e belva è centrale, come in tutta la filmografia di Skolimowski.
Questo tema portante del film è perfettamente riassunto in una delle sue scene più famose e importanti: quella nel cinema a luci rosse.
Susan entra, chiaramente a disagio, con il fidanzato Chris in questo luogo in cui tutto, pubblico incluso, è volgare, sporco e morboso: lui spera solo di sfruttare l'oscurità.
Il giovane protagonista Mike, che la stava seguendo sin dall'uscita del bagno, entra in sala mettendosi nella fila dietro.
Mentre lei respinge il fidanzato, lui si allunga verso di lei e per alcuni minuti erotismo, ambiguità (che caratterizza tutto il loro rapporto) e vera e propria istintività bestiale prendono la scena fondendosi con il film che viene proiettato sullo schermo.
Tutto perfettamente espresso dal voyeurismo con cui Skolimowski mette in scena ogni loro gesto.
In questo momento cardine situato nel passaggio tra il primo e il secondo atto è già insita tutta la riflessione del film sul mondo esterno e su come questo porterà all'esplosione bestiale e violenta di Mike: da un lato la pretesa del corpo giovane, dall'altro la coercizione.
Mescolare il senso di attesa e incertezza che accompagna ogni nostro ingresso al cinema con la pura claustrofobia è una delle più intriganti trovate drammaturgiche in chiave horror che il nostro Cinema abbia partorito negli anni '80.
Grazie a questo riuscitissimo meccanismo narrativo, Dèmoni è divenuto uno dei film italiani di maggiore successo all'estero, un cult intramontabile che ha mostrato al mondo come Lamberto Bava, ormai giunto al suo quarto film, non fosse solo un figlio d'arte ma anche un regista con le idee chiarissime e un talento da non sottovalutare.
La trama alla base del film è pienamente in linea con la follia del Cinema di genere di quel periodo.
Un gruppo di personaggi viene invitato all'inaugurazione di un cinema di Berlino Ovest, con tanto di proiezione a sorpresa: una spettatrice, tagliatasi il volto con una maschera che faceva parte della scenografia, si infetta tramutandosi in un demone e generando un'autentica epidemia demoniaca all'interno della sala.
Il cinema Metropol, in cui è ambientato il film, diventa dunque un personaggio aggiuntivo della pellicola: nei suoi bagni avviene la prima trasformazione, quando il suo schermo si squarcia emerge l'orrore demoniaco, nel suo ventre si perpetra l'eccidio, la continua scoperta di stanze segrete al suo interno frustra i tentativi di fuga dei protagonisti.
Tra i fattori più rilevanti per il successo dello stesso c'è, probabilmente, anche la fedeltà con cui sono state riproposte tanto le abitudini degli spettatori quanto l'attenzione al dettaglio strutturale dell'edificio, corredato anche da celebri locandine di film horror, da 4 mosche di velluto grigio a Nosferatu.
Deve avere infatti avuto una grande suggestione orrorifica, per lo spettatore dell'epoca, aver potuto osservare una somiglianza così netta tra il cinema in cui si trovava e quello in cui si svolgeva il film.
Di fatto l'intero svolgimento dell'opera avviene all'interno della sala, ad eccezione di due sequenze: il prologo - in cui una sperduta Natasha Hovey riceve l'invito nella metropolitana berlinese, trasmettendoci già un chiaro senso di tensione - e l'epilogo, che dà la quadratura completa alla crudeltà della pellicola.
A impreziosire il tutto ci sono gli effetti speciali di Sergio Stivaletti e la colonna sonora di Claudio Simonetti, il leader dei Goblin, inframezzata da magnifici pezzi non originali.
Il successo dell'opera, tradottosi in un sequel ufficiale e in una lunghissima serie di finti seguiti, non deve comunque stupire: a produrlo c'era un Re Mida del genere quale era Dario Argento in quel periodo.
Uno che, grazie alla conoscenza del Cinema, sapeva come fare paura al cinema.
“Nel Cinema la gente non la devi far sognare imbrogliandola, devi dire la verità!”
Con queste parole Jordan (Marcello Mastroianni) spiega alla sua amata compagna francese Chantal (Marina Vlady) cos’è il Neorealismo cinematografico.
Non si tratta di un'opera neorealista, ma questa pellicola di Ettore Scola è sicuramente pregna di verità.
In un piccolo centro del frusinate, Arpino, Jordan è il proprietario dell’unica sala cinematografica del paese, lo Splendor.
Per lui non si tratta solo di lavoro, ma di vita: fin da piccolo accompagnava il padre, grande appassionato del grande schermo, in giro per l’Italia con il cinema itinerante per fare conoscere la magia della Settima Arte a chi non l’aveva mai vista.
La passione, come la professione, diventano vere e proprie eredità.
Lo Splendor si pone quindi per molti decenni - specialmente nel boom del Cinema italiano - come un punto di riferimento non solo culturale, ma anche sociale per Arpino.
Un luogo dove ridere, emozionarsi, spaventarsi, piangere, ma anche incontrarsi.
Jordan è quindi ogni giorno il diretto responsabile di come gli spettatori vengano travolti dall’incantesimo dei fotogrammi raccordati e proiettati da Luigi (Massimo Troisi), appassionato cinefilo e sognatore la cui vita è così condizionata dalle trame e dai personaggi dei film che ha deciso di diventare proiezionista.
Purtroppo, però, con l’arrivo della TV in generale, e in particolare di quella commerciale, si verifica un netto calo di affluenza, oltre a una sensibile disaffezione per il Cinema: il rischio di doversi piegare alle nuove spietate logiche commerciali di fine millennio è dietro l’angolo.
Splendor non si presenta solo come una nostalgica commemorazione del momento d’oro del Cinema italiano e internazionale attraverso spezzoni di opere di Dino Risi, Frank Capra, François Truffaut, Ingmar Bergman, Federico Fellini, Costa-Gavras, Marco Bellocchio, Carmine Gallone, Mario Monicelli, Fritz Lang, Vittorio De Sica, Gillo Pontecorvo, Jacques Tati, Ermanno Olmi e Alessandro Blasetti, bensì come una parabola sulla sua condizione di salute.
Le difficoltà che passa lo Splendor non sono altro che la rappresentazione metaforica della morte della Settima Arte in Italia.
Il film è del 1989, ma la crisi di cui parla si protrae fino ai giorni nostri, con forme e motivi differenti.
Il risultato, purtroppo, rimane lo stesso.
Per questo motivo quello di Scola è un personale e sentito appello di lunga vita per un’arte che ha profondamente segnato la sua vita e quella di molti prima e dopo di lui.
Perché la sala potrà pure morire, ma il Cinema non lo farà mai.
L’evanescenza del confine tra Arte e Vita rappresenta un concetto con cui, presto o tardi, ogni artista che abbia deciso di immolare la propria esistenza all’arte deve fare i conti.
Emir Kusturica ne fa una costante del proprio Cinema, che dipinge situazioni e personaggi (sur)reali, impreziosendo storie di tragedie e guerre quantomai realistiche con elementi fantastici e grotteschi, fino a fonderli in un’indistricabile totalità, simbolo della contraddizione intrinseca della vita.
Nel 1992 il regista bosniaco naturalizzato serbo accantona per un momento i racconti della sua terra per una trasferta statunitense, durante la quale entra in contatto con una sceneggiatura di David Atkins - allora suo studente - realizzando così Il valzer del pesce freccia.
Il titolo originale del film è Arizona Dream, un connubio di parole senz’altro più appropriato, data l’importanza rivestita dal paesaggio dell’Arizona e dal sogno, vero filo conduttore della pellicola e dell’opera di Kusturica in generale.
Tra situazioni paradossali e imprevedibili, i personaggi conducono le proprie esistenze inseguendo sogni.
Tra questi c’è Paul (Vincent Gallo), appassionato cinefilo e aspirante attore che affronta la vita prendendo in prestito le parole dei suoi idoli cinematografici.
Lo vediamo sovrapporsi allo schermo di un cinema per recitare la celebre litigata tra i fratelli LaMotta in Toro scatenato, o ripetere a menadito lo struggente dialogo tra Michael e Fredo Corleone ne Il padrino - Parte II.
L’elemento cinematografico, poi, si fonde totalmente con il filmico quando, per schivare Elaine (Faye Dunaway) alla guida del suo velivolo improvvisato, Paul emula Cary Grant nella famosa scena di Intrigo internazionale.
Il suo è un sogno che gli infonde la speranza illusoria di poter un giorno essere qualcun altro, di trasferirsi nei luoghi in cui la vita sembra avere più senso, di fare la differenza.
Ma i deserti dell’Arizona sembrano troppo sconfinati per riuscire ad abbandonarli e in fondo Paul sa che il suo destino di venditore d’auto è già segnato; le battute di Al Pacino e Robert De Niro sono soltanto un inganno.
Non è né la prima né l’ultima volta che l’illusione cinematografica si confonde con la realtà nell’opera di Kusturica, a dimostrazione di quanto la Vita, per un regista che attinge a piene mani dal Cinema di Federico Fellini e dal Realismo Magico della letteratura sudamericana, acquisti più autenticità nell’attimo stesso in cui si identifica con l’Arte.
Quale miglior modo di incontrare l’amore della propria vita se non al cinema durante la visione della trilogia di The Street Fighter con Sonny Chiba?
Una vita al massimo è un film scritto da Quentin Tarantino e diretto dal compianto Tony Scott che vede come protagonisti il giovane Clarence e la propria compagna Alabama, coinvolti in una lotta contro papponi e mafiosi a causa di un “affare” di droga non andato secondo i piani.
La storia inizia proprio con l’incontro tra i due in un cinema odorante di un’atmosfera romantica, ma al tempo stesso straniante.
La proiezione a cui Clarence è andato è un evento per appassionati e non per chi non sa cosa vedere il sabato sera.
L’entrata in scena di Alabama però scombussola la nostra visione, tanto è fuori luogo in quel posto quanto è perfetta.
Il personaggio interpretato da una Patricia Arquette al massimo del suo splendore - Alabama diventò infatti un’icona - si trova in sala per un motivo che esula dalla visione del film in sé, ma una volta sedutasi vicino a Clarence viene totalmente rapita dalle immagini proiettate sul grande schermo, manifestando un sensazione di meraviglia da cui scaturisce la frase: “Dopo un film mi piace andare a mangiare una fetta di torta e parlarne".
L’evento centrale di Una vita al massimo (l’inizio della storia d’amore tra i due protagonisti) arriva perciò proprio in quel momento di condivisione post-film, dove la magia della sala lascia il posto ai nostri commenti e giudizi, tanto inutili quanto fondamentali per l’esperienza cinematografica.
Tarantino scrivendo la sceneggiatura sembra aver voluto traslare la sua cinefilia e il suo amore per la sala nelle poche pagine che compongono le scene di Clarence e Alabama seduti al buio sulle poltrone di un cinema dall’aspetto trasandato, per mostrare come non ci sia luogo più romantico - il titolo originale è True Romance - per incontrarsi e dare inizio alla propria storia e a quella del film.
Un aspetto, quest'ultimo, che negli ultimi tempi è venuto a mancare e che dobbiamo pian piano rifare nostro.
I film di genere che si baloccano con la commistione tra realtà e finzione, tra tangibile e incubo, sono davvero molti.
Ci sono autori che su questa deliziosa e divertente ambiguità hanno costruito parte delle proprie fortune (meta)cinematografiche; in tal senso, il caso più emblematico che mi viene in mente è quello di Wes Craven con la saga di Scream e quella spassosa follia che è Nightmare - Nuovo incubo.
L’horror, dunque, il fantastico, dove i piani narrativi si fondono e dove reale, sogno, angoscia e fenomeni liminali si mescolano senza soluzione di continuità.
Il seme della follia (In the Mouth of Madness) è stato forse il film meno compreso di John Carpenter, sia dal pubblico (la New Line Cinema rientrò appena dei costi di produzione) sia dalla critica (che all’epoca lo digerì male), tanto da essere considerato il lavoro che segnò “l’inizio del declino” dell’autore statunitense.
Eppure nella storia di John Trent (un eccezionale Sam Neill), investigatore assicurativo che si trova a fare i conti con Sutter Cane, un inquietante scrittore di romanzi dell’orrore scomparso nel nulla, ci sono tanti, tantissimi elementi di riflessione e spunti narrativi di ottimo livello.
Carpenter, su sceneggiatura di Michael De Luca, cita l'opera a piene mani con lugubre pessimismo e inventiva, le ambientazioni, i mostri e gli incubi di H.P. Lovecraft, rimodellandoli secondo il proprio stile autoriale; omaggia signori indiscussi dell’orrore come Stephen King e Maestri del Cinema italiano come Mario Bava.
Ma, soprattutto, il creatore de La cosa fa critica sociale, denuncia il risibile dibattito dell’epoca su come la televisione stesse “infettando” i giovani americani trasformandoli in assassini.
Critica il sistema produttivo da “catena di montaggio” che genera adattamenti cinematografici ancor prima che le opere letterarie di partenza siano concluse.
In un cinema che sa di pop corn e apocalisse, Sam Neill/John Trent si siede per prendere definitivamente coscienza di essere un personaggio fasullo, una marionetta partorita da una penna malvagia, rivivendo le sue spaventose disavventure mentre le osserva sul grande telo bianco.
Ride, ride di una risata lunga, disturbata e angosciante.
La scena dura pochi secondi, ma sono sufficienti: è una delle critiche più pungenti e sornione del Cinema horror, la firma del colpevole/accusatore - che non lesina in autocritica - è ben visibile sul cartellone d'ingresso che presenta “In the mouth of madness”.
Piove tra gli spettri, sopra spettri bidimensionali aggrappati ai muri, dentro spettri tridimensionali (o forse bidimensionali anch'essi) tra pieghe di velluto rossoi; fantasmi in un tempio, in un rifugio, in un agonizzante santuario di doppi, di inconsistenza e di consistenza, di temporalità eterne e di temporalità impercettibili, mentre piove.
Fotogrammi e secondi scorrono, il cielo si dispera, un mondo tramonta, qualcuno si guarda allo specchio non corrisposto, qualcuno vaga e attende, attende e vaga: è un lamento muto, Goodbye, Dragon Inn, è forse l'apice raggiunto da Tsai Ming-liang, è una delle vette del Cinema del nuovo millennio.
È una danza di sagome su cui si è scritto molto, sulla spettralità impossibile da ignorare e sul crepuscolo di un cinema, di un Cinema e di un mondo, un ballo immobile ritmato da un qualcosa che Tsai non origina, semmai intensifica.
Se per André Bazin in Paisà si balzava da fatto a fatto come di pietra in pietra per attraversare un fiume, ora né si balza né è possibile farlo: sono oceani di tempo - chissà che ne avrebbe scritto il filosofo Gilles Deleuze - e di spazio a distruggere la fattualità, e una (!) realtà, in una maniera tale da fagocitare tutta la celluloide, da generare un micro-cosmo solo apparentemente ripiegato su di sé.
Quasi ottanta minuti in una sala diventano allora un saggio sulla Settima Arte, sul cinema - sui suoi riti, sul suo potere, sui suoi interstizi - e su un universo, quello fenomenico (di riflesso), volendo anche slegato dal Cinema; lo diventano grazie a uno stile dalla sublime forza significante, in grado di intersecare tanto tematiche vecchie e tematiche nuove quanto ombre prime e ombre seconde, talvolta dotate di una paradossale concretezza.
Bastano un wuxia del 1967, citato nel titolo, e gli abitanti di un cinema-casa-rifugio giunto alla sua ultima proiezione per comporre questo addio, il miglior film di sempre a detta del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul.
E intanto, mentre una serranda si chiude e noi rimaniamo impalati, piove.
Zhang Yimou rappresenta uno dei nomi più importanti, nonché indubbiamente il più celebre, degli ultimi trent’anni di Storia del Cinema cinese.
Diviso tra opere autoriali che gli hanno permesso di vincere premi blasonati e incursioni nel panorama cinematografico mainstream statunitense, il suo nome non può che essere familiare a chiunque si avvicini a quel magico mondo che tanto amiamo: il Cinema.
È proprio di Cinema che parla One second: non solo nella sua accezione più ampia, come arte che sintetizza ed equilibra tutte le altre, ma anche come cinema, inteso come sala.
È la corporeità della pellicola e il valore dell’esperienza collettiva a spiccare in questo film, che è in tutto e per tutto una dichiarazione d’amore e un trattato sul potere, personale e universale, dei film.
One second, cioè un secondo: è proprio per guardare un secondo di un cinegiornale che il protagonista del film fugge da un campo di prigionia e si trova a intraprendere una miriade di peripezie.
In quel secondo infatti è stata ripresa sua figlia che non vede da anni; quell’attimo è l’ultimo dei legami, il sottile strato di pellicola che unisce i suoi ricordi a un presente tristemente infelice.
A contendersi il pregiato strato di triacetato di cellulosa però è una giovanissima orfana che ne ha bisogno per scopi ben più pratici, legati alla serena sopravvivenza sua e del suo fratellino.
La preziosa pellicola, d’altra parte, finisce per rovinarsi; straordinaria è l’opera di pulitura della pellicola di cinegiornale e il recupero di tutte le bobine di Heroic Sons and Daughters (1964) non solo per il lavoro certosino del cosiddetto Mr Movie, miglior proiezionista del collettivo, ma anche per l’appassionato aiuto della comunità.
La fruizione cinematografica è una finestra imprescindibile sul mondo, anche se le visioni sono ampliamente filtrate dalla censura e dal governo cinese.
Il Cinema in One Second si espande da una dimensione individuale a quella comunitaria, la fisicità del lavoro non fa che sottolineare questo aspetto.
Quest’occhio malinconicamente nostalgico verso un modo di vivere la Settima Arte che sembra stia per scomparire pare sottintendere una critica alla freddezza del sistema distributivo, produttivo, ma soprattutto percettivo che caratterizza la nostra epoca.
One second è ambientato durante la rivoluzione maoista ed è arrivato in ritardo nelle nostre sale e al Festival del Cinema di Berlino per presunte difficoltà tecniche incorse durante la fase di post-produzione: nel contesto politico cinese questo può farci presupporre che il film di Zhang Yimou sia stato sottoposto a un intervento censorio.