Il Cinema rape and revenge è stato e sempre sarà un campo minato.
La sua fruizione è regolata da una serie di condizioni che non tutti sono disposti ad accettare ed è per questo che voglio subito avvisarvi, con un enorme trigger warning, che ciò che andrete a leggere potrebbe fortemente urtare la vostra sensibilità.
Non conoscendo a fondo il grado di sopportazione visiva, la voglia di sfidare tale soglia e il vissuto della persona diventa ancora più difficile consigliare di vederne uno.
Perché il rape and revenge non si ascrive semplicemente ad un Cinema degli eccessi che fa dell'andare oltre il proprio marchio, la propria crociata.
Il rape and revenge è stato iper-sfruttato dal Cinema d'exploitation, ed è grazie a questi film che ha acquisito la sua fama, la sua bieca notorietà che ancora "macchia" il genere, cristallizzata nel suo nome.
Fama che è dura a morire anche perché - per quanto anche i film rape and revenge più contemporanei (che, come vedremo, operano una riflessione epocale sul genere) muovano una condanna della violenza - riportano comunque lo stupro al centro del discorso perpetuandone, se non per forza la rappresentazione, il disagio e l'orrore ad esso connessi in quanto punti nodali della narrazione.
[Madeleine (Christina Lindberg), la protagonista muta di Thriller (Bo Arne Vibenius, 1973), perfetto esempio di rape and revenge exploitation]
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Rape, stupro.
L'elemento centrale è la violenza sessuale: non una violenza qualsiasi, ma una violenza che ha una chiara connotazione di genere.
Un tipo di violenza che contamina il fisico con lo psicologico, che non lascia alcun tipo di via d'uscita da una sorta di soffocante totalità sinestetica dell'abuso; forse la violenza (cinematograficamente - e non solo - parlando) più disturbante, quella maggiormente in grado di farci distogliere lo sguardo.
Ma anche quella che più riesce a farci inalberare quando messa in scena in modo patinato e glamour, quando attraverso scelte narrative e registiche ingenuamente poco attente (o smaliziatamente maschiliste) se ne svaluta lo statuto di violenza con ammiccamenti eccitatori.
Allora, forse, l'aspirazione per il rape and revenge contemporaneo è quella di non farci distogliere lo sguardo, di costringerci a guardare quello di cui più ci costa prendere atto, ma di farlo per mezzo di una maggiore sensibilità e una più acuta consapevolezza personale (che giocoforza si traslano sulla macchina da presa) in grado di fare uso degli stilemi per illuminare dei punti critici della violenza reale che ci circonda, dando un nuovo volto e una nuova profondità a ciò che abbiamo spesso visto in un'ottica di sfruttamento del sempre pruriginoso connubio tra sesso e violenza.
Non ci deve stupire il fatto che questa nuova vita - più conscia - del rape and revenge sia largamente in mano alle registe e alle sceneggiatrici, che si sono letteralmente riappropriate del proprio corpo filmico prendendo il controllo della macchina da presa, della narrazione del trauma e della vendetta.
Lo hanno fatto offrendo originali e preziosi punti di vista che hanno qualcosa di nuovo da dire, proposte totalmente innovative in cui la formula viene ribaltata, destrutturata, adattata o semplicemente presa in carico da soggettività la cui voce - soprattutto riguardo tale delicata materia - è imperativo tenere in in primo piano.
Ciò che ho a cuore di dimostrare - soprattutto attraverso la breve analisi degli otto film di questa Top - è quindi che il rape and revenge può essere (e lo è diventato in svariate occasioni) molto più del titillamento misogino con cui lo si identifica, con cui la sua nomea è legata a doppio nodo nell'immaginario collettivo.
[Emerald Fennell sul set di Una donna promettente] rape and revenge rape and revenge
Facendo un enorme passo indietro: che cos'è il rape and revenge?
La concettualizzazione più sensata, con tanta tradizione alle spalle, è probabilmente quella di Claire Henry, che vuole il rape and revenge come genere a sé stante.
In Revisionist Rape-Revenge: Redefining a Film Genre, la studiosa vuole partire proprio da qui, dall'incasellare quella che è stata definita formula narrativa, ciclo, filone, nell'etichetta istituzionale di genere vero e proprio (dandogli anche, in questo modo, il fondamentale statuto di oggetto che vale la pena studiare), ma evidenziando tuttavia, attraverso le parole di Christine Gledhill, uno scarto rispetto ai vecchi modelli di categorizzazione, rispetto ai quali si pone come processo cross-mediale e cross-culturale, piuttosto che come enclave, prodotto chiuso, finale.
Il rape and revenge possiede infatti una sua iconografia (vittime seminude e sporche, rossetti, parrucche e costumi simil-fetish della vendicatrice, castrazione, donne armate), personaggi ricorrenti (la vittima giovane bianca e attraente che diventa femme fatale vendicatrice, gli stupratori, i redneck), temi-chiave (trasformazione, trauma, etica della vendetta, vigilantismo, tortura) e la caratteristica struttura in due parti che gli ha dato il nome (prima lo stupro, poi la vendetta).
Mettendo in conto l'ibridazione con altri generi, che è forte e pervasiva (si pensi alla sua continua classificazione come horror, quasi che l'orrore del materiale narrativo sia sufficiente ad ascriverlo al genere, quasi che si voglia isolare il dolore della violenza sessuale nel dominio del mostruoso), il rape and revenge riesce comunque a mantenersi indipendente.
Rispetta, come sottolinea Henry, le sette caratteristiche del genere individuate da Rick Altman in merito al panorama hollywoodiano: dualità dei protagonisti e della struttura, natura ripetitiva, dipendenza da un effetto cumulativo, prevedibilità, uso di riferimenti intertestuali, forte connotazione simbolica e funzione sociale.
La posizione di Henry si pone in contrasto con quelle di Carol J. Clover e Jacinda Read: se la prima concepisce il rape and revenge come sottogenere dell'horror, la seconda lo ritiene una struttura narrativa che ha dato luce a un ciclo di film dalla specificità storica più che di genere che si collocano negli anni '70.
Questa proposta è stata sconfessata dal tempo poiché, già solo dieci anni dopo il saggio di Read, Alexandra Heller-Nicholas traccia una storia del genere che ne dimostra l'emergenza in tempi non sospetti e la non ancora esaurita vitalità all'alba degli anni '10 del 2000.
[Gilda (Dorothy McKaill) ne L'isola della perdizione: lo stupro al cinema prima del Codice Hays] rape and revenge rape and revenge
Le più remote origini del rape and revenge (con un accento narrativo sul primo termine del binomio) risalgono alla Hollywood pre-Code, ovvero a quel breve periodo tra la diffusione del Cinema sonoro e la comparsa del Production Code (meglio noto come Codice Hays) che metteva forti veti produttivi su tutto ciò che si poteva rappresentare sullo schermo.
Anche nell'età classica di Hollywood lo stupro non scompare dalle narrazioni cinematografiche, offrendo degli affondi di inestimabile importanza nel trauma sessuale e andando a consolidare alcuni tropes del genere, tra i quali la protagonista muta (o sorda, o cieca): riprendendo il personaggio di Dorothy McGuire ne La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1946), Johnny Belinda (Jean Negulesco, 1948) fa sua protagonista una sorta di ingenue rinnovata, in cui l'essere sordo-muta diventa strato esteriore del suo essere indifesa.
La persistenza di questa figura diventa palese prendendo due film successivi e temporalmente distanti tra loro: Gli occhi dello sconosciuto (Ken Wiederhorn, 1981) e The Seasoning House (Paul Hyett, 2012) continuano infatti in questo solco tracciato dal genere più di settant'anni fa.
[Locky (Stephen McNaill) e Belinda (Jane Wyman) in Johnny Belinda: si istituisce il tropo della vittima di violenza sessuale sordomuta] rape and revenge rape and revenge
L'artisticità che mancherà continuamente alla reputazione del genere ne segna tuttavia i prodromi critici, in quello che Heller-Nicholas chiama "canone mainstream".
Nel 1960 il cineasta svedeseIngmar Bergmanrealizza La fontana della vergine, ispirato a una ballata medievale, inaugurando l'istituzionalizzazione del protagonismo maschile nella vendetta dello stupro femminile e lo spostamento di focus sulle sue questioni interiori, che ritroveremo in molti film degli anni '70 e '80, tra cui Cane di paglia (Sam Peckinpah, 1971), la saga de Il giustiziere della notte o Coraggio... fatti ammazzare, capitolo del 1983 della serie di film dedicati all'Ispettore Callaghan di Clint Eastwood.
Un capitolo a sé andrebbe aperto per Un tranquillo weekend di paura (John Boorman, 1972), dove avviene uno stupro omosessuale e le donne sono assenti dalla narrazione: è il film in cui si può leggere con più evidenza quel doppio asse della vendetta - di cui scrive Clover nel capitolo dedicato al rape and revenge (dal titolo "Getting Even", pareggiamento di conti) nel suo volume sopracitato - che si articola in vendetta della donna sullo stupratore e vendetta della città sulla campagna.
Qui la vittima uomo viene femminilizzata, ma il discorso del film pende maggiormente dall'altro lato dell'asse: i protagonisti sono quattro uomini d'affari di Atlanta che decidono di percorrere in canoa il "last wild, untamed, unpolluted, unfucked-up river in the South".
La campagna, metaforicamente violentata dai bisogni della grande città, si rifà sugli inurbati invasori, che a loro a volta si vendicano, in una catena di ritorsioni che ha come centro nevralgico la mascolinità.
[David (Dustin Hoffman) nel meraviglioso ma iper-problematico Cane di paglia. In un'intervista a Playboy, Sam Peckinpah fece un'affermazione riguardo Amy, il personaggio della donna che viene stuprata nel film, che spalanca le porte alle discussioni critiche e teoriche sulla scena di violenza e sul film in generale: "There are women and there are pussy [...] [Amy] is pussy under the veneer of being a woman"]
Quando negli anni '70 del secolo scorso il rape and revenge assume la forma di fenomeno cinematografico, critico e di costume, ci troviamo in un momento storico in cui la discussione pubblica sulle politiche sessuali è diventata mainstream, sulla scia del femminismo di seconda ondata.
Lo stupro al Cinema diventa quindi strumento retorico, metafora di una riflessione su problematiche ulteriori, non ultimo il femminismo stesso: la violenza sessuale diventa il motore della trasformazione della donna mite in potente vendicatrice, e attraverso le contraddizioni e i contrasti tra queste due anime il dibattito cerca di comprendere e venire a patti con le criticità presentate proprio dal femminismo.
[Jennifer Hills (Camille Keaton) in Non violentate Jennifer, il rape and revenge per eccellenza, il film che riduce all'osso la formula e ne diventa blueprint da ricalcare o sovvertire] rape and revenge
Non violentate Jennifer è ormai diventato il rape and revenge per eccellenza, nel bene - ma soprattutto nel male - delle sue implicazioni: il minimalismo della narrazione, la brutalità dello stupro e la puntualità della vendetta ne fanno lo standard da cui muoversi, la formula al suo stato basico (e per questo il prodotto più utile come punto di partenza di un'analisi del genere).
Ancora oggi quella di Jennifer, scrittrice isolatasi nella campagna per trovare la pace creativa e violentata da un gruppo di bifolchi a cui restituirà il torto subito, è una visione emotivamente impegnativa, soprattutto per la lunghissima scena dello stupro, reiterata in tre momenti successivi che ci conducono nel baratro della perversione, nella scomoda posizione della vittima.
Il trascinarsi ai limiti del tollerabile dello stupro viene abbandonato ne L'angelo della vendetta (Abel Ferrara, 1981), che lo riduce a breve prologo per lasciare spazio alla vendetta della timida e remissiva Thana, le cui azioni vengono immortalate nell'immaginario sotto forma della sua mascherata da suora, con tanto di rossetto e pistola, pronta al climax finale.
Ma già qualche anno prima, quando uscirono i film di Peckinpah e Boorman, un regista poco più che trentenne che rivoluzionò in seguito (e più volte) il Cinema horror realizzò il suo debutto ispirandosi a quel La fontana della vergine che viene preso ad esempio eccellente di rape and revenge art-house: con L'ultima casa a sinistra, Wes Craven decide di uccidere la vittima (che in questo caso sono due) di stupro e lasciare che a occuparsi della vendetta siano i suoi genitori, che si ritrovano provvidenzialmente i criminali responsabili in casa propria.
L'inettitudine delle forze dell'ordine viene resa forte e chiara, con un'amara ironia, la trasformazione dei vendicatori in mostri omologhi a quelli che hanno ucciso restituisce la circolarità senza via d'uscita della violenza.
La "popolarizzazione" del genere viene messa in atto da film come Stupro (Lamont Johnson, 1976), Oltre ogni limite (Robert M. Young, 1986) e Sotto accusa (Jonathan Kaplan, 1988), che "innalzano" il genere mettendo sul piatto le tematiche della giustizia, della sua fallacia e corruzione, dei dilemmi etici su come agire quando le istituzioni mostrano la loro inadeguatezza nel tutelare e punire.
Impossibile non menzionare, tra i film che hanno aperto il genere al grande pubblico, quello che pur non essendo un rape and revenge propriamente detto nel 1991 ha portato sui nostri schermi una "fantasia femminista" (nelle parole di Heller-Nicholas) il cui significato culturale supera il traballante calco della formula.
Con Thelma & Louise Ridley Scott denuncia la sistematicità dell'abuso della donna, anche se con toni e narrazione completamente diversi, esattamente trent'anni prima del suo imperdibile The Last Duel.
[Sarah Butler è la nuova Jennifer Hills in I Spit on Your Grave, remake del film del 1978] rape and revenge
Senza stare a fare un elenco infinito di titoli, è fondamentale sottolineare che l'ondata non si è mai esaurita, come mostra anche il ricorso al remake che ha toccato L'ultima casa a sinistra (Dennis Iliadis, 2009), Cane di paglia (con il ritorno al titolo originale, Straw Dogs, Rod Lurie, 2011) e Non violentate Jennifer (anche qui con il ritorno all'evocativo I Spit on Your Grave, Steven R. Monroe, 2010).
Il caso di quest'ultimo film è particolarmente interessante nell'ottica dell'evoluzione del genere.
Se la portata dello stupro rimane in larga misura simile all'originale (forse depotenziata dall'eccessiva pulizia della fotografia, che mancava nel 1978), la vendetta si fa estremamente più esplicita, più violenta, più gore; se continuiamo a empatizzare con Jen (qui interpretata da Sarah Butler) come vittima e non come persona (come nell'originale, non la conosciamo affatto), il film decide di caricare maggiormente il momento in cui siamo portati al catartico giovamento della punizione.
L'aggiornamento tecnologico permette l'inserimento della narrativizzazione del voyeurismo, attraverso l'insistita ripresa con la videocamera delle "gesta" del gruppo.
La modifica più significativa riguarda però l'autorità: se la Jennifer di Camille Keaton non contempla minimamente una possibile intercessione della giustizia istituzionale, la Jennifer di Sarah Butler si ritrova a chiedere aiuto al poliziotto del paese, padre di famiglia, che però si rivela il più brutale e viscido tra gli stupratori, entrando a far parte della rivoltante allegra brigata.
Quindi non solo la legge non fa nulla per la ragazza, rivelandosi inetta o disinteressata; diventa complice, anzi, guida dei carnefici in una scelta narrativa molto forte, attraverso cui vediamo l'ipocrisia di una misoginia repressa nell'istituzione familiare, che appena si presenta l'occasione esplode disastrosamente.
Nel film originale mancava quello che è poi diventato un motivo ricorrente del rape and revenge, ovvero la presa in giro pappagallesca di parole e gesti degli stupratori, qui rimarcata dalle originalissime uccisioni per contrappasso.
Con I Spit on Your Grave 2 (Steven R. Monroe, 2013) viene compiuta un'operazione simile a quella effettuata dal Black Christmas del 2019: viene sfruttata la celebrità di un film (e il suo titolo) per raccontare una storia diversa, con personaggi diversi, che mantiene forte la sua appartenenza al genere attraverso la ricorrenza dei suoi motivi narrativi e tematici, nonché la struttura base dello stupro e della vendetta.
Una significativa differenza è che qui alla violenza sessuale si aggiungono reiterate torture, non più confinate a un segmento circoscritto del film, ma trascinate lungo la sua durata: si sfilaccia la matematica e - in qualche modo - rassicurante struttura del genere.
Le citazioni si sprecano, la brutalità cresce: la violenza delle sevizie è ripagata dall'altissimo tasso di schifo (perdonate il termine poco tecnico) con cui Katie (Jemma Dallender) restituisce l'inferno passato.
[Sarah Butler torna come Jennifer in I Spit on Your Grave III: Vengeance Is Mine: "Justice isn't something you receive. It's something you dish out"] rape and revenge
La storia del 2010 viene ripresa con il primo, effettivo, sequel: I Spit on Your Grave III: Vengeance Is Mine (R.D. Braunstein, 2015).
Sarah Butler riprende il suo ruolo come Jennifer Hills e la storia inizia in un momento successivo ai fatti del primo film, in cui la ragazza partecipa a un gruppo di ascolto per vittime di violenza sessuale: il tema del vigilantismo, della valenza del perdono e della vita dopo la violenza permettono che il film ampli la sua portata, andando ad uscire dal personale per rivolgersi ai traumi delle altre.
La struttura è molto diversa, sembra quasi un giallo, e lo stupro avviene offscreen; i rimandi alla sfera religiosa, che hanno caratterizzato tanto rape and revenge, tornano nel nome fittizio che Jennifer usa per rimanere "sotto copertura", Angela (angelo della vendetta) e nella sua blasfema ironia ("Forgive me, Father, for I don't give a shit").
Nessuna speranza: lo stupro l'ha segnata infondendole una rabbia che non sembra potersi sedare in alcun modo, data la fissità disperante della rape culture.
Ultimo - per ora - capitolo originato dal film del 1978 di Meir Zarchi è I Spit on Your Grave: Deja Vu (2019), scritto e diretto dallo stesso Zarchi e primo sequel ufficiale del film originale.
Torna Camille Keaton nei panni di Jennifer, che ha scritto un libro, I Spit on Their Graves, in cui ha raccontato la sua storia; i parenti delle sue vittime (ovvero gli stupratori) rapiscono lei e la figlia per vendicarsi a loro volta.
Un film dalla durata illegale, che fa impallidire The Room di Tommy Wiseau.
Vi basti sapere che esiste.
E direi basta con la Storia del genere, anche se quanto avete letto è incompleto e più ricco di suggestioni che di linearità.
Sapete anche voi che Una donna promettente ha, forse più di qualsiasi altro film, aperto il genere al pubblico più ampio, e i film che troverete tra poco dimostrano quanto esso sia vivo e vegeto e con moltissimo da dire.
[Lo sguardo in macchina di Jen (Matilda Lutz) in Revenge: lo spettatore viene interpellato direttamente (non è un unicum: si pensi, tra gli altri, alla rottura finale della quarta parete da parte di Maya (Rosario Dawson) in Descent (Talia Lugacy, 2007)]
Il corpo femminile è protagonista assoluto del rape and revenge, la vittima che diventa carnefice nel compiersi della revenge, della vendetta che di volta in volta porta a esiti differenti, a climax che si sgonfiano nell'assenza di speranza, a catarsi liberatorie, all'annullamento del sé dopo che il pareggiamento di conti non si rivela, dopotutto, la via giusta per il superamento del trauma.
Noi, in quanto spettatori, ci troviamo implicati moralmente in ciò che vediamo, nelle scelte che vengono compiute, nella legittimazione della rabbia e nel disastro delle sue conseguenze: gli insistiti sguardi in macchina delle protagoniste, proprio rivolti a noi, ci ricordano che non ce la caveremo con poco, con una visione passiva, ma ci trascinano in prima persona nella banalità dello stupro e, quasi con un tono di sfida, sembrano chiederci:
"Cosa avreste fatto al mio posto?".
Così come nel caso dello slasher, Clover fa presente che anche nel rape and revengeil sesso femminile della protagonista è determinato dalla femminilità della posizione di vittima che, tuttavia, viene ribaltata nella seconda parte del film (nonostante il sesso sia ormai stato fissato) diventando hero(ine) e quindi maschile.
Il caso di Un tranquillo weekend di paura ci mostra come il sesso della vittima possa variare, come il gender sia la chiave.
Lo ammetto: è difficile trovare dei rape and revenge belli, film validi in sé e per sé (e non solo rilevanti a livello di analisi teorica, come lo sono tutti quelli menzionati), perché ancora oggi quello della violenza sessuale al Cinema è un terreno molto scivoloso, non calpestato di frequente, talvolta percorso rimanendovi ai lati o, peggio, creando solo un gran polverone e nulla più.
Se molti film del passato è possibile "salvarli ideologicamente" andando oltre il film stesso, attraverso l'analisi (spesso concentrandosi sulla forma della messa in scena, la ricezione critica e spettatoriale, le politiche di genere) è perché risultano interessanti proprio a livello di studio del fenomeno; se in quei film le riflessioni sulla materia sono forse ancora perlopiù inconsce o casuali, oggi la meditazione sul genere è programmatica, parte integrante e imprescindibile del discorso politico che i film (le registe) più consapevoli mettono in atto.
Ma questa scarsità di titoli "consigliabili" permane, così come l'interesse per un genere in continua evoluzione in un'ottica di tracciamento delle sue trasformazioni.
Poiché ogni film (anche quelli meno "artistici", più profittatori) ha il suo take sul rape and revenge, ha un'idea di ciò che vuole dire con quel determinato mezzo, ha un piano su come modellarlo per cavarne fuori la sua prospettiva, il suo statement, l'immagine desiderata.
Il fatto che molti di quelli che troverete in questa Top 8 siano esordi (nel lungometraggio) dà la misura di una nuova voglia di sperimentare con tematiche incandescenti, difficili da prendere in mano e gestire; e il fatto che, casualmente, il range geografico di provenienza di tali titoli sia così variegato (Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Francia, Irlanda, Australia) - e qui ho tralasciato l'enorme diffusione che il genere ha nel Cinema di Bollywood - dimostra quanto questo bisogno sia pervasivo.
Avvisandovi della presenza di spoiler (graduali - potete leggere e smettere quando vi accorgete di non voler saper di più - ma necessari per un'analisi delle aderenze e trasformazioni del genere), eccovi allora le storie - diverse ma solo in quanto lati di un mostro dalle mille sfaccettature - di otto donne: Julia, Rose, Mary, Noelle, Bok-nam, Jen, Clare e Miriam.
Se ve la sentite guardate questi film e provate a cambiare l'ottica in cui avete (forse) sempre inquadrato il tanto vituperato rape and revenge: sotto la superficie di estrema violenza può esserci qualcosa che va oltre la gratuità; dietro la decisione di non mostrarla, qualcosa di ancora più brutale.
"Please understand we will still tackle the problem in the physical world.
We will cut it at its root, but in a manner that helps you transcend the ego and brings you true and lasting freedom, where I can assure you no one will ever hold power over you again"
Le quinte del film si aprono con Julia (Ashley C. Williams) che si sta recando a casa di un conoscente, un dottore, che sembra solo ora interessato ad approfondire il loro rapporto (scena che troveremo riproposta, uguale ma drammaticamente diversa, alla fine del film, apice disatteso della vendetta).
Le maschere ci mettono poco a cadere e, prima che possa rendersene conto, la (sua e nostra) vista si appanna, il mondo comincia a girare: è stata drogata e quattro uomini le incombono davanti, ombre pronte a violarla.
Un incontro casuale piovuto come segno del destino mette Julia in contatto con una sorta di terapeuta sui generis, l'accesso alla cui cura è ammantato di un'aura da "segreto aperto" à laFight Club, che instraderà la sua vendetta su strani binari che portano ad astrarla dal personale, a favore di un'universalità della punizione in grado di farla uscire dagli stretti e passivi confini mentali della "vittima".
Il primo, evidente scarto dalla formula base del rape and revenge è che inizialmente lo stupro non viene mostrato, ma saltato a pié pari con un'ellissi: scelta narrativa che troveremo, in forme diverse e più o meno consapevoli e meta-riflessive, in molti film di questa top.
La nostra visione si ottenebra con quella di Julia e ciò che avviene è lasciato alla nostra immaginazione (e non serve che sia poi tanto fervida per indovinare).
Riapriamo gli occhi nel momento in cui i violentatori scaricano il corpo di Julia sulla riva, per lasciare che l'alta marea se lo porti via prima che la ragazza rinvenga.
Scampa a morte certa grazie a un'iniezione di adrenalina che la risveglia di colpo, somministratale di nascosto da uno degli aguzzini (mosso da senso di colpa o pietà?) che sarà una figura fondamentale per lo sviluppo della narrazione.
Ma, come accennato, lo stupro non viene visivamente taciuto tout court.
Segmenti avulsi dalla narrazione lineare iniziano presto ad infiltrarsi nel tessuto del racconto, flashback che emergono dalla mente di Julia, tornando sulla scena del crimine con spietata brutalità, con il doppio scopo di alimentare la plausibilità psicologica della futura vendetta di lei (emotivamente ingiustificabile nell'assenza al livello della visione dello stupro) e di gettare luce sul personaggio di Adam, il suo - perdonate il binomio assurdo - stupratore/salvatore.
Alle analessi della violenza passata si aggiungono altri segmenti staccati dalla narrazione principale, che fatichiamo a situare in modo definito nel tempo e nello spazio, ma che assumono una cupa qualità presaga in relazione alle vicende della nostra protagonista che, nel racconto al "terapeuta", svela dettagli sulla sua infanzia che delineano una continuità nella sua personale storia di abuso.
Nella misteriosa - e a lungo senza volto - figura del terapeuta è racchiusa l'eredità deflessa della tradizione.
Sono infatti due le istanze del rape and revenge che vengono chiamate in causa dalla sua presenza: il tentativo pre-vendetta di trovare giustizia attraverso le istituzioni e l'intercessione maschile.
Storicamente, nei casi in cui la narrazione del post-violenza passa nel tritacarne della giustizia regolamentare, l'esito è o fallimentare - con il conseguente rifarsi ai propri, personali, metodi di ritorsione (si pensi a Stupro) - o colpevole di spostare il focus dalla vittima, che riprende in mano la sua vita e il suo corpo, al suo intermediario del caso o ad altre questioni (si pensi a Sotto accusa).
Per quanto riguarda, invece, la presa in carico maschile della vendetta, troviamo la sua legittimazione nella morte o inibizione della vittima di violenza (di cui il protagonista è parente o comunque persona sentimentalmente vicina), come ne La fontana della vergine; oppure, il crimine, pendendo dal lato del reato alla proprietà più che alla persona, diventa il pretesto per melodrammi di moralità mascolina, come ne Il giustiziere della notte (Michael Winner, 1974).
Qui abbiamo una combo delle due cose, che non rappresenta un ostacolo alla centralità della vendetta di Julia, la quale si pone proprio in contrasto con la "legge" della giustizia maschile legittimata (sia quella istituzionale che quella istituzionalizzata dal "terapeuta").
La strana terapia a cui Julia si sottopone prevede, come accennato, la messa in atto di una ritorsione sì fisica, sì violenta (castrazione e omicidio ne sono i pilastri), ma che non si cura degli stupratori dei casi specifici, prendendo invece come obiettivi uomini accalappiati in modo più o meno casuale nei locali: quegli uomini "who think the world revolves around them", come dice Sadie, mentore del percorso di guarigione di Julia.
La brutalità della vendetta rimane, ma imbrigliata, teoricamente priva di passione perché indirizzata su bersagli deviati dai personalismi: ci si distacca dal trauma personale per abbracciare un trauma condiviso.
Lo scopo ultimo di questa metodologia è l'uscire dall'ottica vittimistica e riconquistare il potere che gli uomini hanno tolto alle donne ("seduction, blood, vengeance").
Ma attente a tradire le clausole di questo ufficioso contratto "medico", che in fin dei conti inscrive la vendetta in una struttura di superamento del trauma controllata da un uomo: o si resta fedeli agli accordi o, se la vendetta dovesse diventare personale...
Julia, venendo meno ai patti, andrà a interrompere un meccanismo che in fin dei conti nulla ha di altruistico: il suo impossessarsi della propria vendetta andrà rovinosamente a scontrarsi, sovrapponendovisi, a un'altra personalissima vendetta, di cui lascio a voi scoprire i contorni.
Curiosamente però è proprio Julia a crearsi un suo speciale "aiutante" uomo, quell'Adam che aveva mostrato pietà nei suoi confronti, pentimento su cui Julia poggia la sua strategia vendicativa: la male agency del rape and revenge torna quindi controllata, pilotata, limitata, sotto forma di un pupazzetto addomesticato dalla femaleagency.
Il make-over - spesso intrapreso autonomamente dalle protagoniste del rape and revenge per "prepararsi all'azione" - diventa qui il primo passo del training per liberarsi (anche fattualmente) dei panni della vittima.
Non che lo stupro sia legato all'esteriorità più o meno provocante della donna (ricordiamoci, ora e per sempre, che si tratta di un atto di potere che mette in secondo piano il desiderio sessuale); ma qui il seducente agghindarsi serve appositamente ad attirare le attenzioni degli uomini, in un'assunzione del comando, della posizione di soggetto che, con una vera e propria mascherata della femminilità, ribalta i ruoli.
La vergogna della vittima (il cognome di Julia è, significativamente, Shames) si trasforma in ebbrezza di potere, con la vendetta personale appena dietro l'angolo (la mise che richiama Female Prisoner #701: Scorpion e la citazione letterale a Lady Snowblood parlano chiaro).
Interessante il fatto che, qui come in Rose Plays Julie e American Mary (spoiler: li troverete più avanti in questa "classifica"), la protagonista svolga una professione sanitaria, che le dà il controllo sul corpo altrui, aprendo potenziali scenari che, se qui vengono promessi e poi disattesi, in American Mary vengono portati all'estremo.
Ma a differenza di American Mary qui lo stupro è ciò che in toto costituisce la caratterizzazione del personaggio protagonista, andando a far equivalere il suo sviluppo narrativo allo sviluppo del trauma.
Questo concetto della violenza come evoluzione del personaggio viene addirittura messo in bocca alla stessa Julia: è "grazie" allo stupro - a cui lei si sente quasi debitrice - che è riuscita ad annientare tutte quelle nozioni date per assodate, interiorizzate per colpa della società, di vittima, di donna.
Questo discorso viene fatto a Adam, per ingraziarselo: quanto di vero c'è nelle sue parole?
Quanto di ennesima maschera per arrivare al proprio obiettivo?
Il rapporto con Sadie diventa l'unica relazione intima possibile, con una donna che è guida (a sua insaputa) della vendetta, ma la cui evoluzione è legata indissolubilmente proprio al peso di questa e allo spazio che crea tra di loro.
Tra scene che specchiano le precedenti e momenti che, silenti, si limitano a comunicare agli occhi, viene disegnato l'arco di una protagonista che si muove nel buio e tra luci al neon, in locali e vicoli che mai avrebbe pensato di battere, con il solo scopo di arrivare fino in fondo, solenne, implacabile, ma fallibile.
"Doesn't it bother you? That he's out there, acting as if nothing happened?"
"Is he?"
"That's how it looked to me. And I am struggling, really struggling with how that makes me feel"
Rose (Ann Skelly) è una giovane studentessa di veterinaria in cerca della sua madre biologica, Ellen (Orla Brady).
Riesce a inserirsi a forza nella sua vita, per avere delle risposte; ma proprio l'ottenimento di quelle inattese risposte precipita Rose in un baratro da cui l'unico modo per risalire sembra essere incontrare e sistemare i conti con l'uomo che ha sconvolto la vita sua (portandola al mondo) e di sua madre (segnandola con l'abuso), suo padre.
Peter (Aidan Gillen) è uno stimato archeologo: fa riemergere fossili dal terreno, ma non è pronto ad affrontare l'enormità che questo scavo costretto e inaspettato nel passato lo porta a disseppellire.
Il tema del doppio, del rimpianto, di una distorta coazione a ripetere, si amalgamano nella storia di due donne "segnate" dal passaggio di un uomo che ha creato svariati traumi al prezzo di uno: traumi che si duplicano, si trasformano e rimbalzano da madre a figlia, da figlia a madre.
Rose, quando è nata, era Julie.
Julie è colei che non ha mai potuto vivere una vera vita oltre l'inchiostro sul certificato di nascita; è il "what if" di Rose, una persona da lei percepita quale avente fattezze quasi reali, quella persona che lei sarebbe stata (totalmente differente da quella che lei è diventata) se sua madre avesse deciso di tenerla.
Ma qual è il vero io del personaggio?
Rose o Julie?
Rose è stata una sorta di ripiego perché Julie non ha potuto crescere?
Un ulteriore specchio di una Rose/Julie potenziale è Eva, la figlia "legittima" di Ellen, la figlia che è stata voluta, la figlia che avrebbe dovuto essere Julie, la figlia che ora Rose, dopo aver perso la madre adottiva, desidera avere di nuovo la possibilità di diventare.
Il fatto che la madre faccia l'attrice - la professione che per eccellenza fa della multiformità la sua vocazione - non è un caso, poiché le maschere andranno qui, di continuo, a nascondere le persone che vi si celano al di sotto, sia a livello di inganno costruito, sia a livello di inganno indotto per la sopravvivenza al massacro che a volte è lo stare in società.
Il titolo stesso del film invoca tali suggestioni: Rose Plays Julie, siamo nel reame del gioco delle parti.
Lo statuto di potere di Peter è inscritto nella sua fama professionale; per contro Ellen - il cui lavoro è quello che siamo automaticamente portati a pensare come connesso alla notorietà e all'influenza - non viene mostrata "in controllo" grazie alla sua posizione, ma imbevuta in uno stordente panorama di falso, celato, illusorio.
Basti pensare alle due volte in cui Rose chiama la madre, in cui lei sta recitando due ruoli diversi.
O alla prima volta che noi spettatori la vediamo: sono immagini il cui statuto non è ben chiaro, sembrano ricordi, ma ben presto capiamo che si tratta di inquadrature di un film che sta guardando Rose.
In cui recita Ellen.
Un'immagine cinematografica che si rivela diegeticamente immagine cinematografica: il film si appropria di un ventaglio di riflessioni che hanno fatto la Storia della Teoria del Cinema, sulla natura della sua immagine, ambigua per definizione, sul crinale tra illusione (del reale) e realtà (dell'illusione).
Altre pennellate vanno a fissare il tema del doppio: il nome della madre Ellen Wise e il suo nome da nubile, la sua identità di quando ha partorito Rose, Ellen Bern; e il suo aver interpretato, una volta, una veterinaria, ovvero il "ruolo" professionale di Rose.
Continua il gioco di rifrazioni, specchi, simmetrie ingannevoli e capovolte.
La prima lezione che vediamo Rose frequentare è sull'eutanasia richiesta per animali domestici sani che presentano un bad behaviour: il parallelismo con ciò che accadrà diventa, con il senno di poi, lampante, tremendo e, per certi versi, perfettamente inserito nei destini dei coinvolti.
Torna la professione medica (qui veterinaria) che lega la protagonista a una fisicità, a un contatto viscerale - e allo stesso tempo distaccato - con il corpo altrui, come nel caso delle sue "colleghe" di Julia e American Mary: questa sembra essere una tendenza del rape and revenge contemporaneo, quella di inscrivere il corporeo - sempre a un passo da diventare abietto - al livello del ruolo sociale del personaggio femminile (tendenza che arriva fino al Cinema più popolare, con la Cassie di Una donna promettente, la cui mancata professione medica torna, distorta, all'apice della sua vendetta).
Rose, per arrivare a Peter, ricalca i passi della madre, ricreando i presupposti che hanno portato alla violenza, riavviando un loop che - più a noi spettatori che a lei parte coinvolta - sembra non poter portare da nessun'altra parte se non alle già sperimentate e ben conosciute tragiche conseguenze.
Sia l'incontro con il padre che quello con la madre avvengono attraverso lo sguardo attivo di Rose, che rimane a senso unico, non ricambiato dai suoi oggetti, ignari.
E le battaglie di sguardi saranno l'elemento costitutivo di molti degli incontri e degli scontri tra i personaggi.
Rose si trasforma in Julie, con una parrucca corta, come si immagina che lei sarebbe stata in quell'altra vita che non ha avuto.
Si finge Julie, un'attrice che deve recitare (ancora!) la parte di un'archeologa: si finge la donna che non è mai stata e mai sarà, appropriandosi di aspetti dell'identità della madre, aspetti dalla spiccata natura trasformativa e ingannevole, che mirano a riportare Peter sul seminato, a riacciuffarlo in una meccanicità di comportamenti che lui stesso riconoscerà come qualcosa di marcio dentro di sé.
Il trauma della madre viene risvegliato dal trauma della figlia, giunta per dare una svolta e un nuovo punto di inizio a un altro trauma, duraturo e precedente: diventano in due di fronte ai dilemmi che la protagonista del rape and revenge si trova ad affrontare da sola, o a fianco di persone che non sono comunque coinvolte in prima persona.
Qui è il trauma di Ellen che è stata stuprata, ma è allo stesso modo il trauma di Rose, che da quello stupro è nata, e che a causa di quello stupro ha subito una scissione dell'identità che l'ha in qualche modo segnata, tra l'abbandono e il vuoto sulle proprie origini.
Qui lo stupro originario manca totalmente, sostituito da immagini frammentate dei momenti immediatamente successivi e da Rose stessa, che ne è manifestazione materica, che ne reitera la persistenza, delle sue conseguenze, delle sue fratture psicologiche.
E da suggestioni e parti della sua immaginazione distorta.
C'è però un tentato stupro, che prova a ripetere, come in un cerchio spezzato, ciò che è stato.
Un elemento che perturba la struttura tradizionale del genere è il passaggio di consegne della vendetta, che (dopo non essere stata nemmeno presa in considerazione da Ellen al tempo della violenza) passa ora dalla figlia di nuovo alla madre: se per Rose costituiva la possibilità di liberarsi di (o diventare) Julie, per Ellen è un definitivo affrontare il trauma con una consapevolezza nuova, datale dalla presenza adulta e vicina di quella seconda vita che è stata impressa da un singolo atto di prevaricazione.
Peter è immerso nell'automistificazione di se stesso, che gli permette di non affrontare a livello cosciente ciò che è, ciò che ha fatto, crogiolandosi nella facciata che mostra agli altri, consolandosi, credendola - sperandola - reale: indicativamente, Peter mostra di apprezzare i capelli di Rose (Julie, per lui), appendice falsa che la ragazza ha deciso di indossare per la sua performance.
Il film non lascia indietro o in secondo piano Peter, dedicando alla presa di coscienza del suo crimine, simbolicamente durante la soppressione di un cerbiatto ferito, minuti fondamentali.
Lui si ricorda, non ha dimenticato, ma nonostante ciò ripete l'errore, il torto, come se il destino dell'abuso stia tutto qui, in un serpente che si morde la coda, dove la soluzione non possono essere la vendetta e la morte, ma dove solo la vendetta e la morte, in mancanza di un'educazione, di uno scarto a livello di cultura, possono tutelare chi verrà dopo.
Libero arbitrio, predestinazione, rimpianto per ciò che non si è mai vissuto: Rose Plays Julie è un rape and revenge generazionale, un racconto che risucchia in un vortice di interrogativi che, con poche parole e tanta suggestione, attecchiscono nello spettatore, accompagnandolo in un percorso (tanto nostro, appunto, quanto di Rose) di scoperta, disillusione e rinnovata speranza.
"A doll can be naked and never feel shy or sexualised or degraded. That's what I want"
Mary Mason (Katharine Isabelle) è una studentessa di chirurgia che vive grazie ai prestiti universitari, il cui unico legame familiare è con la sua Nana (la nonna) a Budapest: solitaria, sola, distante, è una giovane donna zelante che, pur di imparare meglio e più in fretta la professione, anticipa la pratica della specializzazione usando tacchini da cucina come cavie per tagli e suture.
Fino a quando il bisogno di procurarsi dei soldi per l'università non farà sì che al posto dei volatili si trovi sotto le mani un quanto mai reale corpo umano; questo inaspettato "intervento" darà modo a Mary, con i suoi inarrestabili sviluppi, di "sbirciare" nel pozzo senza fondo della body modification, dalla quale la ragazza sembra però voler prendere le distanze.
Un'irreparabile svolta, per Mary e per il suo rapporto con il corpo (degli altri), si avrà con una schiacciante e gratuita manifestazione del potere che, su di lei, hanno i suoi superiori/professori in ambito medico e universitario.
Se il volto della "American Mary" del titolo vi è familiare, probabilmente è perché riconoscete le fattezze pre-trasformazione della Ginger Fitzgerald di LicantropiaEvolution (Ginger Snaps il ben più evocativo titolo originale) e dei suoi seguiti.
Katharine Isabelle (che, diciamocelo, pare immortale, non sembra passato un giorno da quando nel 2000 aveva iniziato a rivestire i panni della lupa mannara) è un'icona horror del Cinema canadese e fedele collaboratrice delle Soska Sisters, gemelle registe e attrici appassionate di Cinema grindhouse e body horror.
Con American Mary l'orrore connesso al corpo trova l'espressione più viscerale nella presenza di involucri umani aperti e sanguinanti su tavolini operatori e nella violazione dell'intimità personale dello stupro, mentre la body modification presenta la faccia luminosa (pronta tuttavia a mostrare il suo lato più oscuro) dell'intrusione fisica esterna.
Ma il corpo attraverso cui analizziamo, invadiamo (o veniamo invasi), vediamo, è quello di Mary, che fin da subito è mostrato come consapevole della sua sensualità e assolutamente privo di qualsiasi tipo di inibizione sociale.
Senza pensarci troppo, Mary decide di guadagnare i soldi di cui ha bisogno come spogliarellista (tralasciando che poi, per una serie di coincidenze, non lo fa), la vediamo operare in vestito cortissimo e giarrettiera, striminzito camice di pelle con sotto solo la biancheria intima, in perfetto - e meravigliosamente fiero - equilibrio sui tacchi, una chirurga-dominatrice con un controllo di sé, del proprio corpo e del proprio destino cui aspirare.
E questo prima e dopo lo stupro.
Una naturalezza e un amore per il proprio corpo e per la propria sensualità che è un balsamo per gli occhi: Mary allontana la sensazione (che spesso proviamo anche nei nostri stessi confronti) che il suo agghindarsi, il suo muoversi in un determinato modo nello spazio, sia calcolato al millimetro per ottenere una determinata reazione dell'Altro.
Il suo è invece un processo che trova senso solo in se stessa, nella sua libera espressione che non lascia spazio ad ammiccamenti e condizionamenti.
Si pensi alla fantasia di Billy (Antonio Cupo), il proprietario del locale dove Mary si reca a inizio film per lavorare come spogliarellista, in cui Mary è sexy per lui: nella realtà, Mary è sexy e basta.
O si pensi alla scena in cui, scocciata, dominante, sfila per Billy: lui è seduto, in basso e passivo rispetto a lei, che rimane sempre in piedi guardandolo dall'alto.
Ricorre, continuamente, l'intersecarsi del tema del corpo e della scienza medica: la consapevolezza fisica della ragazza mai sarà nel caso di Mary svalutante rispetto alla sua professionalità.
Anzi, questo possibilissimo connubio sarà il punto di partenza per la riappropriazione della propria vita dopo lo stupro.
In generale il personaggio sembra proprio mettere alla berlina gli stereotipi di genere.
Non solo la figura della donna sensuale non viene divaricata da quella della donna professionista, che vuole una carriera; le "prove chirurgiche" di Mary vengono ironicamente trattate come le faccende di cucina culturalmente ricondotte alle donne, con i tacchini-cavia di Mary che, però, distano anni luce dagli intingoli che la soffocante aspettativa dei ruoli di genere vuole amorevolmente preparati dalla donna (si gioca con l'iconografia di camice/grembiule, guanti, bancone della cucina, cibo).
Tra gli uomini di questo racconto fanno la loro comparsa Billy, il dissoluto proprietario del locale, attirato e quasi intimorito dall'autorevolezza di Mary, dalla sua forza, che fa di tutto per entrare nelle sue grazie, e i turpi chirurghi, con il loro rappresentante massimo nella figura dell'"integerrimo" Dr. Grant.
Lo vediamo esercitare un'aggressività gratuita fino all'imbarazzo, fin dalla sua prima apparizione: la sua è una violenza che - come spesso accade - nasce come verbale per poi farsi fisica.
Mary viene poco velatamente adescata dai medici, che la attirano in una trappola fatta di droga, luci soffuse e sopruso.
Lo stupro avviene, dopo uno zoom graduale che ci conduce a Mary, attraverso primi piani alternati di lei e dell'uomo, in un atto che ha come protagonisti dei volti, che godono del loro potere e che soffocano schiacciati da esso.
Il rape and revenge parte da qui, da un incipit dell'abuso che sa di tradizione, per poi però prendere la sua personalissima strada che va oltre, va in altre direzioni, va un po' dove gli pare, per fare un discorso molto intimo che non vuole girare esclusivamente attorno allo stupro.
Non c'è preparazione, meditazione, titubanza: Mary si mobilita per poter mettere in atto la sua vendetta, che darà spazio a un suo riscatto come soggetto, come donna e come professionista.
La sua vendetta mira a rendere oggetto chi l'ha resa oggetto: nello specifico, un oggetto che si rivela utile a lei in quanto chirurga, una sorta di dummy da crash test da usare per i suoi fini.
Sarà attraverso questo suo pupazzo che il tuffo nella body modification diverrà cosa amata e irreversibile.
La crescita del personaggio viene "deviata" dallo stupro, nel senso che mai Mary avrebbe proseguito su quella strada non fosse stato per la violenza subita: ma Mary prende una posizione attiva nei confronti di ciò che le accade, ritorcendo la situazione in modo da guadagnarne il controllo.
Muovendosi - anche lei - nelle vesti di una moderna Nami Matsushima, in lunghi cappotti neri, come un'ombra che grida riscatto.
Mary diventa una paladina per la libera espressione di sé, operando senza giudizio alcuno, ma risultando in fin dei conti impotente di fronte all'incapacità maschile di rispondere con qualcosa che non sia violenza alla ribellione femminile al suo statuto di oggetto del desiderio.
Anche solo per l'interpretazione di Katharine Isabelle, che riesce a convogliare alla perfezione il senso narrativo e iconografico del suo personaggio con una performance distaccata ma vibrante, American Mary è un film da recuperare: un racconto in cui, con la sua chiusa che lascia imbestialiti, il rape and revenge si fa quasi spiritualmente corale, aprendo uno spiraglio su un caleidoscopio di abusi in cui lo stupro è "solo" la molla che fa scattare un meccanismo già saturo.
"You break the law, there's going to be consequences"
"I guess it depends on which law you break"
Noelle (Francesca Eastwood) è una studentessa dell'Accademia di Belle Arti (M.F.A, Master of Fine Arts), una pittrice la cui arte sembra non riuscire, non ancora, a fiorire ed esprimersi al pieno delle sue potenzialità, sempre frenata, costretta, entro i rassicuranti confini di ciò che le è facile, familiare.
Una giovane donna solitaria, che vive la sua vita come al di fuor idel suo stesso corpo, Noelle sembra schivare il contatto con i suoi compagni - l'unico rapporto più stretto che sembra avere è quello con Skye (Leah McKendrick, sceneggiatrice del film).
Fino a quando, spinta proprio da lei, decide di accettare l'invito a una festa a casa di Luke (Peter Vack), un ragazzo del suo corso per cui prova interesse: la serata si tramuta presto in una trappola, e il ragazzo, sicuro di sé e gentile, si rivela uno stupratore freddo e privo di scrupoli.
Non riuscendo ad accettare di essere stata ferita proprio nel momento in cui ha deciso di aprirsi, Noelle, prima istintivamente e poi programmaticamente, affronta il trauma facendosi (e non solo a lei) giustizia da sola.
Avendo al centro della narrazione un'artista, non stupisce che l'aspetto della rappresentazione venga tematizzato a partire dalle premesse del racconto stesso, aprendo e instradando M.F.A. su un percorso di acquisizione dello sguardo da parte della sua protagonista (sulla propria storia) e da parte della sua realizzatrice (sul rape and revenge).
La macchia rossa di pittura su una tela bianca che inaugura il film, lo fa inscrivendovi una marea di rimandi che settano la prospettiva, quella della violenza vista da un'ottica femminile.
Come se non bastasse, il particolare dell'occhio di Noelle (il magnetico, enorme occhio di Francesca Eastwood) ci urla che ciò che stiamo per testimoniare è visto, inquadrato, sentito dalla donna che ne è protagonista.
Questa presa di posizione verrà ripetuta più avanti nel film, con una modalità ancora più "tagliente", subito dopo l'inizio, ancora inconsapevole, della vendetta: Noelle prende un (auto)ritratto incorniciato, realizzato con linee molto classiche, di una donna bendata, e lo sbatte con violenza sul lavandino mandandone in frantumi il vetro, pagando un tributo di sangue.
Il tempo della cecità è finito: ora sarà lei a guardare e ad agire (che per Laura Mulvey sono un po' la stessa cosa).
La prospettiva scelta - che non solo è femminile, ma è anche artistica - permette altresì una sorta di metafora di come, forse, andrebbero inquadrati i corpi (femminili) nel Cinema.
Il corpo di una donna grassa viene infatti ripreso da molto vicino, smarcandosi tuttavia dal voyeurismo: è una modella e l'occhio che guarda è quello dell'artista (flashback alle inquadrature iniziali di Animali notturni).
Il fatto che a fare una goliardica allusione sessuale sia un uomo è significativo: Noelle sorride (un misto di compiacenza e voglia di complicità), ma ciò interrompe l'intimo rapporto visivo con il soggetto dell'arte, che viene sostituito da un più malizioso e interessato gioco di sguardi con Luke.
Lui la guarda e noi rimaniamo con l'illusione che lei resti invece concentrata sulla modella.
In realtà il particolare del collo di Luke, quasi uno scorcio artistico, tradisce lo sguardo di Noelle: è una "sua" inquadratura, una soggettiva del desiderio che non rispetta i rapporti di distanza, che ci rivela che lei sta guardando proprio lui, ammirandolo come se fosse materia "da dipinto", come se l'arte fosse l'unico modo in cui Noelle è in grado di approcciarsi all'altro.
Ma, al contempo, quello con l'arte è un rapporto faticoso, che mai va oltre ciò che la fa sentire sicura, tutelata: così come non si espone con gli altri, non espone se stessa mettendosi totalmente a nudo attraverso la sua arte che risulta dunque, in qualche modo, bloccata.
L'incoraggiamento che il suo professore le fa appare come un foreshadowing di ciò che accadrà quando Noelle sembrerà seguirne il suggerimento, ma non solo per quanto concerne la sua arte ("Let's jump in the deep end this year").
Il personaggio di Luke è sgradevole fin dal principio e si crea una spaccatura tra come lo percepiamo noi spettatori (con tutte le carte in regola per rivelarsi, come poi avviene, un violento) e come lo percepisce Noelle, quasi cieca davanti all'ammaliante aura che la sicurezza di sé e un egocentrismo inverosimile per quanto intenso gli hanno creato attorno.
Violento nell'atteggiamento, violento nel linguaggio: si prende gioco della timidezza della ragazza, continua a sovrastarla.
Lo fa anche alla festa, a partire dalla posizione diegetica che si trova a occupare (in piedi, in alto) rispetto a Noelle (seduta, in basso).
In camera da letto cadono tutte le - pur molto esili - barriere e, nemmeno più facendo lo sforzo di ascoltarla, Luke la attacca con un'aggressività predatoria che sembra volerla schiacciare.
Lo stupro avviene sulla mezza figura prona di Noelle che viene sbattuta, manipolata, bloccata, introdotta da una semi-soggettiva brevissima, dall'alto, di Luke.
I suoni diventano ovattati e poi scompaiono del tutto: quello che per lui è quasi un gioco erotico, un porno hardcore diventato realtà, è per lei (o per meglio dire: è, tout court) una violenza atroce, che ci viene restituita in tutto il suo dolorosissimo, improvviso ma prevedibile scoppio, nella sua natura di puro atto di potere.
L'ambientazione nel campus universitario, il contesto dello stupro (una festa), la denuncia a un intero sistema che permette che la violenza abbia luogo impunita e che, in qualche distorto modo, la tutela (non riconoscendo la filiazione diretta dalla società della sua causa) richiamano da vicino Una donna promettente, quasi come se Noelle fosse un'altra Nina, che è però una sopravvissuta, protagonista della sua storia (e di Nine e Noelle ce ne sono tante, come scopriremo).
Il tema della responsabilità degli uomini - piuttosto che lo stare in guardia delle donne - entra nella narrazione attraverso un'arena di discussione prettamente femminile, il club della scuola, in cui emerge comunque il bisogno di essere pronte, di difendersi, nella - a quanto pare - vana attesa di una responsabilizzazione maschile che abbia origine da un'educazione (si veda a questo proposito il dibattito che nel mese di dicembre 2021 ha scatenato la questione delle "carrozze rosa").
Il rimando del film di Emerald Fennell a questo di Natalia Leite è esplicito sotto molti aspetti: dalla parrucca colorata che Noelle indossa per vendicarsi alla punizione per procura che mette in atto.
Ma il citazionismo diventa palese nell'utilizzo di una medesima canzone, Nothing's Gonna Hurt You Baby, qui nella versione originale dei Cigarettes After Sex, là nella cover (più melensa e sognante) di Donna Missal.
In entrambi i casi viene inserita in momenti di speranza e ottimismo, qui palesemente falsi, prima del crollo finale, là falsi solo con il senno di poi, nel primo incontro con Ryan.
Il tema del come affrontare il post-violenza viene trattato passando in rassegna tre scenari (e mezzo) possibili che, come il genere richiede, portano poi alla scelta di calcare la via della violenza.
Il non dire nulla, il farsi scivolare addosso una singola "shitty night" impedendole di rovinare il resto della propria vita (come le consiglia - scopriremo a ragion veduta - Skye), il rivolgersi alle autorità del campus (con la loro inconscia, quasi inconsapevole connivenza con un sistema in cui sono impantanate) e l'iniziativa personale, di cui ironicamente si discute a lezione in riferimento al Giudizio universale di Hyeronimus Bosch.
Tuttavia, prima di passare alla violenza e dopo aver vagliato le altre possibilità, Noelle arriva alla conclusione che l'unica forma di giustizia che può ottenere è quella del riconoscimento della colpa da parte di chi ha perpetrato l'atto.
Un'evenienza molto rara, nel rape and revenge, che la protagonista inizi la sua vendetta casualmente, senza preparazione, senza intenzionalità: questo è per Noelle il punto di partenza di una liberazione interiore che si riflette, come accennato in precedenza, nella sua arte, che ne trae un (mai inquadrato come colpevole) giovamento.
Il lasciarsi andare alla visceralità più violenta delle emozioni dona al suo tocco una consapevolezza più oscura e originale, svelandola attraverso la pittura.
Ciò che inizia senza controllo si struttura in vendetta vera e propria, in vigilantismo per procura, nel tentativo di ottenere la giustizia per tutte le altre vittime.
Incurante della loro volontà e delle conseguenze delle sue accorate azioni, Noelle si muove letale nel campus, forte di una sensualità performata per gli occhi maschili, a cui è sufficiente uno sguardo per pensare di aver ottenuto il consenso.
Un thriller drammatico, come il film di Emerald Fennell e forse di più, M.F.A. si aggrappa totalmente alla forza, allo spaesamento, alla fallibilità della sua straordinaria protagonista, restituendoci una visione totalmente femminile su quelle questioni tanto dibattute - narrativamente o criticamente - nel rape and revenge: l'eticità della vendetta, il ruolo delle autorità, l'elaborazione del trauma.
Il prologo di Bedevilled potrebbe ingannare sul focus della narrazione, ma funge in retrospettiva da necessario inquadramento psicologico di quella che, a tutti gli effetti, risulta essere la protagonista del film, Hae-won (Ji Sung-won).
Giovane donna seriosa, chiusa, sola, Hae-won si trova al centro di due spiacevoli episodi che incrinano la tesa monotonia della sua quotidianità: assiste a un'aggressione ai danni di una ragazza (rifiutandosi alla centrale di polizia di confermare l'identità dei molestatori) e viene "gentilmente invitata" a prendersi una vacanza dal lavoro dopo che, per un fraintendimento scatenato da competitività e nervosismo, dà uno schiaffo a una collega.
Hae-won decide allora di passare qualche giorno sull'isola della sua infanzia, una minuscola comunità rurale di - ormai - solo nove persone, tutte imparentate tra loro.
Ad accoglierla a braccia aperte, fuori di sé dalla gioia, è l'amica di un tempo, Bok-nam (Seo Young-hee): emerge ora ed emergerà in seguito, nello squilibrio affettivo tra le due parti, un diverso investimento emotivo, che ha segnato il passato trascinandosi nel presente e proiettandosi rovinosamente fino alla fine, quando ormai ogni rimpianto è rigato da amare lacrime di coccodrillo.
L'arrivo sull'isola di Hae-won scuote Bok-nam (e di conseguenza i suoi precari equilibri con gli altri abitanti dell'isola) in un modo tale che la violenza ormai accettata che permea ogni superficie della vita isolana verrà sostituita da un'altra, nuova violenza, in una parabola in cui il sommarsi di orrori condurrà alla desolata disperazione di chi resta.
Il tema dell'allontanamento dalla città (dalla civiltà) per un'immersione escapistica nella "campagna", nel dominio della natura, via dall'urbanizzazione - qui nella forma della sperduta isola da dove Seul sembra un miraggio - viene messo al servizio del rape and revenge, come da tradizione del genere.
Ma è il prologo stesso ad anticiparci che ciò che avverrà/è avvenuto sull'isola avviene anche sulle trafficate strade cittadine, e a donne altrettanto inermi.
Gli uomini dell'isola vengono raffigurati come dei mostri, grezzi, rozzi e spaventosamente privi di principi morali; le donne come gentili schiave imbevute della medesima obbedienza alla natura (e all'uomo) e a poco altro.
Qui non è colei che dalla città giunge alla "campagna" a vivere l'arco della violenza e della vendetta, bensì colei che nell'incontaminato paradiso naturale vi è sepolta; colei che, a causa di una serie di dinamiche scatenate proprio dall'arrivo della civiltà per il tramite della donna inurbata, passa attraverso il risveglio della speranza e la conseguente impossibilità di ulteriore sopportazione, che la conducono al tentativo di violare le invisibili mura che da sempre si innalzano impedendole di fuggire dal gioco millenario (tanto metaforico quanto letterale) della società patriarcale, che sull'isola grava con il peso di un'inamovibile campana di vetro che preserva una bieca arretratezza.
L'ignavia, in un placido circolo che sembra impossibile spezzare, immobilizza anche questa volta Hae-won, in una sorta di abulia che le impedisce di prendere una posizione, riducendola infine all'istinto di sopravvivenza.
Ed è questo forse il tratto di Hae-won che più la rende un personaggio sgradevole, con il quale nonostante tutto siamo però chiamati a identificarci; fino a quando, significativamente, nel momento del definitivo allentamento delle maglie della sopportazione di Bok-nam, Hae-won sparisce momentaneamente dalla scena, spostando l'asse della nostra percezione e della nostra partecipazione soggettivata.
Noi andiamo sull'isola e testimoniamo la terribile storia di abuso per il tramite di Hae-won, ma è bene ricordare ancora una volta che il film non inizia lì ma ben prima, proprio con l'individualismo della giovane donna.
Viene programmaticamente stabilita da questo incipit la lente attraverso cui leggere l'intero racconto, il particolare focus sulla violenza su cui Bedevilled decide di impostare il suo discorso.
La prospettiva che viene adottata è quella della donna indipendente che torna alle origini sepolte della sua infanzia, con una fuga in quello che ai suoi occhi appare come un paradiso lontano (più nel tempo e nello spirito che nello spazio) dove ha lasciato l'innocenza istintuale e, con essa - come fosse un oggetto dimenticato, un ricordo sbadito - una sua controparte femminile lì incatenata, Bok-nam, abbandonandola a lottare con i traumi da cui lei ha avuto più facile via di fuga e negazione.
Quell'innocenza, persa ormai anche da Bok-nam, viene da questa ritrovata solo nel ricongiungersi proprio con l'amica di un tempo.
La realizzazione (riemersione dalla memoria? tardiva ammissione a se stessa?) degli orrori del passato ha il sapore di amaro epilogo ormai inutile: la bianchezza della pelle, dovuta alla qualità dell'acqua, che le donne dell'isola tanto insistono contraddistingua le donne di Seul, rimane attaccata ad Hae-won come un marchio che le impedisce, fino alla fine, una redenzione.
La violenza in cui Bok-nam si destreggia proviene da tutte le parti, uomini e donne, che la umiliano con le armi migliori di cui possono fare uso: le parole taglienti e colme di disprezzo, i calci e i pugni che intorpidiscono e il sesso, coercitivo e senza consenso o adulterino ed esibito al fine di (ancora una volta) umiliare.
Sprazzi di circoscritta ribellione da parte di Bok-nam - i momenti in cui si prende gioco del marito, incosciente delle conseguenze, mettendo in discussione la sua virilità - mantengono vivo il sentore che ribolla in lei una scintilla che, grazie alla figlia, ancora non si è spenta.
La figlia Yeon-hee è un personaggio chiave, motore narrativo che dal passato continua a proiettare la sua centralità nel presente, come àncora e leva di tutto ciò che ruota attorno alla - e accade nella - vita di Bok-nam.
Paradossalmente è la prostituta del marito a comprendere meglio la donna, soprattutto rispetto ad Hae-won che la tratta con un fare paternalistico che non ha alcun punto di contatto con la realtà con cui Bok-nam è costretta a fare i conti ogni giorno, che respinge con ottusità oscena tutte le richieste di aiuto più o meno esplicite dell'amica, sconfessando ancora e ancora la promessa di evasione che quindici anni prima le aveva fatto forse a cuor leggero.
Ma lei si accontenta e, fintanto che è lì sull'isola con lei, rimane comunque una via di fuga, anche solo emozionale.
Bok-nam è molto più indulgente di noi spettatori nei confronti di Hae-won, che dà continuamente occasioni per disprezzarne l'atteggiamento algido, egoistico.
Il passato e il presente si chiamano a vicenda, con l'uno che straborda nell'altro, finanche in termini formali, con suono e immagine di tempi diversi che si incontrano come monito di una fissità disperante.
Sull'isola essere donna significa avere una funzione per l'uomo, in termini di sesso (con un ossessivo reiterarsi dell'abuso) o lavoro, al punto che la piccola Yeon-hee decide di impiastricciarsi il volto con i trucchi della prostituta per ottenere l'approvazione del padre.
Solo Hae-won si trova a un livello superiore, che la astrae dalle brutalità terrene, vagando sull'isola sempre vestita di bianco, come un fantasma divino.
In questa vicenda (e nella sua vita), Hae-won è un'astante, ben lungi dall'intervenire o dall'abbandonarsi alle emozioni, sempre sul margine, a guardare e interessarsi solo quando gli eventi incrociano la dritta traiettoria della sua esistenza privata.
La formula nuda e cruda del rape and revenge è qui meno immediatamente rinvenibile: eppure, stirata, sfilacciata, acquietata nella ripetitività dell'abuso, nella placida tolleranza e, soprattutto, nell'insensata speranza, affiora gradualmente in superficie fino a emergere con una violenza e una potenza inarrestabili.
E la vendetta si arricchisce di tutta una serie di strati che, uno sopra l'altro, hanno saturato fino allo scoppio il tesissimo corpo narrativo di Bok-nam.
Lo stupro è il basso continuo e la prima di una serie di violenze di cui la vendetta non si scorderà, andandosi a configurare come rivalsa sull'isola in (quasi) toto.
Ci si allontana da esso e da una vendetta ad esso esclusivamente correlata, per denunciare la sistematicità dei meccanismi che permettono la sopraffazione della donna.
La cultura dello stupro è qui incarnata dalla microsocietà di un'isola rurale della Corea del Sud; ma sappiamo (e abbiamo visto) che poco cambia, a livello concettuale, rispetto a ciò che accade nella grande città.
La vendetta scoppia, significativamente e ironicamente, quando tutti gli uomini (a parte il vecchio, sopravvissuto di una generazione precedente) sono lontani dall'isola.
Procede spietata, con rimandi a tropes della tradizione (come la compulsiva ripetizione di gesti e parole degli stupratori nell'atto di amministrare la punizione), con intoppi che però sappiamo/speriamo si risolveranno, con o senza l'aiuto di Hae-won (che ci regala, involontariamente, una citazione a uno degli omicidi più iconici, quello finale, di Non violentate Jennifer).
Ricordando che il centro nevralgico del film non è Bok-nam ma Hae-won, da un certo momento, l'interrogativo che il film ci pone è uno e uno soltanto: noi sappiamo come Hae-won ha agito nel prologo, come probabilmente ha agito per tutta la sua vita, e come sta agendo ora... sarà in grado di riscattarsi e guadagnarsi una redenzione?
Tra giochi di specchi e immagini icastiche, Bedevilled restituisce con potenza la sua voce, in una fusione perfetta tra pregnanza visiva e metaforica.
"But you had to put up a fight. Women always have to put up a fucking fight"
Jen (Matilda Lutz) è una giovane socialite che sogna di volare a Los Angeles con l'obiettivo tanto deciso quanto vago di "essere notata".
Un buon trampolino di lancio verso questo indeterminato successo - anche se mai ci viene esplicitamente suggerito che a dominare sia l'utilitarismo - sembra essere la sua relazione adulterina con il losco, ricchissimo e sposato Richard (Kevin Janssens).
Atterrati con un elicottero privato nella lussuosa e moderna abitazione dell'uomo in mezzo al deserto, i due si preparano a una momentanea fuga di sesso.
Ma improvvisamente (in una scena iconica, che troveremo ribaltata nel finale) irrompono sulla scena Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), giunti in anticipo per la battuta di caccia annuale con l'amico.
La presenza (e il ruolo) di Jen sono quindi presto rivelati, tra l'imbarazzo divertito della donna e gli sguardi che già si fanno lascivi degli uomini.
La libera espressione della sua sensualità e sessualità da parte di Jen porterà gli uomini (tutti e tre) ad uno stato ferino, dove aggressività e sopravvivenza andranno a porre la donna nella scomoda (e familiare) posizione di vittima.
Ma quando la vittima si rialza, come tornando dal mondo dei morti, non c'è via di scampo per chi le ha fatto un torto, non c'è modo di contenere la furia cieca che ne guida le azioni.
Se nella prima inquadratura l'azione viene situata (con l'elicottero che sorvola il deserto finendo per sorvolare anche noi che, con la macchina da presa, è come se alzassimo la testa per seguirne il movimento), nella seconda vediamo il medesimo deserto, ma distorto nei colori dalla lente degli occhiali da sole di Richard.
Con l'avanzare del deserto nel riflesso, che si combina con uno zoom all'indietro che, dal dettaglio della lente, amplia l'inquadratura all'uomo e a Jen, sfocata sullo sfondo alla sinistra del suo volto, Fargeat sembra consacrare l'importanza significante delle prime inquadrature di un film sulla lettura che del film stesso siamo chiamati a fare: qui usciamo programmaticamente dallo sguardo dell'uomo, da quel male gaze che ha dettato (e detta) il buono e il cattivo tempo di tanto Cinema, e tanto di frequente.
Soprattutto nel caso specifico di tanto rape and revenge, genere che la regista decide di capovolgere a partire, banalmente, dall'accento posto sul secondo termine del binomio, la revenge del titolo.
Con - apparentemente - poca umiltà, Fargeat innalza il suo Revenge a vendetta del female gaze sugli anni di exploitation, di agency rubata e di prospettive sbagliate.
Ma, con un risultato del genere, forse della modestia possiamo anche fare a meno.
Questa vendetta non può che avvenire per mano (e attraverso lo sguardo) di un'erede onomastica di quella Jennifer Hills che impiccava e castrava in Non violentate Jennifer.
Jen - oltre a essere connotata come "straniera": lei parla inglese, mentre gli uomini parlano tra loro il francese - viene presentata attraverso una sessualizzazione infantile, una sorta di travestimento a beneficio degli occhi che la guardano.
È evidente che questi occhi siano quelli dei personaggi maschili e non quelli della macchina da presa della regista, che si limita a introdurre la donna vista dagli antagonisti del film.
La sua figura viene frammentata in dettagli: la gonna rosa plissettata (che rimanda alle uniformi scolastiche), la maglia simil-leopardata, il borsone sportivo, gli occhialoni bianchi da diva, gli orecchini rosa a forma di stella, lo smalto dello stesso colore sulle mani, i lunghi capelli biondissimi e, ciliegina sulla torta, il chupa chups in bocca (ovviamente alla fragola).
Lascio a voi scoprire come ritroveremo visivamente Jen una volta che si sarà presa in mano l'agency che le spetta, il rovesciamento che queste caratterizzazioni subiranno.
Questo tipo di inquadratura sessualizzata torna nella scena dell'arrivo di Stan e Dimitri, in questo caso giustificata diegeticamente dalla presenza di occhi che, a sua insaputa, la stanno guardando: non sono soggettive, ma lo sguardo c'è e la sua aggressività diventa inquietante, minacciosa quando nonostante lo spavento e l'imbarazzo rimane fisso, insistente.
Il modo in cui Jen viene inquadrata dallo sguardo dei personaggi assume i tratti del saggio sullo sguardo maschile nel momento in cui Dimitri le punta contro - e la guarda attraverso - un binocolo: il mascherino (che fa tanto vintage) isola particolari, occhi, bocca.
Una parata della mascolinità (tossica, manco a dirlo) scandita dal televisore sempre acceso, significativamente su incontri di wrestling e gare automobilistiche.
Guizzi di soggettività in controllo, tuttavia, emergono fin dall'inizio del film.
La prima scena di sesso tra Richard e Jen è segnata dall'iniziativa di quest'ultima, che interrompe l'azione dell'uomo per dettare le modalità sessuali che più le aggradano: l'inquadratura del particolare della mano di Jen che stringe la natica di Richard racchiude come in un flash il punto di vista di chi filma.
Perché si arriva allo stupro?
Perché il padrone dell'oggetto-Jen non è in casa, e la bambolina ha ballato in modo sensuale e provocante con Stan, la sera prima, praticamente she begged for it, ha dato il suo consenso, chiaro e tondo.
E ora l'uomo si sente in diritto di fare di lei ciò che vuole.
Tutto il pre-violenza diventa una questione di sguardi: quello di Jen, a disagio, sfuggente e accondiscendente al tempo stesso (come autodifesa, "se faccio la brava andrà tutto bene"), e quello di Stan, ancora, fisso e inesorabile, che diventa una letterale invasione della sfera del privato in una semi-soggettiva dell'uomo che la spia mentre si sta vestendo: l'intrusione visiva (e fisica, nello spazio) fa da preludio a quella sessuale.
Quando il rifiuto diventa palese, inequivocabile, è lì che si passa con agilità agli insulti, alla derisione, alla violenza.
Fun (mica tanto) fact.
Pochi istanti prima dello stupro, Jen dice: "Richard will be back anytime soon".
In italiano la frase viene tradotta in questo modo: "Richard potrebbe tornare da un momento all'altro".
Da debole tentativo di minaccia per dissuadere Stan dalla violenza e salvarsi, le parole di Jen diventano in italiano manifestazione di una sua supposta preoccupazione che Richard li veda insieme, soluzione linguistica che si tira indietro davanti alla delegittimazione dello stupro.
Che Jen non mostri acquiescenza riguardo il rapporto sessuale è comunque chiaro, ma ho l'amara sensazione che si sia persa un'occasione per rafforzare, attraverso il linguaggio, i confini del consenso.
Lo stupro viene mostrato attraverso forti scelte registiche di messa in scena, che ne esaltano la brutalità emotiva, più che fisica.
Fargeat decide infatti di abbandonare subito Jen e Stan per seguire Dimitri, che dopo un rivoltante particolare della sua bocca mentre mastica imperterrito orsetti di marshmallow ricoperti di cioccolato, esce dalla stanza andandosi a costituire come testimone/complice silente dell'atto.
La sua macchina da presa, con panoramiche e carrelli a seguire e precedere, lo pedina nei movimenti che lo portano alla piscina esterna, dove meglio riesce a ignorare ciò che sta avvenendo in casa.
Il che è assurdo, perché lo stupro avviene contro il vetro dell'enorme porta-finestra che affaccia proprio sulla piscina.
Di Stan vediamo poco o nulla, dato che Fargeat si concentra sul particolare del volto e soprattutto della mano di Jen, che batte sul vetro ad ogni colpo, andando a creare la terribile inquadratura dall'esterno della casa che suggella il momento di violenza: la mano di Jen che, da dentro, sulla destra, batte sul vetro e il riflesso di Dimitri che si tuffa in piscina, sulla sinistra.
Richard, una volta tornato e scoperto il tutto, guess what?, pensa solo al proprio interesse, alla salvaguardia della sua facciata.
La sua ipocrisia si intuiva già dalle chiamate con la moglie: la sua vita familiare è una piccola palla di vetro con la neve, fatta di finta perfezione a cui, per salvarla dalla distruzione, Richard è disposto a tributare letteralmente un sacrificio umano.
(Noi, ingenuamente, ascoltando il lamento di un bambino come sottofondo di queste telefonate, quasi ci rassicuriamo: i "cattivi" sono Stan e Dimitri, vero? Il padre di famiglia avrà più buon senso degli altri, giusto?).
Il punto di non ritorno viene raggiunto quando anche Richard oltrepassa il limite della violenza fisica: lo stupro diventa una possibile onta sul suo nome, non un atto grave in sé ai danni di un altro essere umano, e quindi, di questo essere umano, risulta moralmente facile liberarsi.
Ma visivamente risorgendo come una fenice dalle sue ceneri, Jen torna, e noi cominciamo a vedere dai suoi occhi, attraverso le sue soggettive.
La ricerca di Jen va a sostituire la battuta di caccia che gli amici non sono riusciti a fare: la geografia chiusa della casa, luogo della violenza sessuale - in cui torneremo solo nel grandguignolesco finale - lascia spazio alle ampie distese desertiche, e Revenge diventa un inseguimento tra gatto e topo in cui i ruoli sembrano continuamente invertirsi (con le analogie predatorie che pendono però dalla parte di Jen), dando al film un forte connotato action, dei cui tropi (tra cui quello odioso del cattivo che fa il discorsetto retorico prima di uccidere, poi non riuscendoci) Fargeat fa talvolta uso appositamente per salvare la sua protagonista.
Che combinazione assurda, eh, action e femminismo!
Che la scelta di Fargeat sia ricaduta proprio su questo stile, su questo genere, è molto interessante: come vediamo dagli altri film citati in questa Top 8, le registe scelgono molto spesso di affrontare il rape and revenge allontanandosi quanto più possibile dai generi popolari, quasi a voler scrollare il più possibile di dosso alla formula quello strato di exploitation respingente e ormai un po' anacronistico che ne ha segnato i fasti.
Fargeat decide invece di riappropriarsi di un genere tradizionalmente appannaggio degli uomini, forse riuscendo in questo modo a rafforzare ulteriormente la sua presa di posizione.
Perché in questo scontro al cardiopalma ciò che continua a emergere è l'avvelenata mascolinità che, in fin dei conti, segnerà le sorti dei tre carnefici, una competitività performativa che va a creare un'inutile gerarchia fallica; in una continua lotta per dimostrare chissà che cosa, i tre si divideranno, andranno l'uno contro l'altro, non si ascolteranno.
Per assurdo è proprio Stan (l'unico che ha effettivamente stuprato Jen) quello che viene mostrato come meno virile - e per questo deriso, soprattutto da Richard. Emerge quindi, dalla testosteronica gara tra wannabe maschi alfa, uno strano messaggio positivo: lo stupro non rende più virili.
Plasmandosi autonomamente, Jen rinasce nuovamente dal fuoco, diventando una action heroine: la sua uscita dalla grotta, con musica incalzante e ripresa panoramica, sembra quasi l'introduzione di un personaggio ex novo.
Personaggio che, ormai, è anche in parte diventato filtro attraverso cui leggere la figura divistica di genere di Matilda Lutz stessa: il suo ruolo in A Classic Horror Story(Roberto De Feo e Paolo Strippoli, 2021) - e i suoi risvolti narrativi - non possono non far pensare a chi ha già alle spalle la visione di Revenge, "ma certo, ovvio che doveva andare così!".
Ma al contempo Jen non è fisicata, non è forte: fallisce, fatica (banalmente, sentiamo il peso dell'ingombrante arma tra le sue braccia), e così la nostra identificazione va ancora più a fondo.
D'impatto - e reminiscente del trope della final girl - è il momento cinematografico in cui Jen smette di nascondersi e scappare per affrontare di petto, e allo scoperto, il maschio.
La sofferta catarsi c'è, anche se in Revenge la vendetta per lo stupro si fonde con l'istinto di sopravvivenza: gli uomini l'hanno violentata, ma gli uomini l'hanno anche - praticamente - uccisa.
E ora vogliono finire il lavoro.
Questo amalgama è un qualcosa di tipico di molti film rape and revenge ma, come vedremo, molti altri si discostano andando a rendere la vendetta un affare esclusivamente legato alla violenza sessuale: in questi casi, paradossalmente, diventa più difficile a livello cinematografico - e per questo la buona riuscita tanto più narrativamente e formalmente brillante - "giustificare" agli occhi dello spettatore l'enormità della reazione di vendetta.
Disponibile sul canale Midnight Factory di Prime Video e Mediaset Infinity e in Home video
Posizione 2
The Nightingale
di Jennifer Kent, 2018
"I'm not your whore. I'm not your nightingale, your little bird, your dove. I'm not your anything. I belong to me and no one else!"
Van Diemen's Land (Tasmania), 1825.
Clare (Aisling Franciosi, in un'interpretazione da brividi) è una giovane prigioniera irlandese costretta al duro lavoro in un distaccamento coloniale inglese capitanato dal tenente Hawkins (Sam Claflin), che ha per lei "un occhio di riguardo": le riserva un "trattamento di favore" (perdonate le continue virgolette, eufemismi a tutto andare) e la fa cantare canzoni popolari irlandesi nei momenti di ritrovo dei soldati.
Clare, con il marito Aidan e la figlia appena nata, non aspetta altro che la lettera di raccomandazione del tenente, che le darà, di nuovo, la tanto agognata libertà.
L'arrivo alla colonia di un ufficiale venuto ad appurare che Hawkins sia meritevole di promozione getta le premesse per il disastro.
Un incidente dettato dall'insofferenza ai continui, ingiustificati, rimandi della consegna di tale lettera porta al peggiore degli scenari di violenza immaginabili: Clare viene stuprata mentre il marito e la figlia vengono brutalmente uccisi.
Come spesso accade nella tradizione rape and revenge, Clare viene lasciata per morta; ma lei è viva e, carica di una rabbia stordente, si mette subito in cammino per raggiungere e uccidere gli uomini, che sono in viaggio, a piedi, diretti a Launceston attraverso il bush, per reclamare la desiderata salita di grado di Hawkins.
Costretta per necessità ad avvalersi della guida (e quindi della malvoluta compagnia) di un aborigeno, "Billy" Mangana (Baykali Ganambarr), Clare compie un viaggio che la porta a sviluppare una comprensione e un rispetto (ricambiati) nei confronti di Billy, dovuti al riconoscimento reciproco delle diverse sfumature di una pur comune condizione di Altro agli occhi del dominatore.
La formula viene trasportata in un secolo lontano, in luoghi temporali e spaziali in cui non siamo abituati a veder farsi strada l'ira delle vittime e la simbolica castrazione dei carnefici, in una narrazione inquadrata in 1.37:1 (Academy Ratio) in cui il rape and revenge, più che costituirne il cuore pulsante, funge da origine e sfondo, muovendo i personaggi in un percorso in cui, dalla vendetta personale (di Clare) e simbolica (di Billy) nasce, come un risvolto insperato, una presa di coscienza positiva, un sentire nuovo e buono.
Se nel rape and revenge di ambientazione contemporanea il mondo che costringe le donne al ruolo di vittime sessuali è quello di una cultura che - con la potenza assicuratale dall'apparente invisibilità e naturalezza delle accettate norme annichilenti - si fa portatrice di una tacita legittimazione dello stupro, qui ci troviamo ad un livello differente, in cui l'oppressione non è celata ma inscritta e sancita nella quotidianità dell'abuso, in cui la violenza di genere è prassi.
Lo status di Clare è perfettamente rappresentato dal suo muoversi iniziale sul sentiero affiancato dalla fitta vegetazione.
Oltre alla sua ancora ignota condizione di prigioniera, che può qui sfuggire per essere momentaneamente soppiantata da una sorta di mito del buon selvaggio, a risultare ambivalente è anche da chi stia proteggendo se stessa e la figlia, temendo chi stia sul chi va là.
La nenia gaelica con cui culla la sua bambina cozza con la ferma stretta con cui regge un coltello nel pugno.
La minaccia percepita dal personaggio, quella degli aborigeni, verrà disillusa dalla narrazione, il cui "cattivo" è invece inequivocabilmente identificato con l'uomo bianco invasore, l'inglese.
Tornerà, negli scambi tra Clare e Billy, questo tema dell'identità geografica: la rabbiosa distanza che erige un blocco apparentemente inscalfibile tra i due è proprio dovuta all'odio razziale, in entrambi i casi figlio del pregiudizio.
Se Clare teme Billy in quanto aborigeno (intuiamo, senza che mai si siano verificati atti violenti da parte della sua gente nei confronti della ragazza) è perché gli inglesi li hanno disegnati come bestie; se Billy disprezza Clare è perché per lui bianco equivale a inglese.
La scoperta che lei è irlandese lo lascia per un attimo senza parole, anche se il suo essere comunque bianca costituisce un ostacolo che pare restare insormontabile.
Ma è questo il momento in cui comincia a farsi strada una consapevolezza che matura nel corso del film: sono entrambi oppressi, lui straniero nella sua terra (piangerà della presa di coscienza di questo paradosso, di fronte alla gentilezza di alcuni bianchi), lei esiliata.
La lingua e - soprattutto - il canto diventano punto di contatto, manifestazione primaria della loro identità, strumenti di espressione e liberazione (temporanea, mentale) dal giogo del dominatore.
Billy è Mangana, blackbird, canta senza barriere, senza trattenersi, anche di fronte agli inglesi; per Clare, invece, il canto, oltre ad essere estrinsecazione più viscerale del suo sentire, oltre a divenire arma di riappropriazione del suo essere soggetto, viene anche messo al servizio dei desideri del padrone/stupratore, diventando un mistificato mezzo di espressione del loro legame.
Clare è l'usignolo di Hawkins, il suo nightingale, una sorta di fiore all'occhiello canterino, carillon vivente che crolla da quella che spesso sembra un'adorazione platonica ad una funzionalità carnale (la caduta dell'impressione, sbagliata, che lui sia fiero e genuinamente incantato da lei è prevedibile ma non per questo meno dolorosa).
Ma è da notare che il suo canto per gli inglesi sia, a sua volta, in inglese, mentre il suo canto personale, specchio della sua intimità, sia in gaelico.
Gli stupri, mostrati ed evocati, in The Nightingale sono molti, troppi e troppo brutali, a giudicare da alcuni episodi della ricezione del film nel contesto delle prime proiezioni.
Unica donna nella selezione ufficiale dell'edizione del 2018 della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Jennifer Kent (regista e sceneggiatrice di uno dei film horror più rilevanti degli anni '10 del 2000, Babadook) è stata apostrofata con slur sessisti da un 'giovane regista italiano' (urrà!), ricordandoci amaramente la sempreverde presenza (oggi, come nella Tasmania del 1800) di ciò che il film stesso denuncia.
Ovvio che il film non sia per tutti, come non lo è d'altronde il rape and revenge (quello bello e quello brutto, quello di exploitation e quello artistico): affrontando questo tipo di violenza si fa un patto con se stessi in merito a ciò che si è disposti a guardare, con l'onestà intellettuale e (si auspica) quel minimo di capacità critica per comprenderne il senso di modalità, finalità e resa.
Il primo stupro di Clare che vediamo non è lo stupro che dà il via diretto alla vendetta.
Il primo vero stupro di Clare nemmeno ci viene mostrato, in quanto avviene molto prima che inizi il racconto del film, e niente ci impedisce di immaginare che nemmeno quello sia il primo abuso subito dalla ragazza.
La vendetta si dipana nel momento in cui allo stupro si aggiunge l'omicidio, e l'uno e l'altro diventano modo per ferire non tanto chi subisce l'atto quanto chi quell'atto lo testimonia, impotente.
La modalità di ripresa della violenza sessuale in The Nightingale è principalmente una questione di volti e di sguardi (in quante altre posizioni di questa Top 8 è emersa questa scelta?): questo negli stupri di Clare così come nello stupro di Lowanna, la donna aborigena.
Nello stupro che avvia la vendetta queste dinamiche emergono con chiarezza: l'insistente sguardo di Hawkins verso Aidan, il marito di Clare, durante la violenza, ne emblematizza la natura di atto di potere, sia sulla vittima diretta che sulla vittima vicaria, mentre durante la seconda violenza, quella di Ruse, lo sguardo di Clare è totalmente aggrappato a sua figlia, in pericolo, spostando spazialmente il focus "a lato" dello stupro, luogo che vediamo attraverso la soggettiva parzialmente ostacolata di Clare.
Parafrasando ciò che Clare dirà in seguito, la donna stuprata è morta con il marito e la figlia: il silenzio di tomba che segue l'uccisione della bambina - con lo stupro che, grottescamente, procede - non sa di nient'altro che di morte.
La via della giustizia viene vanamente tentata anche qui; ma se nel rape and revenge di ambientazione contemporanea una speranza, per quanto flebile, di un inaspettato risvolto di trama, di un orecchio umano, sensibile all'ingiustizia e ai diritti personali, esiste, qui il rivolgersi di Clare al magistrato prende la forma di una quasi ironica spunta sugli step della formula, tanto inutile fin dal principio quanto, per assurdo, perfettamente corroborata da prove che "parlano" da sole, i cadaveri.
Clare si trova totalmente sola, in un vuoto che non esita nemmeno per un istante a lasciar riempire dalla rabbia sorda che diventa motore della vendetta.
Vendetta che, come nella maggior parte dei casi, non potrà restituirle ciò che ha perso.
Noi continuiamo a vedere Clare tremare, vibrare, in ogni azione che compie: è decisa, forte, determinata, ma ciò che mente e corpo hanno dovuto sopportare è talmente al di là di ogni immaginazione che è come se fosse sempre sull'orlo di un tracollo.
Straziante il momento in cui la vediamo versare le prime lacrime, vedendo il wallaby morto, cacciato da Billy per il loro sostentamento: immersa fino al collo in una catena di violenza inferta e subita, da cui non c'è scampo, che travolge qualunque forma vivente trovi sul suo cammino.
Gli inglesi (fino a un certo momento) non sanno di essere inseguiti da Clare: come da tradizione del rape and revenge, si rendono conto gradualmente di essere braccati (quasi come le vittime dello slasher, che si rendono conto che c'è un killer in giro solo con l'aumentare a loro insaputa del body count dei morti).
Loro le stanno inconsapevolmente sfuggendo senza scappare, diretti a Launceston per la promozione di Hawkins: la vendetta della città sulla campagna che caratterizza molti film del genere si ribalta qui nel percorso che dal bush porta alla cittadina, spostando il culmine castigatore sulla città, sull'uomo di mondo, per mano delll'irlandese esiliata e dell'aborigeno oppresso.
La vendetta di Clare si "incastra" in una guerriglia più ampia, storica: la Black War tra i coloni inglesi e gli aborigeni australiani.
E si incrocia con altre, diverse, vendette: quella di Charlie, la guida degli inglesi, e quella di Billy.
Che prenderà il testimone di quella di Clare, ottenuta in ultima analisi attraverso un percorso più interiore che esteriore, attraverso le parole più che le - pur di successo - azioni violente.
In uno spasmo da vecchio rape and revenge, in cui l'uomo prende in mano la vendetta della donna, ma che, in questo brutale e commovente simil-westernon the road, acquista un sapore totalmente nuovo, rinfrancante.
Miriam (Madeleine Sims-Fewer) e Caleb (Obi Abili), sull'orlo del divorzio, vanno a trovare la sorella di lei, Greta (Anna Maguire), che, con il marito Dylan (Jesse LaVercombe), amico di lunga data di Miriam, ha lasciato Londra per una casa isolata nella natura (dalla città alla campagna, vi ricorda qualcosa?).
Tra rapporti precari e antiche connessioni riaccese arriva la violenza, infida e ambigua come può esserlo solo agli occhi di chi la compie; la punizione sembra essere l'unica risposta possibile ad una caparbia cecità che rifiuta di prendersi la responsabilità di un atto atroce, ostinandosi a vederlo come desiderio reciproco.
La natura avvolge i personaggi e il racconto stesso, così come la musica classica e i cori che tornano come ritornelli ad accompagnare la visione dei momenti chiave.
C'è un'insistenza talvolta urlata su dettagli della vita animale, su parentesi di fissità mutevole della vegetazione, che vengono accostati all'orrore o sostituiti ad esso.
Il magistrale montaggio sonoro permette il passaggio armonico ma stridente tra stacchi spazialmente e temporalmente distanti tra loro: occasionalmente, sentiamo nell'inquadratura presente un suono che appartiene a quella successiva, con l'aumento della sensazione di scollamento dalla realtà che informa la prima parte del film.
In Violation ciò che avvince disorientando è la struttura della narrazione, che, a partire da un preciso, significativo, momento, procede per sbalzi temporali puntellati da suggestioni dalla cronologia scombinata (che hanno inizialmente gli ambigui contorni di emblematic shots dal posizionamento aleatorio nel corpo del racconto).
Si va avanti e si torna indietro (coadiuvati da rewind visivi), dopo la grande, prima, ellissi della narrazione: la violenza sessuale.
Al presente lineare precedente allo stupro segue quindi l'ellissi della violenza; abbiamo poi il post-stupro, che continua a tornare in episodi separati (in cui Miriam ha scontri con Dylan, Greta e Caleb), la preparazione e attuazione della vendetta e il post-vendetta, che conduce a un finale in cui non si ha più ben chiaro in quale tempo ci si trovi, forse il momento in cui Miriam prende la decisione definitiva di vendicarsi.
Le dinamiche tra i personaggi vengono definite, anche ingannandoli e ingannandoci, più che attraverso i dialoghi (che spesso riescono comunque ad andare molto oltre il loro piano letterale), per mezzo dei corpi, dei gesti, dei movimenti, degli sguardi, che li avvicinano e li allontanano, li fanno collidere e li agganciano, in una sorta di Teatro Kabuki in cui a disegnare la scena sono le linee emotive di chi è in gioco.
Attraverso questa prossemica degli affetti percepiamo la voragine che separa Miriam e Caleb, l'apparente estrema connessione tra Greta e Dylan, fisici, complici.
Miriam aveva il "controllo" sulla sorella minore fin da quando erano bambine, ma lo ha perso dopo il matrimonio e il trasferimento di Greta: noi la vediamo infatti attiva, con la propria vita in pugno (un enorme forza simbolica riveste il suo aver ricominciato a mangiare la carne).
Dopo lo stupro, Miriam perde il controllo perfino su se stessa, sul suo corpo, e solo con la violenza della vendetta lo riacquista, su se stessa, su Dylan, su Greta (con cui sembra riappacificarsi proprio nel finale).
Il dialogo che vediamo tra le sorelle la mattina dopo lo stupro (teso, iroso, come se la complicità del giorno prima non sia mai esistita) insiste su uno specchiamento su scala minore della noncuranza, della disonestà ebbra di potere, del gaslighting di Dylan - dell'uomo - nel suo rapporto con Greta (e Miriam) - la donna, e delle conseguenze, immaginate e fattuali, del crollo della sopportazione femminile.
La rabbia di Greta si riversa su Miriam, che prova a metterla in guardia su Dylan, non riuscendo a far altro che alimentare ulteriormente il suo astio.
Si muovono su due piani di significato e implicazione diversi, e, mancandole dei tasselli del quadro, Greta non è in grado di comprendere la sorella, di interpretare le sue parole.
"I mean, what the fuck is he playing at? It's his family.
Watch, he's going to turn up now and act like nothing's happened, and then I'm going to look like a bitch for being in a bad mood.
Gonna fucking kill him"
Si tratta di una scena ambigua, perché non abbiamo la certezza della sua collocazione temporale.
Si potrebbe pensare che Miriam abbia già raccontato a Greta dello stupro, e che la sorella si rifiuti di crederle, a causa degli atteggiamenti che la sorella maggiore ha sempre avuto, il crearsi una sorta di realtà parallela in cui lei è l'eroina, e le cose brutte che compie le compie perché costretta dalle circostanze.
Emerge il tema della vendetta per procura non richiesta.
Miriam ha sempre protetto e vendicato la sorella quando erano più piccole, ed è come se le sue azioni del presente si configurassero ancora entro quei ruoli prestabiliti: una vendetta per lei, che ha subito lo stupro, e di riflesso anche per la sorella, che lo stupratore l'ha sposato, ma che tale vendetta non ha chiesto (un simile scenario è presente in M.F.A.)
A sentire Greta, Miriam è una sorta di cavaliere, una salvatrice che si crogiola nella gloria della buona azione senza pensare ai sentimenti di chi ha "salvato".
In Violation vediamo iniziare la vendetta prima che ci venga mostrato lo stupro, in un ordine degli eventi che ricorda quello à rebours di Irréversible (Gaspar Noé, 2002), dove però la vendetta è compiuta dall'uomo protagonista in nome della donna, che, dopo lo stupro (ovvero cronologicamente in tutta la prima parte del film) scompare: Alex/Monica Bellucci arriva in scena giusto in tempo per subire la violenza, il sovvertimento delle logiche temporali di causa ed effetto le toglie qualsiasi tipo di agency, di voce in capitolo sul suo stupro e su come reagire ad esso, poiché a inizio film è già avvenuto (e vendicato).
Qui non siamo di fronte a un film "al contrario", ma a un mosaico temporale che, con la giustapposizione di momenti slegati, mira a ricostruire per contrasti l'arrivo del - e la reazione al - trauma.
Ciò che accade a Miriam risulta ancor più doloroso mano a mano che si procede con il film, in quanto la violenza assume anche la forma di un tradimento, di un venir meno alla fiducia e all'affetto che legava due persone.
La loro chimica, il calore della loro complicità fa male.
Parlano dell'essere delle cattive persone, del fatto che in ognuno di noi convivono bene e male, e sta a noi lavorare per far sì che il bene abbia la meglio.
Raramente nel rape and revenge c'è stata una riflessione così articolata senza essere didascalica sulla natura umana e sulla sua bestialità, sul libero arbitrio, sul controllo degli impulsi, e mai narrativizzata tra stupratore e vittima.
Lo stupratore è una persona che viene ritratta nella sua normalità, mostro laddove decide di sopraffare l'altra con il proprio ego.
E lo stupro, quando mostrato, viene frammentato in dettagli e particolari ravvicinatissimi, in terribili suoni umani, indifferenti suoni animali e cori angelici.
La preparazione della vendetta si configura come una specie di gioco sessuale, stimolato da Miriam per arrivare all'inibizione fisica di Dylan.
Nella fantasia erotica sognata dall'uomo e raccontata alla donna rivive la convinzione del consenso, che illude gli stupratori di non essere tali.
Dylan sogna che lei gli abbia detto di non fermarsi, l'esatto opposto di ciò che è avvenuto nella realtà; il non rendersi conto della simmetria rovesciata di reale e immaginario è assurda e assurdamente familiare, come una storiella che ci si racconta per salvare la faccia.
Dylan, bendato, nudo, intento a raccontare la sua fantasia come in una confessione e a toccarsi già godendo del sesso che lo attende è un'immagine emblematica dell'egotistica necessità di soddisfazione, del volontario ignorare quanti vengano travolti dai propri bisogni e istinti, di cui si trovano ad essere oggetti più che co-soggetti.
Solo sapendo in anticipo che Violation è un rape and revenge si è in grado di "leggere" correttamente i primi 35 minuti di film.
Questa scena del teasing sessuale di Dylan può avere un effetto simile sullo spettatore, poiché quello che sappiamo è che tra lui e Miriam c'è un'intesa speciale, un affetto di lunga data che li lega, e Dylan è stato connotato come uomo buono, di spirito, affabile.
Ciò che vediamo prima dell'ellissi ci fa sospettare che qualcosa accadrà tra i due: il loro rapporto ci viene mostrato in un momento in cui Miriam non è più attratta sessualmente da Caleb, in cui il parlare, lo scherzare con Dylan sembra farle respirare una boccata d'aria fresca.
Amiamo vederli insieme, ridiamo delle sciocchezze che si dicono: le nostre affezioni vengono dirottate dal disordine cronologico, ed è solo il sapere pregresso sul film a metterci in allarme.
Per diventare "cattivi", per andare nel torto, basta un momento, un nulla.
Sono le immagini quasi surreali, la musica inquietante e le micro-azioni di Miriam che ci fanno temere che qualcosa non sia esattamente andato bene tra i due.
Mostrare il pene eretto di Dylan (e lui nell'atto di masturbarsi) è una decisione registica forte, un qualcosa di raro da trovare nel cinema non pornografico, e quasi un unicum nel rape and revenge (ed è strano, se si pensa al tipo di narrazione di cui stiamo parlando).
Questa scelta coraggiosa riavvicina dolorosamente alla fisicità dello stupro, senza che ciò implichi un indugio nei dettagli più softcore di molto Cinema del genere: vediamo l'erezione non nel momento dello stupro, ma in quello che precede la vendetta, non nell'atto di violentare, ma in un atto di autoerotismo.
La vendetta è straziante, fisicamente e psicologicamente, pesa su Miriam come enorme ma necessaria: abbiamo visto i suoi tentativi di reagire, ma il confronto con Dylan, che non riconosce ciò che ha fatto e che pensa solo a quello che per lui è stato un tradimento nei confronti di Greta, senza vedere - senza voler vedere - che è avvenuto un abuso, e che cerca di dividere il fardello della colpa con Miriam, lo rende insostenibile, irrecuperabile, sia per lei che per la sorella, che lo ha sposato.
Questa è la vendetta del cavaliere in the shining armor, come quando erano bambine, ma per proteggere entrambe.
Tuttavia, al momento cruciale, Miriam si tira indietro, per poi portare a termine comunque ciò che con cura aveva preparato quando diventa una questione di sopravvivenza, che la porta a dover agire a mani nude, in un contatto - fisico e visivo - che aveva programmato di evitare.
Una vendetta dolorosissima, che si trascina fino all'intollerabile, che non termina con l'uccisione, ma si protrae con il tormentato smaltimento di ciò che è rimasto, tra liquidi, fluidi, ceneri.
Privando Miriam e noi della tanto bramata catarsi.
Un viaggio immersivo con macchina a mano, a tratti contemplativo, che riflette sulla struttura di un genere che si è evoluto molto faticosamente, e solo negli ultimi anni sta cominciando a ragionare profondamente sulla sua stessa tradizione: Violation è una punta di diamante del rape and revenge, forse la più splendente, ed è per questo che lo avete trovato in cima a questa respingente Top 8.
Ho recuperato anche Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave, 1978),The Nightingale, Violation e M.F.A. e mi hanno genuinamente sorpreso tutti quanti per quanto diversi l'uno dall'altro sotto molto punti di vista, sempre condividendo il tema centrale del rape & revenge.
I Spit on Your Grave è diretto, sporco, cattivo e realisticamente crudo. Parla moltissimo per immagini ed ha forse la deriva più alla horror classico tra quelli che ho visto.
The Nightingale è forse quello più elaborato e stratificato e conferma le grandi doti della Kent. Rape & revenge è l'incipit di quello che poi diventa un road & revenge con aggiunta del tema raziale, purtroppo sempre e per forza attuale. Davvero grandioso.
Violation è probabilmente il più intimista. Il film segue la protagonista (clamorosa) per tutto il film e con le inquadrature parla attraverso la sua soggettiva, anche durante la scena di stupro, permettendo allo spettatore di immergersi nel personaggio prima di ricostruire gli avvenimenti tramite la tecnica del flashback.
M.F.A. è forse quello più spinto alla modernità, sia nella messa in scena che nella scelta del setting. Come sottolineato anche nell'articolo, è palese l'ispirazione a questa pellicola per Promising Young Woman, che in qualche modo parte dalle basi di M.F.A. ma spinge verso una deriva più pop (e più vendibile ai premi, il che non è un difetto) ed un finale ancora meno ottimista. M.F.A. è anche quello più socialmente impegnato perché inserisce il rape & revenge in contesto di denuncia pubblica alle autorità e al sistema rotti nei suoi atteggiamenti.
Andrea Mauri
2 anni fa
Ho recuperato anche Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave, 1978),The Nightingale, Violation e M.F.A. e mi hanno genuinamente sorpreso tutti quanti per quanto diversi l'uno dall'altro sotto molto punti di vista, sempre condividendo il tema centrale del rape & revenge.
I Spit on Your Grave è diretto, sporco, cattivo e realisticamente crudo. Parla moltissimo per immagini ed ha forse la deriva più alla horror classico tra quelli che ho visto.
The Nightingale è forse quello più elaborato e stratificato e conferma le grandi doti della Kent. Rape & revenge è l'incipit di quello che poi diventa un road & revenge con aggiunta del tema raziale, purtroppo sempre e per forza attuale. Davvero grandioso.
Violation è probabilmente il più intimista. Il film segue la protagonista (clamorosa) per tutto il film e con le inquadrature parla attraverso la sua soggettiva, anche durante la scena di stupro, permettendo allo spettatore di immergersi nel personaggio prima di ricostruire gli avvenimenti tramite la tecnica del flashback.
M.F.A. è forse quello più spinto alla modernità, sia nella messa in scena che nella scelta del setting. Come sottolineato anche nell'articolo, è palese l'ispirazione a questa pellicola per Promising Young Woman, che in qualche modo parte dalle basi di M.F.A. ma spinge verso una deriva più pop (e più vendibile ai premi, il che non è un difetto) ed un finale ancora meno ottimista. M.F.A. è anche quello più socialmente impegnato perché inserisce il rape & revenge in contesto di denuncia pubblica alle autorità e al sistema rotti nei suoi atteggiamenti.
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