A distanza di un anno dall'ultima volta torna l'appuntamento sanguinoso, vigliacco e fratricida con le classifiche malvage di CineFacts.it.
Questa volta le decisioni complicatissime riguardano i film degli anni '50.
Come potete immaginare dal decennio preso in esame questa non è la prima classifica di questo tipo: grazie al tag Top di Decennio potete recuperare tutte quelle stilate e pubblicate finora, ma per vostra comodità vi riportiamo qui gli articoli singoli nel caso foste interessati a un decennio in particolare.
Lo abbiamo ribadito prima di ogni selezione appartente a questo sadico ciclo e, anche in questo caso, non ci risparmiamo nel ricordarvi che le nostre classifiche di decennio non nascono con un'intenzione superba o classista: sono invece un modo per parlare di Cinema e come tali andrebbero affrontate e discusse.
[Celeste Holm, Bette Davis e Hugh Marlowe ci osservano perplessi perché Eva contro Eva non è in classifica. Come biasimarli?]
Possibilmente senza flagellarsi con un gatto a nove code di celluloide per l'assenza di tale titolo o farsi venire il lupus per la presenza di un altro che non vi è gradito.
Questo tipo di contenuti aiuta noi a fare il punto su che tipo di Cinema ci abbia entusiasmato negli anni e magari può aiutare voi a riscoprire titoli finiti nel dimenticatoio, o a parlare dei film che avete amato e che qui non vedete citati.
O che magari vedete nelle prime posizioni.
Se le classifiche precedenti avevano incentivato le bastonate, vicendevoli sputi negli occhi ed eliminazioni fisiche di membri della redazione... la situazione per questa selezione è addirittura peggiorata.
Il quinto decennio del '900 è stato una vera e propria fucina di capolavori, popolato da autori capaci di inaugurare nuovi generi, innovando ciò che la Settima Arte aveva proposto in precedenza.
Gli anni tra il 1950 e il 1959 hanno una rilevanza mastodontica per quanto concerne la produzione cinematografica successiva: se è vero che gli USA e gli sceneggiatori hollywoodiani dovettero fare i conti con le "liste nere", in Europa germogliavano e si consolidavano i rivoluzionari movimenti del Neorealismo e della Nouvelle Vague.
Se il boom del Cinema britannico e l'esplosione del Cinema di genere italiano erano rimandati agli anni '60, Ingmar Bergman - solo nel 1957 - sfornava Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, mentre il Giappone procedeva nella sua marcia spedita con i suoi autori-figli prediletti.
[Operare delle scelte per questa Top 8 è stato doloroso quasi quanto una visione di Umberto D. di Vittorio De Sica]
Ma procediamo con ordine.
Cominciamo dagli States.
Sul finire degli anni '40 le tensioni fra USA e Unione Sovietica avevano raggiunto il culmine, sfociando nella cosidetta "Guerra Fredda".
La minaccia di una Guerra Atomica era costante e le spie di NSA, CIA e KGB si muovevano dietro le rispettive linee nemiche: depistaggi, propaganda e fughe di notizie erano all'ordine del giorno.
La situazione politica - a dir poco elettrica - ebbe un'influenza rilevante sul tessuto sociale statunitense, tanto da creare un clima di sospetto continuo, al limite dell'isterismo, dove chiunque poteva patire l'accusa di essere una pericolosa spia rossa, bolscevica e comunista.
Un fenomeno che venne in seguito battezzato come "maccartismo", in "onore" del senatore Joseph MacCarthy, che dal 1953 mosse una vera e propria caccia alle streghe agli "infiltrati comunisti", durante la quale centinaia di persone vennero accusate e incarcerate senza motivazione logica alcuna.
Hollywood non fu esente da questi malsani meccanismi: venne creata una lista nera al cui interno finirono oltre 300 personalità del mondo del Cinema fra registi, attori, sceneggiatori e produttori che finirono col perdere il lavoro.
Nel 1952 Charlie Chaplin si trovava in Europa e gli States gli cancellarono il visto di rientro, i registi Joseph Losey e Jules Dassin furono costretti all'esilio, Humphrey Bogart venne accusato di essere comunista.
L'attore de Il grande sonno, in seguito, fu costretto a ritrattare la sua posizione schierandosi dalla parte della Commissione per le attività antiamericane, così come accadde anche a Walt Disney, il quale dichiarò pubblicamente che le proteste e gli scioperi messi in atto dai suoi animatori erano il frutto di sobillazioni di matrice sovietica.
[Gradite forse una tazza di tè per mitigare il dispiacere di non vedere nella selezione finale Alice nel Paese delle Meraviglie?]
L'attore Adolphe Menjou, più che favorevole alle purghe contro i pericolosi infiltrati rossi, dichiarò:
"Sono un cacciatore di streghe, se le streghe sono i comunisti.
Io i rossi li perseguito. Fosse per me, tornerebbero tutti in Russia"
Il clima era a dir poco pesante e a opporvisi ci pensarono i famosi "dieci di Hollywood": il regista Edward Dmytryke i nove sceneggiatori Alvah Bessie, Herbert Biberman, Lester Cole, Ring Lardner Jr., John Howard Lawson, Albert Maltz, Samuel Ornitz, Adrian Scott e Dalton Trumbo si rifiutarono di collaborare con la Commissione.
Trumbo fu protagonista della cancellazione della black list quando Kirk Douglas, produttore e attore protagonista di Spartacus, riconobbe allo sceneggiatore la paternità dello script del film di Stanley Kubrick.
Se volete invece una panoramica sul triste fenomeno del maccartismo, non possiamo che rimandarvi a Good Night, and Good Luck., secondo lungometraggio di George Clooney in cabina di regia.
Questo contesto allucinante come influì sulle proposte cinematografiche di Hollywood?
Nei primi anni '50 la realizzazione di pellicole "a colori" (per mezzo del Technicolor) presentò una sensibile accelerazione, passando dal 20% al 50%, il colosso RKO cessò le attività produttive nel 1957 e, soprattutto, ci fu una grossa crisi nel sistema di fruizione cinematografico: il pubblico si era ringiovanito, aveva altre aspettative rispetto le storie che desiderava vedere sullo schermo, anche in virtù della nascita e della diffusione massiva del nuovo medium televisivo.
La crisi del Cinema hollywoodiano di quel decennio, che per la prima volta portò la macchina produttiva a stelle e strisce a "rincorrere" gli stilemi dettati dagli astri nascenti della Vecchia Europa, non impedì tuttavia la creazione di pellicole semplicemente intramontabili.
La carovana dei mormoni e Rio Bravo di John Ford, Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz, Viale del tramonto di Billy Wilder, Il padre della sposa di Vincente Minnelli, Giugla d'asfalto di John Huston: giusto qualche titolo per osservare cosa uscì nelle sale cinematografiche americane solo nel 1950.
Se poi si amplia il raggio d'analisi al resto del decennio, la lista diventa spaventosa: L'asso nella manica (1951), Un tram che si chiama desiderio (1951), Luci della ribalta (1952), Mezzogiorno di fuoco (1952), Viva Zapata! (1952), Vacanze romane (1953), Un bacio e una pistola (1954), La morte corre sul fiume (1955), L'invasione degli ultracorpi (1956), Il ponte sul fiume Kwai (1957), L'infernale Quinlan (1958), Anatomia di un omicidio (1959)... per citarne solo alcuni, senza diventare noiosi.
[Gli amanti crocifissidi Kenji Mizoguchi: è nella selezione finale? Non ci è andato nemmeno vicino. Forza, crocifiggeteci]
Fra il 1950 e il 1960 si affacciò sulle scene un certo Stanley Kubrickcon Paura e desiderio (1953), Il bacio dell'assassino (1955), Rapina a mano armata (1956), Orizzonti di gloria (1957).
Alfred Hitchcock regalò al mondo Il delitto perfetto (1954), La finestra sul cortile (1954), Caccia al ladro (1955), La congiura degli innocenti (1955), L'uomo che sapeva troppo (1956), La donna che visse due volte (1958) e Intrigo internazionale (1959).
Billy Wilder la "toccava piano" con Viale del tramonto (1950), Sabrina (1954), Testimone d'accusa (1957), Arianna (1957) e A qualcuno piace caldo (1959).
L'epoca d'orodei classici firmati Walt Disney proseguiva a passo spedito con la distribuzione di perle come Cenerentola (1950), Alice nel Paese delle Meraviglie (1951), Le avventure di Peter Pan (1953), Lilli e il vagabondo (1955) e La bella addormentata nel bosco (1959).
Niente male per una nazione in crisi produttiva e preda di conflitti socio-politici interni ed esterni, non trovate?
E l'Italia?
Il Cinema italiano, come del resto l'intera nazione, per risollevarsi dalle macerie e dalla miseria lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale impiegò diversi anni.
Nel 1947 abbiamo il primo film realizzato a Cinecittà, Cuore diretto da Duilio Coletti e Vittorio De Sica e distribuito nelle sale l'anno successivo.
Nel 1948 si apre il periodo storico che venne ribattezzato come quello della "Hollywood sul Tevere", dove le major statunitensi investirono massivamente in produzioni realizzate negli stabilimenti romani.
Sono gli anni d'oro del Peplum, il filone dei film "sandalo e spada" di ambientazione epico-mitologica, dove proliferarono classici immortali come Quo vadis di Mervyn LeRoy (1951) e Ben-Hur di William Wyler (1959).
Ma, come detto, ormai le produzioni di derivazione letteraria, storica o mitologica erano di ben poco interesse per il pubblico: lo spettatore voleva storie "vere", dinamiche legate alla realtà di tutti i giorni e personaggi in cui identificarsi.
Da questa necessità fruitiva - e dal desiderio di mostrare il quotidiano degli autori di quegli anni - germoglia il seme del Neorealismo cinematografico, nato sulla scorta di quello letterario dei vari Carlo Levi, GiovanniVerga, AlbertoMoravia, CorradoAlvaro.
Il movimento - la cui genesi si colloca per consuetudine con Ossessione di Luchino Visonti (1943) - proseguì la sua corsa a spron battuto anche negli anni '50 con Stromboli (terra di Dio), Umberto D., Non c'è pace tra gli ulivi, Bellissima, Il cammino della speranza, Miracolo a Milano, Il ferroviere e altre importanti opere firmate da Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Giuseppe De Santis e Pietro Germi (non solo, ovviamente).
Le teorizzazioni produttive - almeno quelle iniziali - avevano una linea comune: si trattava di opere realizzate prevalentemente con attori non professionisti; c'era poi una grande prevalenza di scene girate in esterno, per lo più in periferia, in campagna o per le strade devastate dalla guerra.
A livello stilistico si cerca di non far percepire la presenza della macchina da presa: si evitano gli zoom e i movimenti della mdp sono ridotti al minimo.
Le storie che compongono le sceneggiature - ridotte all'osso - rappresentano le difficoltà quotidiane del "popolo minuto", impegnato a non morire di fame e a trovarsi un lavoro per potersi permettere un tetto sopra la testa.
I bambini diventano importantissimi, ricoprendo ruoli di grande rilievo - basti pensare al piccolo Enzo Satiola di Ladri di biciclette - che ne esaltano "l'innocenza spezzata", la pragmaticità anticipata e il cinismo dell'età adulta che li abbracciano prima del tempo.
Sono storie dolorose, spesso insopportabilmente, ma che il popolo italiano comprende, apprezza e sente vicine al proprio quotidiano.
Signori, padroni e demiurghi dello spirito maieutico di quegli anni sono Vittorio De Sica e il fido Cesare Zavattini che sperimentano con il Neorelismo e lo piegano a proprio piacere, arrivando persino a traferirlo all'interno di scheletri narrativi da "favola morale".
È il caso, ad esempio, del già citato Miracolo a Milano: un film che ingloba elementi magici - da favola per l'appunto - e li contestualizza in un soggetto che staziona fra la realtà degradata delle baraccopoli e il sogno fantastico di fuggire dalla miseria a bordo di una scopa di saggina.
[Anche in redazione vorremmo volare via dopo aver escluso Miracolo a Milano]
I '50 sono anche gli anni di Luchino Visconti che, dopo il successo di La terra trema (1948) e Senso (1954), continuò con il procedimento che consentiva al Neorealismo di legarsi al melodramma classico, alla letteratura e alla produzione narrativo/visiva dell'ottocento.
Nel decennio di pertinenza nasce così Le notti bianche (1957), opera straordinaria con Marcello Mastroianni, Maria Schell e Jean Marais, basata sull'omonimo racconto di Fëdor Dostoevskij.
Un lavoro che aprì la strada a due delle produzioni più rappresentative della filmografia viscontea: il capolavoro Rocco e i suoi fratelli (ispirato ai racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori) e Il Gattopardo, il cui soggetto venne ricavato dal celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Il Neorealismo diventa così una gigantesca bestia onnivora dalla grande forza fascinativa: autori che quasi esclusivamente verranno inseriti da critici e storici del Cinema nel genere della Commedia all'Italiana si lasciano in realtà sedurre dalla nuova corrente letterario/cinematografica.
Luigi Zampa, per dirne uno.
Un regista che resterà nell'immaginario comune per le sue collaborazioni "farsesche" con Alberto Sordi (Il vigile;Il medico della mutua) ma che, a ben vedere, si dilettò con le tematiche e gli umori del neorealismo, provando però a mescolarli con una comicità amara di denuncia, come nei casi di Anni difficili (1949) o L'arte di arrangiarsi (1953).
Come visto nel corso dell'introduzione della nostra precedente Top 8 degli anni '60, il Neorealismo oltre a a rappresentare una nuova fioritura produttiva in Italia ha anche il grande merito di aver rappresentato una sorta di "Big Bang cinematografico" dal quale ebbe origine il Cinema di Genere e nuove sperimentazioni tematico-rappresentative.
Oltre ad aver tracciato il solco che venne poi seguito anche dalla Nouvelle Vague francese alla fine degli anni '50 (in tal senso, fulgido esempio è I 400 colpidel 1959, opera d'esordio di François Truffaut).
[Dai, Antoine, non ci guardare male perché sei rimasto fuori. Non è colpa nostra. Cioè, sì, lo è, ma... vabbé, hai capito. Scusaci]
Neanche il Cinema britannico, in un certo senso, fu esente dall'influenza totalizzante del Neorealismo italiano.
A metà degli anni '50 nasce infatti il movimento di documentaristi affermatosi col nome di Free Cinema: una corrente che ritraeva la gente comune della classe lavoratrice con comprensione e rispetto, in maniera personale, poetica e fantasiosa nell'utilizzo del sonoro e dei meccanismi narrativi.
Il movimento si affermò attraverso il pensiero dei registi e sceneggiatori Lindsay Anderson, Karel Reisz, Lorenza Mazzetti e Tony Richardson.
Emblematico il loro manifesto programmatico:
"Nessun film può essere troppo personale: l'immagine parla, i suoni amplificano e commentano, la misura non è rilevante.
La perfezione non è uno scopo: un atteggiamento significa uno stile, uno stile significa un atteggiamento"
Il Free Cinema, inoltre, ha una certa rilevanza in quanto aprì le porte alla successiva New Wave britannica, la "nuova ondata" di produzioni con una marcata connotazione commerciale che rappresentano la realtà sociale inglese con ancor più realismo, seguendo gli stilemi rappresentativi del movimento che le aveva precedute.
Volgendo lo sguardo a Oriente non si può che citare la produzione "dell'onnipresente" Akira Kurosawa (il quale, solo in questo decennio, srotolò una vertiginosa serie di titoli come Rashomon, L'idiota, Vivere, I sette samurai, Testimonianza di un essere vivente, Il trono di sangue), Masaki Kobayashi, Kenji Mizoguchi, Keisuke Kinoshita, Yasujirō Ozu e Kon Ichikawa.
Autori che continuarono la proposta nipponica di Jidai geki(film in costume) e Gendai geki(pellicole dalla matrice tematica legata alla contemporaneità), quest'ultime non di rado vicine allo spirito "realista" proveniente da Occidente.
[La morte corre sul fiume, sfolgorante opera prima - e unica - di Charles Laughton. Anche lei è fuori]
Si può non accennare poi a Ingmar Bergman, uno dei registi più rilevanti dell'intera Storia del Cinema?
Gli anni '50 furono per l'autore di Persona un periodo di passaggio dal Cinema più classico, romantico e da camera degli anni '40 a quello di ricerca e avanguardia dei '60 (durante i quali si aprirono la Trilogia del silenzio di Dio e la Tetralogia di Fårö).
Questo non è un demerito, ma anzi è un valore aggiunto per il decennio che lo consacrò come uno dei più importanti autori europei, con opere come Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Sorrisi di una notte d'estate e Monica e il desiderio, che gli valsero il riconoscimento del pubblico su scala mondiale.
Nel concludere questa - panoramica - carrellata sul Cinema degli anni '50 vogliamo ribadire come la redazione di CineFacts.it abbia "gettato il sangue" per operare le proprie dolorissime scelte: in questo decennio ci sono autori da capogiro, nuove e importantissime correnti oltre a un numero impressionante di capisaldi della Storia del Cinema.
Fra gli eminenti esclusi compaiono nomi da brivido come quelli di Joseph L. Mankiewicz, Orson Welles, Agnès Varda, Carl Theodor Dreyer, Mario Monicelli, Robert Bresson, Federico Fellini, George Cukor, Otto Preminger, Robert Wise, Roberto Rossellini, Jacques Tourneur, Steno, Henri-Georges Clouzot, Elia Kazan, Jean Cocteau, Vittorio De Sica, John Ford, Luchino Visconti...
Dopo cerbottanate al curaro abbiamo - colpevolmente - eliminato titoli impressionanti: La morte corre sul fiume, L'infernale Quinlan, Rapina a mano armata, La strada, Alice nel Paese delle Meraviglie, Cantando sotto la pioggia,Luci della ribalta, L'invasione degli ultracorpi (e tanti, troppi, altri ancora, dannazione!).
Se poi pensiamo a tutti quelli che non sono stati nemmeno votati c'è da sentirsi male.
Ogni redattore, va da sé, ha background, sensibilità e gusti diversi da quelli dei propri colleghi: dai punti di contatto fra queste differenze abbiamo ottenuto la cernita finale.
Vi pregheremmo pertanto di non lapidarci col vostro disappunto, per il semplice fatto che l'abbiamo già abbondantemente fatto da soli.
A fare - parzialmente - da ammenda, ci sono 52 titoli votati e oltre 40 registi diversi.
Prima di iniziare con la classifica ci sembra opportuno segnalare i "paletti" e il "raggio d'azione" tracciato per la sua realizzazione: ogni membro della redazione che ha preso parte alla Top 8 ha scelto i propri 10 titoli del decennio in oggetto e li ha classificati.
Le regole imposte erano due:
- i film dovevano essere prodotti tra il 1950 e il 1959
- si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno
Speriamo che questa Top 8 possa essere fonte di spunti interessanti e che lo possano essere anche tutte le classifiche personali che tra poco potrete leggere prima della selezione ultima.
Ovviamente aspettiamo i vostri commenti, le vostre opinioni e soprattutto le vostre classifiche dei Migliori Film prodotti tra il 1950 e il 1959.
Sappi che hai appena visto il risultato di un lavoro di gruppo sviluppato in decine di ore di lavoro, utili a proporti contenuti approfonditi e curati, esattamente come meriti!
Nel luglio del 2016 il British Film Institute ha risposto a una domanda che in passato ci avete fatto anche durante il nostro podcast:
“Da dove è meglio iniziare con la filmografia di Ingmar Bergman?”.
La scelta, sia per il BFI, sia per CineFacts.it è ricaduta su Il posto delle fragole.
Proprio da questa constatazione voglio partire per parlare di un capolavoro senza tempo come il film del 1957 con Bibi Andersson, Ingrid Thulin e Victor Sjöström che ha segnato la Storia del Cinema.
I due decenni a metà del '900 sono senza dubbio il periodo più rappresentativo e significativo della produzione del Maestro di Uppsala, nonostante abbia realizzato più di 60 film tra il 1946 e il 2003 disseminando di opere imprescindibili ogni periodo della sua carriera.
Negli anni ‘50 in particolare è stato in grado di girare dodici film, tra cui capolavori come Un'estate d'amore, Monica e il desiderio, Il settimo sigillo e Alle soglie della vita.
“L’Orso d’oro Il posto delle fragole prova la grandezza di Ingmar Bergman - stop - script fantastico su flash della coscienza di Victor Sjostrom abbagliato dalla bellezza di Bibi Andersson - stop - moltiplica Heidegger per Giraudoux per ottenere Bergman - stop”
Il telegramma di Jean Luc Godard inviato per Cahiers du Cinéma al Festival di Berlino del 1958
Perché iniziare proprio con Il posto delle fragole?
Il film racconta il viaggio in macchina del professor Isak Borg (Victor Sjöström) per essere insignito di un premio alla carriera: l'uomo è ormai in pensione e tutto il viaggio del film sarà una rappresentazione del suo rapporto con la propria esistenza ormai agli sgoccioli e con il concetto di vecchiaia.
Isak è accompagnato nel viaggio dalla nuora Marianne e da tre ragazzi incontrati lungo il tragitto: la giovane Sara, Anders e Viktor.
Le due donne sono interpretate rispettivamente da Ingrid Thulin e Bibi Andersson, due tra le più note attrici-feticcio di Bergman, che non a caso vengono sfruttate come simboli di realtà e memoria lungo tutto il film.
Il vero merito del film non è raccontare il viaggio dell'emerito professore, ma costruire una lunga allegorica immersione dentro a Isak Borg: dalle profondità dei suoi ricordi, all'oscurità delle sue preoccupazioni, passando per la cripticità dei suoi dubbi Il posto delle fragole si interroga sul tempo, sulla paura della morte e su cosa resti alla fine di una vita.
Una carrellata su quasi tutti i grandi temi della filmografia bergmaniana inserita in un contesto narrativo estremamente moderno, riconducibile al road movie, che non a caso è tra i film più amati da David Lynch (impossibile non notare il legame strettissimo con Una storia vera).
Proprio per questo Il posto delle fragole è un film perfetto per approcciarsi all'autore svedese: ripercorrendo la vita di un uomo tra realtà, rimpianto, ricordo, dialogo e onirismo riesce a fornire allo spettatore una panoramica su tanti dei tòpoi narrativi e tematici di Ingmar Bergman.
Si passa dal Cinema della memoria, che ha caratterizzato la fine del suo periodo più classico, al Cinema di ricerca linguistica che ha segnato gli anni '60; il tutto mentre surrealismo e psicanalisi fanno capolino tra le pieghe di un'opera estremamente dialogata, che ci porta subito al suo Cinema più da camera e a quello che cerca le risposte ai grandi interrogativi.
Un'opera affascinante capace di ammaliare come la giovane cugina Sara (interpretata da Bibi Andersson come l'omonima autostoppista) quando Isak ritorna nella vecchia casa di famiglia e ricorda la sua giovinezza, ma che allo stesso tempo è uno degli esempi più grandi di rappresentazione della psiche di un uomo.
Allons enfants de la Patrie. Le jour de gloire est arrivé!
È la Marseillaise che possiamo sentire durante i titoli di testa e il richiamo enfatico ai "giorni di gloria", a riecheggiare il titolo del film, non è casuale: colpì nel segno a tal punto che il film fu bandito dalla distribuzione sul suolo francese per quasi vent'anni.
Orizzonti di gloria approfondisce lo stretto rapporto del regista con il tema bellico, che si perfezionerà ne Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (nel 1964) e in Full Metal Jacket (nel 1987), ma che aveva trovato la sua prima e interessante, seppur acerba, espressione in Paura e desiderio (del 1953); questa volta però lo declina sul piano della lotta di classe.
La Grande Guerra è infatti pretesto per rivelare dinamiche di potere trasversali al tessuto sociale tutto.
Ipocrisie e meschino arrivismo sono i motori trainanti di una catena di scelte scellerate che impattano sulla vita di inconsapevoli pedine; se nel film in questione vengono impiegati generali e soldati semplici, non è complesso rivedere in questo un pretesto per descrivere per similitudine identiche dinamiche proprie anche di altri campi sociali.
Indimenticabile la splendida carrellata che accompagna l'assalto imposto dall'alto all'esercito francese verso la fortezza all'apparenza inespugnabile del comando tedesco.
Dal momento dell'ordine all'assalto e per tutta la durata della sequenza l'occhio del regista non si distoglie nemmeno un istante dall'urgenza di restituire l'avanzata di corpi brulicanti e, loro malgrado, ossequiosi.
Strisciano carponi rivolti a un nemico che non viene mai mostrato, a sottolineare l'intrinseca insensatezza di un atto senza scopo e la macchina da presa scorre con loro sulle insidie della terra di nessuno, così come all'inizio insegue i generali in marcia all'interno della trincea, permettendo a Stanley Kubrick di sfoggiare con padronanza la macchina da presa anche lungo un set con spazi angusti e insidiosi e, al contempo, di regalare agli spettatori uno sguardo quanto più realistico possibile sull'ambiente del fronte, immergendoli letteralmente fra il fango, le palizzate e gli sguardi angosciati di quelli che vengono percepiti come i propri commilitoni.
Altrettanto memorabile l'angosciante inquadratura della fucilazione, che intesse una geometria prospettica attraverso le canne dei fucili rivolte in un punto di fuga costituito dai corpi legati: perfetto esempio del noto perfezionismo estetico di Kubrick anche nella più turpe delle azioni inscenate.
Il film sarà presentato al mondo nel 1957: siamo al principio di una lunga età di nemici invisibili e, per questo, mai davvero emotivamente disinnescabili; una guerra fredda.
A dimostrazione della capacità di autori come Stanley Kubrick di incastonare artisticamente un preciso tempo storico senza chiamarsene fuori ma, al contempo, sapendo donare lunga vita alle loro opere facendo sì che perdurino anche in età con diverse formae mentis.
Come sarà trent'anni dopo per il finale di Full Metal Jacketanche quest'opera si chiude con un canto: ultimo avamposto di sincera comunione di emozioni umane, un canto di com-passione.
“La cosa più simile al paradiso che io abbia mai incontrato è il Cinema di Ozu”.
Certamente Wim Wenders, con questa dichiarazione, intendeva accomunare la visione di un film del cineasta giapponese con l’ingresso in un’altra dimensione fantastica e per l’appunto paradisiaca, ma la frase in questione mi serve da spunto per affermare come il Cinema di Ozu è la cosa più simile alla vita che io abbia mai incontrato.
Guardando Viaggio a Tokyo - forse il suo film più conosciuto e amato - si prova una sensazione quasi straniante: il tempo della vita e il suo trascorrere inesorabile ci passa davanti come un treno a vapore, riportandoci inevitabilmente alla nostra infanzia, a un periodo in cui eravamo più vulnerabili, ma allo stesso tempo anche più limpidi e sinceri.
Non è un caso che la cinepresa nel Cinema di Ozu è sempre ferma a 90 centimetri di altezza, quasi come si trattasse di una soggettiva di uno sguardo esterno, fanciullesco, che non inventa una nuova realtà, ma la cristallizza e la inquadra per renderci partecipi in prima persona di ciò che accade.
La storia dei due anziani coniugi Hirayama, che partono dalla campagna di Onomichi per andare a trovare i propri figli a Tokyo così indaffarati e distratti, sembra allora guardarci da vicino nonostante il film di Ozu sia del 1953.
Il loro viaggio fisico diventa anche temporale, mostrando senza sguardo giudicatorio il Giappone post-Seconda Guerra Mondiale, pieno di contraddizioni e scontri ideologici.
La delusione mista a rassegnazione dei coniugi Hirayama nei confronti dei propri figli inquadra perfettamente un tipo di pensiero ormai passato, che guarda al futuro con occhi attenti e pieni di sospetto; così come i loro figli, occupati a tempo pieno dai rispettivi lavori, sono lo specchio di una generazione che trainerà il Giappone fuori dal periodo post-bellico a discapito però di alcuni valori umani e culturali prima imprescindibili.
Con la consueta perfezione dell’inquadratura, in apparenza così semplice e perciò ancora più sorprendente, Ozu ricerca il tempo per scovare quel sentimento a cui facevo riferimento poco sopra, per fermarlo e dilatare i momenti, così da lasciare spazio a chi guarda di provare emozioni e di vivere in prima persona la storia che ci viene mostrata.
Non a caso Paul Schrader indica Ozu come capostipite del Cinema trascendentale che, citando Roberto Silvestri
“Non significa metafisico, ma uno schema che trasforma l’aneddotico nel generale, il naturale in astratto, un punto di vista pertinente soggettivo che coglie, fin dalle sfumature, le trasformazioni sociali, culturali e simboliche”.
Viaggio a Tokyo è un film popolato da sfumature impercettibili come i movimenti di macchina che compongono l’opera, talmente vicino alla vita da mettere quasi soggezione, a meno che non lo si guardi con gli occhi di un bambino, proprio come Ozu ci suggerisce implicitamente.
Ingiustamente snobbato all’uscita nelle sale e per i successivi vent’anni, La donna che visse due volte ha acquisito relativamente tardi tutta la giusta considerazione che si merita, diventando un punto di riferimento per le ultime generazioni di cineasti e raggiungendo il 9° posto nella classifica dei migliori film angloamericani di tutti i tempi stilata dall’AFI (American Film Institute) nel 2007.
Tratto liberamente dal romanzo francese omonimo (D’entre les morts è il titolo originale) del 1954 di Pierre Louis Boileau e Thomas Narcejac, è la pellicola di Alfred Hitchcock che presenta la struttura narrativa e tematica forse più complessa, perché altro non è che la summa - personalmente la definirei anima - di tutta la sua filmografia.
L’opera sembra mostrare il classico schema del mistero hitchcockiano, ma si rivela in realtà un excursus psicologico molto profondo.
Il titolo originale, Vertigo, indica l’elemento principale nonché il motore di tutta la trama: la vertigine provocata dall’acrofobia che soffre il protagonista Scottie Ferguson (James Stewart) e quella causata dalla relazione amorosa tra Scottie e Madeleine/Judy (Kim Novak).
Il personaggio principale, infatti, si trova allo stesso modo mentalmente disorientato e spiazzato sia davanti alle altezze sia davanti alla possibilità di abbandonarsi al sentimento e al desiderio della donna amata: in entrambi i casi le conseguenze risulteranno tragiche.
Un altro tipico tòpos del regista presente in La donna che visse due volte è quello del doppio.
La trama è costruita su dinamiche ambigue e duplici che non si declinano solo nelle caratteristiche ed evoluzioni dei personaggi, ma anche attraverso artifici di supporto.
Ad esempio, Madeleine viene presentata allo spettatore assieme alla sua immagine riflessa in uno specchio, e simili specularità aumentano in versioni diverse durante il susseguirsi del lungometraggio al fine di rappresentare una dualità sia fisica che mentale.
Il doppio viene raffigurato anche dalla contrapposizione tra Eros e Thanatos, Amore e Morte, che costituisce la parte portante di tutto il film attraverso la loro polarità, anche se l’uno sembra essere indissolubilmente legato all’altra.
L’erotismo è infatti presenza fissa in tutta l’opera, ma viene illustrato nello specifico in maniera morbosa dalla trasformazione subita dal personaggio interpretato da James Stewart.
Il desiderio diventa ossessione quando egli si spinge a ricreare nel minimo dettaglio una figura femminile impossibile da raggiungere, solo perché crede sia l’unico modo possibile per provare un sentimento ed esprimere la propria sessualità.
Scottie infatti, così facendo, non personifica soltanto il suo egoismo passionale e possessivo in maniera maniacale, ma cerca anche un modo per liberarsi definitivamente di tutti suoi sensi di colpa e quindi anche delle sue fobie.
Ciò che sta alla base di tutto il messaggio di Hitchcock è che i malesseri provati dai protagonisti come i disturbi di Scottie e i deliri di Madeleine non sono altro che prodotti della crisi dell’identità dell’uomo moderno, che rischiano di destabilizzare tutti i suoi punti fermi e di farlo cadere in un vortice che al solo guardarlo provoca una tremenda vertigine.
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Si può creare e realizzare una commedia capolavoro partendo da un inciting incident come la Strage di San Valentino del 1929?
Evidentemente se alla sceneggiatura c'è I.A.L. Diamond accompagnato dal regista Billy Wilder sì: si può.
A qualcuno piace caldo è uno di quei film che non invecchieranno mai nemmeno di una settimana: la storia dei due musicisti squattrinati che costretti a nascondersi dai gangster entrano a far parte di una band tutta al femminile ha fatto epoca; ancora oggi esistono decine di momenti e battute prese a modello, nonostante la pellicola abbia ormai passato i 60 anni.
È difficile dire cosa renda A qualcuno piace caldo una delle migliori commedie della Storia del Cinema - sto largo, personalmente la ritengo la migliore in assoluto - perché gli elementi sono davvero tanti, a partire da un cast in formissima capitanato dalla coppia Jack Lemmon e Tony Curtis affiancati da una spettacolare Marilyn Monroe.
Il film è una commedia degli equivoci e dei travestimenti, dove ogni personaggio in fin dei conti finge con il prossimo di essere ciò che non è, mettendo in moto una sequela di avvenimenti che continuano ad accumularsi uno sull'altro, un'infilata di bugie e sotterfugi che come legna in una stufa aumentano il calore fino ad esplodere nel finale... che però è molto lontano da ciò che ci si aspetta.
Il bianco e nero fu obbligato dal colore del trucco dei due attori, che li rendeva leggermente verdi in viso: la cosa rese difficoltoso il contratto con Marilyn Monroe che secondo la sua agenzia doveva recitare solo in film a colori; l'attrice fu facilitata dalla produzione perché si scelse di ambientare gran parte del film all'Hotel del Coronado vicino San Diego, a pochi chilometri dalla sua abitazione dell'epoca.
Tony Curtis venne lanciato definitivamente grazie al triplo ruolo che interpreta in questo film, Jack Lemmon iniziò da qui il sodalizio con Billy Wilder che li portò a girare ben 7 film assieme e Marilyn... non era nemmeno prevista nel ruolo, perché sceneggiatore e regista non avevano pensato a una superstar: fu lei che una volta letto lo script fece sapere di volere il ruolo di Zucchero Kandinsky.
A quel punto era impossibile non scritturarla.
Curiosità: il film arrivò all'edizione dei Premi Oscar 1960 con 6 nomination, tra cui quella per la Migliore Regia.
Era però l'anno del record degli 11 Oscar di Ben-Hur - in seguito eguagliato da Titanic e da Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re - e A qualcuno piace caldo vinse solo la statuetta per i Migliori Costumi, ma solo perché all'epoca c'era ancora la divisione tra film a colori e film in bianco e nero, dato che la categoria A Colori... la vinse comunque Ben-Hur.
Il film di Wilder non ha un millimetro fuori posto e riesce a scatenare le risate come se fosse nuovo dopo sei decenni, grazie a quei miracoli che ogni tanto capitano nella Storia del Cinema per i quali tutto va come deve andare, ogni reparto lavora in maniera armonica con gli altri e cast e troupe sono in stato di grazia.
Una famosissima battuta del film dice che "Nessuno è perfetto".
Beh, mi sento di contraddirla: A qualcuno piace caldo lo è eccome.
Più d'una volta Rashomon è stato interpretato alla luce delle riflessioni di Luigi Pirandello, del suo celebre relativismo, e ciò è di norma accaduto nelle aree in cui il pensiero del drammaturgo ha ben attecchito, patria in primis.
Come ha sottolineato Lorenza Guerra, riflettendo appunto sulla pluralità dei punti di vista del film, Pirandello e Riūnosuke Akutagawa, autore dei due racconti a cui si è ispirato Akira Kurosawa, sono da inquadrare nell'ottica di due contesti sì per certi versi - per nulla marginali - differenti, ma anche, senza forzature, irrimediabilmente segnati da quegli stravolgimenti che avrebbero tratteggiato parecchi contorni del (primo) Novecento occidentale, quello perlopiù modernista.
In questo senso il riferimento allo scrittore agrigentino è senza dubbio giustificato, anzi, a patto però che esso non soffochi né le specificità del milieu nipponico né la polifonia delle varie figure riconducibili - direttamente, tra l'altro - al modernismo, soprattutto quando alcune di queste risultano altrettanto correlabili, come minimo, a Rashomon.
Accolgo qui lo spunto di Jacques Lourcelles, critico francese che chiama in causa William Faulkner, romanziere statunitense attivo negli anni '30, tra le altre cose interessato in maniera sia pratica sia teorica al mezzo cinematografico, tanto di per sé quanto in rapporto alla letteratura (si veda il simil-montaggio alternato di alcune sue opere).
Il film di Kurosawa, vincitore sia del Leone d'oro sia di un Oscar, si fonda, com'è noto, sulla presentazione di un (non-)fatto da quattro prospettive contraddittorie.
Nel XII secolo, un bonzo, un boscaiolo e un vagabondo si accampano, in una giornata piovosa, sotto il portico di un tempio: lì ricordano un recente caso di cronaca che aveva visto coinvolti un samurai, sua moglie, un bandito e che si era concluso con l'uccisione del primo e lo stupro della seconda.
Allo spettatore ciò viene raccontato dalle ottiche dei tre protagonisti della vicenda e del boscaiolo, e già il gioco tra livello-cornice e livelli interni del film, tra riferimenti diretti e indiretti, tra immediatezze e mediazioni (il ruolo svolto da una medium, appunto, è emblematico), rivela un motivo metalinguistico, specie osservando la distribuzione dello screen time.
Il portico assume in tal modo un particolare valore figurato, così come la riproduzione in scena di certe meccaniche narrativo-enunciative o, ancora, il processo di traduzione visiva delle parole proferite dal trio esterno: il quartetto di punti di vista - che invero non corrisponde ad altrettante paternità del cineocchio - serve pertanto, faulknerianamente, come indica Lourcelles, "meno a sottolineare la vanità o la debolezza umana che a far sentire l'abisso che separa le parole e le cose, la soggettività e realtà".
In una pellicola che, in un modo o nell'altro, si smarca da un tradizionale concetto di oggettività, il paradossale dominio delle oggettive è di conseguenza uno dei modi attraverso cui Kurosawa interroga la celluloide e il fruitore.
In aggiunta, l'ambiguo tendere dell'impianto figurativo, dalle scenografie spesso disadorne alla dialettica luce-oscurità evocata dall'orientalista Keiko McDonald, verso l'astrazione - astrazione peraltro interpretabile in chiave psicanalitica e relata al panorama artistico novecentesco - permette di legare il Giappone del complesso periodo Heian a quello, malconcio, del 1950.
Permette cioè di comparare un passato e un presente neri e, infine, di conferire forza ad un finale che Kurosawa, anche sceneggiatore, non mutua da Akutagawa.
La filosofia, la scienza e soprattutto la religione si sono sempre poste questa domanda.
È tipico dell'essere umano strabuzzare gli occhi per guardare i luccichii provenienti da un futuro irrisolto, da cui nessuno fa ritorno.
Attorno a questo interrogativo ne ruotano altri, alcuni complementari altri per associazione indiretta, tra cui quella dell'esistenza di Dio.
In questo vespaio di domande esistenziali si colloca Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, trasposizione cinematografica della pièce teatrale Pittura su legno, scritta dallo stesso regista nel 1955.
Nella pellicola seguiamo il viaggio di ritorno verso casa del protagonista Antonius Block (Max Von Sydow) dopo le Crociate, accompagnato dal suo fedele scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) - entrambi gli attori hanno poi lavorato con il Maestro svedese in ben più di una pellicola - siamo nel Medioevo e il mondo è sconvolto dalla peste: la percezione della morte aleggia tra le strade e nelle case, presentandosi nella sua più concreta crudezza.
Di fronte a questa possibilità tanto palpabile della fine le reazioni sono molteplici e vanno dall’accettazione passiva dei dogmi religiosi all’abuso di potere delle cariche ecclesiastiche; ciò che al regista preme più di tutto, d’altro canto, è mostrare come i tormenti interni si rifrangano nel mondo esterno.
Il lirismo delle immagini e il concetto di angoscia raccolto a piene mani dalla filosofia di SørenKierkegaard tornano prepotentemente in tutta la filmografia del regista.
Nonostante il contesto storico il protagonista non è un fedele in senso classico, ma un uomo moderno che tenta nei più disparati modi di costruire uno schema logico attorno al suo sentimento religioso.
Repelle Dio, ma lo accoglie; l'amore, il dubbio, il disgusto si palesano come un conglomerato unico.
"Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi?
Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?
Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso?
Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore?
E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?"
La celebre scena iniziale, che trascende persino il gran successo del film e che è iconica anche per chi del Cinema non si interessa, vede Antonius Block giocare a scacchi con la personificazione della Morte.
È tempo di bilanci, di fare i conti con i numerosi quesiti e con le scelte compiute nel corso della propria esistenza - quelle sì, indifferenti alla possibile ingerenza esterna di una divinità.
Quello che è certo è che non si può dare scacco matto alla Morte: d’altra parte si può guardare a ciò che si è fatto in vita e nel senso delle piccole cose.
In quest’ottica è necessario l’avvicinamento del protagonista a Jof e Mia (Bibi Andersson, una delle muse di Bergman), una coppia di attori appena incontrata con cui condividerà del latte appena munto, le fragole appena raccolte e una parte del suo viaggio, metaforico e letterale.
A fare da contraltare alla figura di Antonius Block c'è proprio quella di Jöns, il suo scudiero, che invece si avvicina più al concetto dell’ateo moderno.
È blasfemo, irriverente, spudorato; per quanto le sue parole rivelino materialismo e disillusione – è palese nei confronti delle Crociate, guerre in nome di un Dio che non si è mai rivelato – spesso si trova a comportarsi come l’eroe della storia.
Non è un controsenso: non imbrigliato dalle corde del dubbio, Jöns mostra più di una volta il suo personale senso critico.
Il film fu presentato in concorso al 10° Festival di Cannes, dove vinse il Premio Speciale della Giuria ex aequo con I dannati di Varsavia di Andrezej Wajda.
Beh, l’alba degli anni ’50 ha illuminato la via per un decennio di Cinema a dir poco meraviglioso.
Nel 1950, infatti, il mondo ha fatto conoscenza con la storia del giovane e squattrinato soggettista Joe Gillis che, per fuggire dagli emissari di una società finanziaria, finisce per incrociare il proprio percorso di vita con quello di Norma Desmond, diva del Cinema muto ormai ritiratasi nella sua villa su Sunset Boulevard, Los Angeles.
L’opera è diretta con inarrivabile grazia dal geniale Billy Wilder, che l'ha anche co-sceneggiata con il produttore Charles Brackett, e mirabilmente fotografata in un bianco e nero da favola da John F. Seitz.
Gli eventi ci vengono narrati direttamente dalla voce del protagonista, la cui sorte è ben nota da subito: è suo il cadavere ritrovato nella piscina nelle primissime battute dell’opera.
Una scelta divenuta immancabile per l'intero genere noir.
Scoperta sin da subito la sua sorte, lo spettatore si ritrova catapultato in lunghissimo flashback che gli permette di concentrarsi sugli snodi, le motivazioni e i sottotesti di una vicenda che racchiude al suo interno una potentissima critica al sistema hollywoodiano, all'effimerità del successo e alla labilità della memoria collettiva.
Un’analisi sconvolgentemente lucida in chiave storica e sociologica del fenomeno-Cinema.
L'opera fotografa come mai prima l’effetto devastante del ricambio generazionale sulla Settima Arte e sui suoi interpreti.
Malgrado la sceneggiatura si soffermi sugli effetti del passaggio dal Cinema muto al sonoro - quel passaggio che Norma Desmond definisce come un “rimpicciolimento” del Cinema - l’amara morale della pellicola sembra sempre perfettamente attualizzabile.
Ogni aspetto di Viale del tramonto sembra dotato di un’assoluta potenza profetica e autocritica.
Non è un caso che gli anni ’50 siano stati l’ultimo decennio dorato per il Cinema classico hollywoodiano, prima della crisi dei primi anni ’60 dovuta al fallimento dello studio system e dello star system e all’avvento della televisione su vasta scala.
Viale del Tramonto sembra inoltre alimentarsi della sua stessa grandezza, grazie al monumentale lavoro meta-cinematografico che vi è alla base.
Gloria Swanson, interprete di Norma Desmond, aveva quel ruolo praticamente cucito sulla pelle: un'ex diva del muto che aveva girato un solo film (Papàprende moglie di Jack Hively) nei tre lustri precedenti.
Al contempo William Holden fu invece un ripiego - visti i rifiuti di Montgomery Clift, Fred McMurray, Marlon Brando e Gene Kelly – ma si rivelò l’interprete perfetto: ancora poco noto al grande pubblico, di una bellezza meno pronunciata e più discreta, dotato di una voce così ironicamente caratteristica.
Semplicemente perfetto per il ruolo dello sfortunato sceneggiatore sul lastrico.
Non a caso da quel momento in poi divenne uno degli attori preferiti dello stesso Wilder.
La scelta di un gigante del Cinema muto come il regista Erich von Stroheim nel ruolo del fedele maggiordomo Max von Mayerling è il tocco di classe che permette, in chiave meta-cinematografica, di discutere sullo stretto rapporto tra divi e registi, che prosegue anche quando la memoria del grande pubblico li ha cancellati.
Il resto del cast, innervato di divi del Cinema, registi, produttori e compositori divenuti grandi tanto nell’era del muto quanto negli anni del sonoro completa un affresco sontuoso, destinato a non perdere mai un briciolo della sua potenza eterna.
“Eccomi, DeMille, sono pronta per il mio primo piano!”
Non è solo una delle battute più iconiche della Storia: si tratta di un grido di dolore e di amore al tempo stesso verso il Cinema intonato da chi, inebriato dalla potenza della Settima Arte, ha perso il contatto con la realtà.
Un’ode che suggella un Capolavoro indimenticabile.