Nuovo appuntamento con le sadiche classifiche di CineFacts.it... e questa volta prendiamo in esame i film degli anni '70.
Sadiche perché, come ognuno può facilmente presumere, non è mai facile scegliere solamente 10 film per un decennio, e ogni volta in redazione si assiste a crisi di panico, tendenze suicide, casi di depressione e pianti isterici.
Da listoni giganteschi di oltre 50 pellicole, ognuno di noi - dopo contorsioni mentali improbabili e astrusi sistemi da schedina - è arrivato a una "shortlist" di 30 titoli.
Una volta realizzata l'impossibilità di depennare ulteriori 20 voci dall'elenco siamo stati colti da attacchi epilettici e crisi d'identità, abbiamo acceso dei ceri votivi a Stanley Kubrick per espiare eventuali mancanze nei suoi confronti e officiato un'ecatombe ad Andrej Tarkovskij perché Solaris e Stalker non sono entrati nella Top per un soffio.
Quindi no, non possiamo affermare che "nessun redattore è stato maltrattato per la realizzazione di questa Top 8".
Ma, come già accaduto per laclassifica del decennioappena trascorso, perquella degli anni 2000, perquella sugli anni '90 e l'ultima relativa agli anni '80, questo tipo di contenuti aiuta noi a fare il punto su che tipo di Cinema ci ha entusiasmato negli anni e magari può aiutare voi a riscoprire titoli finiti nel dimenticatoio, o a parlare dei film che avete amato e che qui non vedete citati.
O che magari vedete nelle prime posizioni.
Le classifiche non nascono con un'intenzione superba o classista: sono un modo come un altro per parlare di Cinema e come tali andrebbero affrontate e discusse, senza stracciarsi le vesti per la mancanza di tale titolo o inorridire per la presenza di un altro titolo.
[Solarisdi Andrej Tarkovskij: con soli 5 punti di scarto Io e Annie gli 'ruba' il posto in classifica]
Per un portale di informazione cinematografica italiano raccontare la realtà produttiva degli anni '70 oltre che un piacere è anche un onore, dato che il nostro paese in quel periodo specifico ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita e lo sviluppo del Cinema per come lo conosciamo oggi, influenzando in maniera determinante le produzioni americane (e non solo!) dell'epoca e degli anni successivi.
Gli anni '70 italiani, dopo il mirabile ciclo compiuto dal Neorealismo, sono quelli che videro affermarsi il 'Cinema di genere' nato nel decennio precedente e che continuò a declinarsi nel giallo e la commedia all'italiana, il thriller, l'horror, il poliziottesco.
Sono gli anni che segnano la definitiva consacrazione del lavoro del maestro Mario Bava, un autore che - nonostante la scarsità dei mezzi - fu in grado di muoversi agevolmente nel mondo del Cinema tutto, innovando, creando (a lui dobbiamo la nascita del filone slasher e del pulp) e aprendo la strada dell'orrore a registi come Lucio Fulci e Dario Argento.
Guardando solo a questi ultimi due nomi, senza spostarci dal decennio in esame, troviamo film come L'uccello dalle piume di cristallo, 4 mosche di velluto grigio, Profondo Rosso, Suspiria, Una lucertola con la pelle di donna, Non si sevizia un paperino, Sette note in nero e Zombi 2.
Basterebbe pensare a solo questi titoli (e a quelli che hanno originato con la loro influenza) per far tremare i polsi.
Ma nel Cinema italiano degli anni '70 c'è di più.
Gli autori nostrani godevano di sì tanta inventiva e sicurezza nei propri mezzi da affrontare gli americani sul quello che - fino ad allora - sembrava essere un territorio sacro e inviolabile, rimaneggiando un genere, sovvertendone canoni e stilemi fino alla creazione dei celeberrimi 'Spaghetti Western'- esplosi negli anni '60 con Sergio Leone, Sergio Sollima, Sergio Corbucci, Giuseppe Colizzi - che nei '70 vissero la loro 'seconda fase', per poi estinguersi negli anni '80.
E ancora, è il decennio dell'affermazione del concetto di 'autore' portato avanti dal Neorealismo: un demiurgo totale dell'opera con potere decisionale elevato, a discapito della vecchia immagine di 'regista' come semplice esecutore dei progetti orchestrati dalle case di produzione.
In questo senso, contestualmente al periodo preso in analisi, si possono citare - fra le tante - opere come Zabriskie Point e Professione: reporter di Michelangelo Antonioni; Il Decameron, Il fiore delle mille e una notte, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini; Il conformista, Ultimo tango a Parigi, La luna di Bernardo Bertolucci; Amarcorddi Federico Fellini.
[Aguirre/Klaus imbronciato perché, nonostante i tanti punti conquistati, resta fuori dalla classifica finale]
A prescindere della natura delle pellicole, fosse essa allegorica o votata al realismo, il Cinema degli anni '70 - seguendo i dettami lasciati in eredità da Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Luchino Visconti - era votato a essere uno specchio della realtà, una denuncia della condizione dell'essere umano e delle cricità della società dell'epoca.
Seguendo questo ragionamento è necessario ricordare il caso del 'Cinema verità' (o 'd'inchiesta') di Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Nanni Loy, Elio Petri.
O le pellicole sociali dai titoli interminabili di Lina Wertmüller.
Checché ne dicano gli storici del Cinema più snob, questa signora romana, solo negli anni '70, partorì pellicole iconiche come Mimì metallurgico ferito nell'onore, Travolti da un insolito destino nell' azzurro mare d'agosto, portò alla candidatura a ben 5 Premi Oscar il suo Pasqualino Settebellezze.
Lina girò anche il film con il titolo più lungo della Storia del Cinema (oh sì, ora ve lo cuccate tutto): Un fatto di sangue nel comune di Siculiana fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici. Amore-Morte-Shimmy. Lugano belle. Tarantelle. Tarallucci e vino.
Assimilata la lezione del 'vecchio continente', anche gli States videro la proliferazione di produzioni indipendenti, la nascita di autori 'forti', artefici del proprio destino con licenza di final cut, oltre alla diffusione di pellicole che raccontavano la tumultuosa quotidianità dell'America con stili e toni differenti, utilizzando anche la leva del 'genere' appresa dai Maestri italiani.
Sono gli anni dei protagonisti fragili e problematici, delle narrazioni revisioniste dei reduci della guerra contro Charlie in Vietnam, ma anche di contesti più lontani come l'ottica inconsueta utilizzata per raccontare lo sterminio degli Indiani d'America in Soldato bludi Ralph Nelson.
Gli anni della New Hollywood che rinnegherà i tabù precedenti, sdoganando il turpiloquio, mostrando immagini di sessualità esplicita, i disagi della società americana e i soprusi patiti dalle donne e dalle minoranze etniche del paese.
I '70 sono gli anni dell'esplosione di registi come Martin Scorsese, Robert Altman, Brian De Palma, Francis Ford Coppola, Michael Cimino, Woody Allen, Steven Spielberg, Ridley Scott e George Lucas; della consacrazione per Hal Ashby, Sam Peckinpah, Sydney Pollack, Mike Nichols, Arthur Penn.
In questo decennio, come vedremo in classifica, si incastonano due perle del solito Stanley Kubrick quali Arancia meccanica e Barry Lyndon, finite per direttissima nella nostra selezione finale.
Dieci anni che hanno visto l'esordio alla regia di nomi che hanno plasmato il Cinema mondiale e che per la maggior parte continua a farlo ancora oggi.
Qualche esempio?
Steven Spielberg, David Lynch, Ridley Scott, John Carpenter, Béla Tarr, George Lucas, Robert Zemeckis, George Miller, Hayao Miyazaki, Terry Gilliam, Walter Hill, Abbas Kiarostami, Jonathan Demme, Oliver Stone, John Landis, Terrence Malick, Clint Eastwood, Mike Leigh, Theodoros Angelopoulos, Dario Argento, Paul Verhoeven, Peter Weir, Ralph Bakshi, Don Bluth, Wes Craven...
E ancora, Nikita Mikhalkov, John Waters, John Woo, Krzysztof Kieślowski, Alan Parker, Atom Egoyan, Alexander Sokurov, Jackie Chan, Abel Ferrara, Tsui Hark.
Nomi che a leggerli di fila mettono i brividi.
[Ebbene sì: anche loro fuori dai giochi. Suvvia, non piangete... BLUCHER!]
'Anni '70 della nuova Hollywood' significa anche il fenomeno del divismo americano, quello che - sulla falsa riga di quello italiano dei 'mostri' Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Gian Maria Volonté - originò un Olimpo di attori e attrici che dominarono i set di quel decennio e, alcuni di loro, anche di quelli successivi.
Robert De Niro, Dustin Hoffman, Al Pacino, Jack Nicholson, Robert Redford, Gene Hackman, Warren Beatty (con Marlon Brando a fare da 'ponte' con la Hollywood classica) per gli uomini; Meryl Streep, Mia Farrow, Diane Keaton, Glenn Close, Faye Dunaway, Sally Field, Glenda Jackson, Jane Fonda, Gena Rowlands per le signore.
Non solo, perché gli anni '70 hanno spostato molti attori hollywoodiani dietro la macchina da presa, in una sorta di proseguimento di ciò che la Nouvelle Vague in Francia aveva professato nel decennio precedente.
A partire dai nomi famosi ancora oggi di Ron Howard e Warren Beatty, negli anni '70 hanno diretto il loro primo film personaggi come Shirley MacLaine, Peter Fonda, Jack Lemmon, Jack Nicholson, Gene Wilder, Burt Reynolds, Marty Feldman, George Peppard, Vic Morrow, David Hemmings, Charlton Heston, Bruce Lee, Sidney Poitier, George C. Scott, Kirk Douglas...
Il Cinema era definitivamente cambiato: gli Studios non avevano più in mano il potere egemone detenuto fino a pochi anni prima.
La rivoluzione era cominciata.
[Eh già, ci siamo permessi di lasciare fuori anche un certo Orson Welles e il suoF come falso - Verità e menzogna(1973)... che il Signore abbia pietà delle nostre anime perverse]
Il calderone degli anni '70 è talmente grosso e colmo di Cinema da rischiare di dimenticare che in questo decennio si consolidò la poetica di un certo David Cronenberg(con Il demone sotto la pelle, Rabid - Sete di sangue e Brood), avvennero gli esordi dei 'papà' del Neuer Deutscher Film (Nuovo Cinema Tedesco) Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders o ci fu l'uscita in sala di quella meraviglia di Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure(1975) di Akira Kurosawa, premio Oscar al Miglior Film in Lingua Straniera nel 1976.
La casa di Mickey Mouse, con l'uscita nelle sale de Gli Aristogatti (1970), Robin Hood (1973), Le avventure di Bianca e Bernie (1977), si addentrava in una sorta di "Medioevo Disney", chiudendo per sempre l'era dei grandi classici firmati da "papà Walt", scomparso nel 1966.
Il campione preso in esame, lo abbiamo visto, è vastissimo, quindi vi esortiamo a non scandalizzarvi se in classifica (o in questa introduzione) mancasse questo o quel titolo: noi abbiamo fatto del nostro meglio, operando scelte difficilissime costruite su lacrime sudore e sangue di ogni redattore.
Con 74 film votati, ci auguriamo che questa Top 8 possa essere fonte di consigli, e che lo possano essere anche tutte le classifiche personali che tra poco potrete leggere prima della selezione finale.
Ovviamente, aspettiamo i vostri commenti, opinioni e soprattutto le vostre classifiche dei Migliori Film tra il 1970 e il 1979.
[Introduzione di Adriano Meis e Teo Youssoufian]
[I diavoli(1971), cult visionario del britannico Ken Russell: votato da alcuni di noi, ma... non ce l'ha fatta]
Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.
Le regole imposte erano due:
- i film devono essere prodotti tra il 1970 e il 1979
- si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno
Ne è uscito un totale di 74 film ai quali si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori:
Francesco Amodeo
Apocalypse Now (1979)
Barry Lyndon (1975)
Professione: reporter (1975)
Arancia meccanica (1971)
Il padrino (1972)
Stalker (1979)
La conversazione (1974)
Io e Annie (1977)
Solaris (1972)
Taxi Driver (1976)
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Emanuele Antolini
Il padrino (1972)
Apocalypse Now (1979)
Il cacciatore (1978)
Taxi Driver (1976)
Il padrino - Parte II (1974)
Arancia meccanica (1971)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Io e Annie (1977)
Carrie - Lo sguardo di Satana (1976)
Halloween (1978)
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Marco Batelli
Il padrino (1972)
Alien (1979)
Effetto notte (1973)
Manhattan (1979)
Una giornata particolare (1977)
La paura mangia l’anima (1974)
Barry Lyndon (1975)
Lo squalo (1975)
Taxi Driver (1976)
Stalker (1979)
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Simone Braca
Taxi Driver (1976)
Io e Annie (1977)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Barry Lyndon (1975)
Stalker (1979)
Apocalypse Now (1979)
Il fascino discreto della borghesia (1972)
Quinto Potere (1976)
Il cacciatore (1979)
Il padrino (1972)
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Fabrizio Cassandro
Sussurri e grida (1972)
Solaris (1972)
Arancia meccanica (1971)
L’Inquilino del terzo piano (1976)
Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno (1973)
Fantasie di una tredicenne (1970)
La Ragazza del bagno pubblico (1970)
Nosferatu (1979)
Effetto notte (1973)
La classe operaia va in paradiso (1971)
[La maledizione delle Top di decennio di David Lynch prosegue: nonostante i 4 votanti, Eraserheadè out]
Simone Colistra
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Eraserhead (1977)
L’inquilino del terzo piano (1976)
Solaris (1972)
Manatthan (1979)
Barry Lyndon (1975)
La montagna sacra (1973)
I giorni del cielo (1978)
Apocalypse Now (1979)
Suspiria (1977)
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Tommaso Drudi
Taxi Driver (1976)
L'esorcista (1973)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977)
Il cacciatore (1978)
Amarcord (1973)
Il padrino (1972)
L'ultimo spettacolo (1971)
Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975)
Alien (1979)
La rabbia giovane (1973)
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Morena Falcone
Il cacciatore (1978)
Apocalypse Now (1979)
Taxi Driver (1976)
Il padrino (1972)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)
La classe operaia va in paradiso (1971)
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976)
Frankenstein Junior (1974)
Amarcord (1973)
Arancia meccanica (1971)
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Fabrizio Fois
Il padrino (1972)
Arancia meccanica (1971)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
F come falso - Verità e menzogna (1973)
Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto (1974)
Amici miei (1975)
Carrie - Lo sguardo di Satana (1976)
Io e Annie (1977)
M*A*S*H (1970)
Halloween (1978)
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Jacopo Gramegna
Il padrino (1972)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Eraserhead (1977)
Sussurri e grida (1972)
Arancia meccanica (1971)
La grande abbuffata (1973)
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)
I diavoli (1971)
Il conformista (1970)
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Lens Kuba
Barry Lyndon (1975)
Chinatown (1974)
La clessidra (1973)
Stalker (1979)
I diavoli (1971)
Il fascino discreto della borghesia (1972)
Il pianeta selvaggio (1973)
Il padrino (1972)
Solaris (1972)
Eraserhead (1977)
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Adriano Meis
Il padrino (1972)
Apocalypse Now (1979)
Aguirre, furore di Dio (1972)
Eraserhead (1977)
Oltre il giardino (1979)
Frankenstein Junior (1974)
La rabbia giovane (1973)
Picnic ad Hanging Rock (1975)
Prima pagina (1974)
Zombi 2 (1979)
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Sebastiano Miotti
Taxi Driver (1976)
Stalker (1979)
Effetto Notte (1973)
Lo squalo (1975)
Io e Annie (1977)
Solaris (1972)
L'esorcista (1973)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
I giorni del cielo (1978)
Zabriskie Point (1970)
["Certi romanes vanno la casa?!"... Che in una redazione cinematografica non ci sia nessuno che voti Brian di Nazareth (1979) è impossibile... sarebbe... VISIBILE!]
Natasha Nussenblatt
Arancia meccanica (1971)
L’esorcista (1973)
Apocalypse Now (1979)
L’inquilino del terzo piano (1976)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977)
Suspiria (1977)
Carrie - Lo sguardo di Satana (1976)
Barry Lyndon (1975)
Taxi Driver ( 1976)
Guerre stellari (1977)
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Nadia Pannone
Apocalypse Now (1979)
Il padrino (1972)
Il padrino - Parte II (1974)
Taxi Driver (1976)
Io e Annie (1977)
Una giornata particolare (1977)
Tre donne (1977)
Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975)
Picnic ad Hanging Rock (1975)
L'inquilino del terzo piano (1976)
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Yorgos Papanicolaou
Apocalypse Now (1979)
Arancia meccanica (1971)
Aguirre, furore di Dio (1972)
El topo (1970)
La montagna sacra (1973)
Stalker (1979)
Io e Annie (1977)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)
I duellanti (1977)
Pasqualino settebellezze (1975)
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Pierluca Parise
Arancia meccanica (1971)
Apocalypse Now (1979)
Il piccolo grande uomo (1970)
Barry Lyndon (1975)
L’uomo che amava le donne (1977)
Aguirre, furore di Dio (1972)
Taxi Driver (1976)
Guerre stellari (1977)
Il cacciatore (1978)
Il fascino discreto della borghesia (1972)
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Daniele Sedda
Apocalypse Now (1979)
Alien (1979)
Quinto Potere (1976)
Il padrino (1972)
Taxi Driver (1976)
Il cacciatore (1978)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)
Arancia meccanica (1971)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977)
Frankenstein Junior (1974)
[Ci serve una classifica più grossa!]
Angelo Tartarella
Frankestein Junior (1974)
Quinto potere (1976)
Robin Hood (1973)
Gli Aristogatti (1970)
Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974)
Monthy Python e il Santo Graal (1975)
Pomi d’ottone e manici di scopa (1971)
Io e Annie (1977)
Alien (1979)
Il cacciatore (1978)
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Jacopo Troise
Apocalypse Now (1979)
Taxi Driver (1976)
Il padrino - Parte II (1974)
Barry Lyndon (1975)
Il cacciatore (1978)
Una moglie (1974)
F come falso - Verità e menzogna (1973)
Aguirre, furore di Dio (1972)
Solaris (1971)
Allonsanfàn (1974)
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Teo Youssoufian
Apocalypse Now (1979)
Taxi Driver (1976)
Barry Lyndon (1975)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)
Il cacciatore (1978)
Frankenstein Junior (1974)
L’esorcista (1973)
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Guerre stellari (1977)
Nashville (1975)
1 di 8
Posizione 8
Io e Annie
di Woody Allen, 1977
“Beh, che volete, era la prima commedia... sapete come si cerchi di arrivare alla perfezione almeno nell'arte, perché è talmente difficile nella vita.”
New York, 1969. Sandy Meisner, uno stimato professore di recitazione che aveva già scoperto talenti incredibili nella “sua” prestigiosa Neighborhood Playhouse, parla con un produttore teatrale, David Merrick.
C’è una ragazza, gli dice, che è sensazionale. Un talento attoriale fuori dal comune.
Appena entra in scena, è come se tutti gli altri migliorassero di colpo.
Il signor Merrick ascolta interessato: in quel periodo ha un progetto per le mani, una commedia affidata un affidabile regista di teatro, Joe Hardy.
La commedia però non l’ha scritta lui, ma uno stand-up comedian che sta provando a farsi strada nel mondo del Cinema: pochi mesi prima è uscito il suo primo film da regista, ed ha avuto un discreto successo.
Si chiama Allan Stewart Königsberg, ma forse lo conoscete meglio col nome di Woody Allen. La commedia in questione sarà Provaci ancora, Sam.
Lei invece si chiama Diane Hall, ma c’è un problema.
A quanto pare c’è già un’attrice si chiama così, e al sindacato le omonimie non piacciono. Cambierà allora il nome, e resterà alla storia come Diane Keaton. Inutile dire che ottiene immediatamente la parte. È troppo brava, non c’è paragone con le altre che si presentano ai provini.
Sandy Meisner ci aveva visto giusto: è semplicemente una delle più grandi attrici di ogni tempo.
I due si piacciono da subito.
Allen ha da poco divorziato dalla seconda moglie (la grande Louise Lasser, protagonista di quello splendido gioiellino che è Il Dittatore dello stato libero di Bananas) e rimane irrimediabilmente affascinato da Annie, come la chiamava affettuosamente lui. Inizieranno a frequentarsi, e nascerà uno dei sodalizi più iconici della storia del Cinema.
Contrariamente a quanto si creda, il loro rapporto sentimentale durerà relativamente poco, perché lei si trasferisce in California, sua terra d’origine… e di Hollywood: avrà anche una parte nel mastodontico capolavoro di Francis Ford Coppola, Il padrino.
Ma i due rimarranno amici, ed il legame professionale – per nostra fortuna – durerà ancora a lungo. Allen girerà con lei molti altri film: la vediamo giganteggiare in Amore e Guerra, la vediamo fornire tra le altre cose una straordinaria imitazione di Marlon Brando ne Il Dormiglione, e poi… e poi c’è Io e Annie.
Pensate che il film non doveva neppure chiamarsi così: il primo titolo proposto fu Anedonia, vale a dire incapacità di provare piacere. Ma non era un titolo commerciale, e quelli della United Artists lo fecero presente con convincente forza persuasiva.
Doveva essere un flusso di coscienza, fu una storia d’amore. Woody Allen, che è sempre stato molto auto-critico, nella sua recente ed interessante biografia ne parla come “l’ennesima idea geniale che non resse alla prova dei fatti”.
Sarà, ma come direbbe lui… è una delle migliori.
La trama è insolitamente familiare. Un uomo, doppiamente divorziato e comico di professione, intraprende una relazione sentimentale con una donna che viene dalla provincia, che parla per ore senza mai annoiare, e che veste in maniera così stravagante che viene da pensare che “il suo personal shopper sia Buñuel”. Dimenticavo: lei si chiama Annie, e di cognome fa Hall.
Ma se è vero che nulla più di un’opera d’arte ci rende consapevoli di appartenere ad una stessa umanità, e di condividerne speranze e patimenti, allora forse quella storia può diventare anche la storia di qualcun altro. Forse abbiamo giocato con le stesse aragoste.
Il fatto è che il film è scritto talmente bene che il sapore di quelle aragoste sembra riaffiorare nel palato come se le avessimo mangiate da pochi minuti.
E non è finita qui: c’è New York, la satira politica, la corruzione derivante dal successo, la messa in ridicolo dell’intellettualismo tronfio, l’esasperazione, la rottura della quarta parete, la decadenza della morale borghese, il montaggio temporale non lineare, la zia che aveva personalità, l’esasperazione dei rapporti umani, il grottesco, la commozione.
Per ognuno di questi termini sarebbe possibile scrivere un articolo a sé. Si tratta semplicemente di uno dei film più belli e stimolanti della storia.
C’è Woody Allen.
C’è Diane Keaton.
Ci sarebbero anche quattro PremiOscar, per la migliore attrice protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior regia e miglior film.
Ma, la sera della premiazione, c’era anche un concerto jazz…
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri,1970
Annata d'oro il 1970 per il Cinema italiano: lo stesso anno escono nei cinema Il conformista, tra i migliori lavori di Bernardo Bertolucci, L'uccello dalle piume di cristallo, esordio cinematografico di Dario Argento, e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, pietra miliare del cinema politico italiano, con cui il regista Elio Petri si porta a casa un Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera e il ben più prestigioso Grand Prix della giuria al Festival del Cinema di Cannes.
Indagine ha tutto ciò che serve a un film per lasciare un segno nel tempo: una scrittura stratificata e con diverse chiavi di lettura, una regia sapiente e misurata, un tema importante e incredibilmente radicato nel tempo e nella società di allora come nella società di oggi, e in ultimo un'interpretazione tra le migliori della storia del cinema italiano, quella del Dottore interpretato da Gian Maria Volonté.
La storia, quella di un commissario di polizia che uccide la propria amante (una splendida Florinda Bolkan), non è altro che un pretesto per analizzare gli effetti dell’uso permanente del potere sulle persone.
Lo stesso Petri la definiva nevrosi del potere, ovvero quella condizione schizofrenica dell’autorità che si divide tra la corsa al raggiungimento della giustizia e la tendenza ad auto-assolversi, ad essere compiacente con sé stessa, a sentirsi sacra e intoccabile.
In un contesto storico di forte tensione sociale a seguito della strage di Piazza Fontana e della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, il film si fa portatore di temi scomodi che fanno paura anche oggi, osservando l'attualità del tema (il caso di Stefano Cucchi raccontato in Sulla mia Pelle è il più recente esempio della rappresentazione violenta e criminale della polizia).
Infatti, alla sua uscita, Indagine fece un gran scalpore perché mise in scena uno spietato atto d’accusa nei confronti dei metodi e della formazione ideologica degli organi di polizia, trovando il coraggio in un periodo teso come quello degli anni di piombo e dei movimenti studenteschi di accostare l'ordine costituito a parole, pensieri e idee di matrice fascista - anche se nessuno, nel film, lo dice ad alta voce.
La situazione presentata dal film è ovviamente grottesca, caricaturale, portata agli estremi, contraddittoria.
Eppure il messaggio è chiaro, e cioè che secondo Petri chi esercita il potere finisce per trovare rifugio solo nel potere stesso, incapace di sentirsi soggetto alla legge e anzi vuole sentirsi al di sopra dei giudizi morali della società che controlla.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un capolavoro del Cinema italiano e mondiale, che in un periodo di grandi tensioni ha messo in dubbio l'autorevolezza, l'imparzialità e la buona fede degli organi di giustizia, attirandosi dietro le ire di mezza classe dirigente italiana ma mettendo l'accento su un dilemma etico che interessa la vita del paese anche 50 anni dopo la sua uscita.
“Ma di cosa vuoi ancora aver paura dopo questa guerra?”
Il Cacciatore di Michael Cimino è tra le opere che ha dato il via al filone dei film riguardo quella che fu una tra le più vergognose pagine della storia americana: la guerra del Vietnam.
La storia vede come protagonisti un gruppo di amici, alcuni dei quali in procinto di partire in guerra, altri che invece resteranno nella cittadina di Clairton, Pennsylvania, continuando a lavorare nell’acciaieria locale.
Chi partirà tornerà completamente cambiato, con cicatrici più o meno visibili che porterà con sé per il resto della sua vita.
Chi resterà non riuscirà a comprendere a pieno, a riconoscere gli amici che hanno fatto ritorno.
L’orrore della guerra, la perdita della propria identità, giusto e sbagliato che si confondono, ormai svuotati del loro significato: Il Cacciatore ci fa rendere conto di quanto il Vietnam sia stato, oltre che fisicamente, psicologicamente devastante per tutti coloro che vi si trovarono coinvolti.
E il tutto senza mostrare vere e proprie scene di guerra.
Perché in realtà non serve guardare direttamente i corpi carbonizzati dal Napalm, le fucilazioni, i bombardamenti non è indispensabile tutto questo per percepire l’orrore provato dai soldati: alla guerra fatta di fuoco e sangue si sostituisce quella interiore di tutti i nemici di Charlie.
Momenti di vita quotidiana, relazioni, riflessioni pre Vietnam, vengono mostrati ed esposti allo spettatore lasciando che si immedesimi nei personaggi, che si senta parte del gruppo, al sicuro in una confortante situazione famigliare, per poi distruggere questa sensazione di riparo lasciandolo senza più punti di riferimento e certezze.
Gioiamo con il gruppo di amici e con tutti gli invitati nella lunghissima scena del matrimonio tra Steven (John Savage) e Angela (Rutanya Alda), l’ultimo momento di spensieratezza prima di essere catapultati nell’acqua putrida di un fiume, rinchiusi in una gabbia con Michael (Robert De Niro), Nikanor (Christopher Walken) e lo stesso Steven, tutti tenuti prigionieri dai Viet Cong.
Passiamo dalle spensierate risate tra amici sulle note di Can’t Take My Eyes Off You di Frankie Valli, tra un colpo di biliardo e una birra, a un funebre inno americano, un God Bless America poco più che sussurrato da quelli che in qualche maniera sono tornati in patria, ma la cui inadeguatezza stride mostrando tutta la triste ironia del momento.
Siamo sconvolti dall’iniziale terrore provato da Mike e Nick mentre vengono costretti al gioco della roulette russa, terrore di cui scopriremo poi la trasformazione in indifferenza o forse, meglio, quasi dipendenza dal momento che l’unico modo per sentire ancora qualcosa in questa esistenza vuota e, ormai, senza più emozioni, è giocare con la propria vita.
La roulette russa come dose di adrenalina.
“One shot.”
Un colpo solo.
La caccia non è solo un hobby o uno sport, ma maestra di vita e la ritroviamo sotto svariate forme per tutto il film.
La filosofia del colpo solo influenza la sfera d’azione dei protagonisti: uno stesso concetto che, in base al momento, assume diversi significati.
È lealtà, il voler agire ad armi pari con l’avversario, quando vediamo Mike dare per la prima volta la caccia ad un cervo con un solo colpo nella canna del fucile; è la brutalità della guerra nella prima scena della roulette russa, quell’attimo che, senza una precisa logica, abbandonando ogni sentimento umano di empatia, può decidere che farai ancora parte di questo mondo o non esisterai più.
È la disillusione cha preso il comando di ogni istinto alla sopravvivenza nell’indimenticabile scena finale in cui, a puntarsi nuovamente una pistola sulla tempia, è un Nick senza più nulla di umano a tenerlo in vita, dimentico di tutto ciò che un tempo arricchiva la sua vita e lo rendeva umano.
Tre minuti che celebrano l’amicizia e fin dove un amico può spingersi in nome di essa, per salvare un suo fratello.
Tre minuti di Recitazione in cui il coinvolgimento è totale ed il mondo reale lo dimentichiamo completamente.
Tre minuti in cui Robert De Niro e Christopher Walken ci rapiscono portandoci in quell’assurdo e dimenticato pezzo di Vietnam fatto di urla, fumo e banconote.
Tra gli indimenticabili che hanno sicuramente contribuito a rendere Il Cacciatore un pezzo fondamentale di Cinema, John Cazale, interprete di Stosh, uomo un po’ schivo, un po’ vigliacco, che vuole colmare un costante senso di inferiorità brandendo irresponsabilmente una pistola.
Meryl Streep interpreta Linda, una donna toccata dalla guerra in maniera indiretta, confusa dai sentimenti nei confronti di chi parte, di chi torna o non torna, che non riesce a darsi pace per la mancanza di certezze e stabilità emotiva, cose che ha sempre cercato nella sua vita ma forse non ha mai avuto.
La parte le valse la sua prima nomination agli Oscar come Migliore Attrice non Protagonista.
Tra le colonne sonore Cavatina, il tema che viene ripetuto più volte durante tutto il film e che è frutto della collaborazione tra i compositori Stanley Myers e John Williams: dolcezza e malinconia tradotte in note che abbracciano la fotografia del maestro Vilmos Zsigmond.
Un trionfo all’edizione degli Oscar del 1979: quattro nomination e cinque vittorie tra cui Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio e Migliore Attore non Protagonista a Christopher Walken per quella che probabilmente è la miglior interpretazione di tutta la sua carriera.
“Fare un film non è fotografare la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà”
In questa frase Stanley Kubrick riassume tutta la sua idea di Cinema, ossia quella forza motrice che ha permesso che i suoi lungometraggi vengano tutt’ora studiati fotogramma per fotogramma come se fossero opere d’arte.
Tra questi, Barry Lyndon è quello che forse più si avvicina a una composizione di arte pittorica che a una ripresa di immagini in movimento.
Ogni inquadratura assomiglia in tutto e per tutto a un quadro di John Constable o William Turner: l’attenzione al dettaglio è da certosino, l’obiettivo è posto centralmente al fine di dare proporzioni simmetriche alle immagini, la luce è quasi sempre naturale.
Tutto questo è dovuto alla famosa maniacalità che caratterizza il lavoro del regista newyorkese, la quale non solo lo portava a impiegare anni in ricerche per le scenografie e i costumi (in questo caso Ken Adams e Milena Canonero vinsero l’Oscar nelle rispettive categorie), ma lo spingeva a lanciarsi nella sperimentazione pur di raggiungere il risultato desiderato.
Infatti, al fine di rendere davvero autentiche le ambientazioni del XVIII secolo del film, Kubrick e il direttore della fotografia John Alcott (anche lui premiato con l’Oscar) decisero di utilizzare il più possibile la luce naturale per gli esterni e quella dei lumi per gli interni.
Per fare ciò venne adattato e montato sulla cinepresa un obiettivo prodotto dalla Zeiss e utilizzato dalla NASA per scattare foto satellitari.
Grazie a questo strumento visivo totalmente innovativo oggi si ha la possibilità di ammirare delle inquadrature che provocano nello spettatore come minimo la sindrome di Stendhal.
Ma tale meticolosità non limita il piacere solo agli occhi, anche le orecchie si godono la loro parte: le musiche di Mozart, Handel, Bach, Paisiello, Vivaldi e Schubert sono state minuziosamente selezionate per accompagnare armonicamente ogni singola immagine.
Il regista si serve dell’omonimo romanzo di William Thackeray per riproporre i tópoi tipici della sua tematica cinematografica. Redmond Barry (Ryan O’Neal) non è altro che un uomo che viene spinto dalla recente società capitalista a considerare il materialismo come unico valore morale e quindi a farsi furbo per migliorare la propria condizione sociale.
Una volta raggiunto questo obiettivo con l’acquisizione di un titolo nobiliare attraverso le nozze con la nobile vedova Lady Lyndon (Maria Berenson), subentra il tema del doppio tanto caro a Kubrick: da una parte l’identità originale, dall’altra quella legata al rango, al potere e al denaro. Le due sfere sono inconciliabili e Redmond Barry Lyndon lo capisce sulla propria pelle. A mio avviso, non vedere una critica alla società moderna e alle sue classi dominanti è praticamente impossibile.
Inoltre, questo punto invita anche a una considerazione nichilista tipica del regista americano.
Per quanto il protagonista provi a diventare ciò che non è, le sue azioni non sono mai sufficienti a fargli prendere il pieno controllo del corso del proprio destino. Più cerca di trasformarsi e più rimane sé stesso, più si allontana dalle proprie origini e più ci ritorna inesorabilmente.
Redmond rappresenta quindi la natura umana in tutti i suoi limiti, compresi quelli del mondo che la circonda.
Questa dunque è la fotografia della realtà che Kubrick, attraverso un capolavoro chiamato Barry Lyndon, ha fotografato in maniera impeccabile.
Cosa abbiamo qui se non uno dei grandi capolavori cinematografico-letterari del secolo scorso?
Era il 1945 quando un vecchio cockney seduto in un pub londinese apostrofò un tizio che conosceva affermando che fosse 'sballato come un'arancia a orologeria'.
A qualche sgabello di distanza sorseggiava una pinta uno scrittore in erba - tal Anthony Burgess - il quale, sentita l'espressione popolar-surreale, decise che prima o poi l'avrebbe utilizzata come titolo per il suo futuro romanzo basato sul concetto di 'lavaggio del cervello'.
Circa vent'anni dopo, nel 1962, usciva nelle librerie Arancia meccanica.
La Storia dell'Arte è fatta di corsi e ricorsi dettati dal destino e, anche in questo caso, non v'è eccezione alcuna: lo spunto determinante per due delle opere più importanti del XX secolo fu originato da un ubriaco al bar.
Il binomio Burgess-Kubrick è quello che determinò il destino di Arancia meccanica, uno degli adattamenti più riusciti della Storia del Cinema, come sottolineato dall'autore dell'opera originale che rimase assolutamente soddisfatto dal lavoro del regista americano.
Quella raccontata in A Clockwork Orangeè la storia di Alexander 'Alex' DeLarge (Malcom McDowell), un giovane modellato sullo stampo utilizzato dalla stampa britannica degli anni '50, la quale dipingeva i ragazzi dell'epoca come criminali portatori di una crescente - e immotivata - violenza che dilagava nelle strade della capitale del Regno Unito.
Alex e i suoi malcicchi, i drughi, si producono nelle peggiori nefandezze che l'essere umano possa immaginare: camminano in una Londra distopica e spaventosa abbeverandosi di latte allungato con simpatiche drogucce mescaline, somministrano il dolce su e giù ("birba, birba, birba vecchi sporcaccioni!") e si esibiscono nel numero 'visita a sorpresa' in compagnia dell'amata ultraviolenza.
Il vecchio capodrugo, tuttavia, non è una vittima del sistema, non è il prodotto finale di una società che lo ha reso malvagio: la sua cattiveria è atavica, completamente innata e dettata dalla sua natura di essere umano; le sue azioni, per quanto criminali e mostruose, sono esplicative delle potenzialità del suo gulliver di scimmia evoluta a Homo Sapiens Sapiens.
Solo, utilizzate nel modo sbagliato.
Alex rappresenta lo specchio dell'umanità in tre modi: è aggressivo, ama la bellezza e si serve del linguaggio.
Tutto in modo molto karascho.
La cura Lodovico, il tentativo di recupero attivato dalla società in cui vive, i fallimenti del suo non-nucleo familiare sono le maldestre (e inutili) ricerche di cura per una "malattia umana" dalla quale non può e non vuole guarire: la violenza.
Violenza che è denunciata dalle pagine di Burgess e dal film di Kubrick, condannata e mestamente accettata tanto quanto lo sono i concetti di indifferenza, sensibilità morbosa ed eccessiva fiducia nelle strutture governative.
Il dolore porta alla ribellione. L'inquietudine genera arte.
Su questi concetti è fondata la New Hollywood, quella fantasmagorica rivoluzione culturale che ha travolto Hollywood tra il '67 e la metà degli anni '80.
Su questi concetti è fondato anche uno dei manifesti di quell'irripetibile momento storico della Storia del Cinema: Taxi Driverdi Martin Scorsese.
Nella parabola di Travis Bickle, reduce del Vietnam alienato e solitario che cura la propria insonnia facendo il tassista nelle oscure notti newyorkesi, è contenuto l'intero respiro vitale sotteso al suo momento storico e artistico.
Un periodo in cui l'America aveva perso buona parte della propria innocenza ed era divenuta sufficientemente matura da poter riconoscersi in un antieroe.
Un momento in cui gli autori erano in grado di maneggiare il genere, riscriverne le regole e deformarlo per dare voce alle proprie inquietudini.
Un'epoca in cui non c'era spazio per alcuna pacificazione.
Taxi Driverimpatta il mondo della settima arte come un meteorite e ne cambia definitivamente le regole.
La sceneggiatura di Paul Schrader - universalmente riconosciuta come una delle più influenti della Storia del Cinema - fotografa il ritratto di una generazione di uomini a cui erano stati strappati i sogni e la tranquillità del presente, lasciando convergere tematiche care all'esistenzialismo europeo, da Jean-Paul Sartre a Fëdor Dostoevskij passando per Albert Camus, e fatti di cronaca.
Il ritratto di Travis Bickle, interpretato da un Robert De Niro all'apice della carriera e in una delle massime espressioni del suo talento, è stato in grado cambiare definitivamente la concezione che Hollywood aveva dei protagonisti delle proprie opere. I chiaroscuri dell'animo di Travis, i suoi squarci di follia e il suo completo scollamento da ogni contesto sociale fino a quel momento accettato erano qualcosa che, fino a quel momento, non si era mai visto.
Quella New York dilaniata e violenta, microcosmo degli interi Stati Uniti, in cui prostitute bambine, lenoni, politici e attivisti si susseguono senza soluzione di continuità è divenuta un topos vero e proprio della letteratura cinematografica, citato più e più volte da opere successive.
L'estetica di Scorsese ha incorniciato così un'opera tra le più tetre, rivoluzionarie e rilevanti del decennio, vincendo la Palma d'oro al Festival del Cinema di Cannes e consegnando definitivamente il suo autore all'Olimpo dei più grandi cineasti mai nati.
"Io credo nell'America. L'America fece la mia fortuna".
Si apre con queste parole il celebre monologo di Amerigo Bonasera, nonché la saga de Il padrino.
È il cosiddetto American Dream, infatti, a risiedere alla base dell'epopea gangster più illustre della Storia del Cinema; e di quel desiderio che accompagnò tanti italiani quando salparono alla volta del Nuovo Continente.
Tuttavia, la necessità di sopravvivenza abbinata alle difficoltà di adattamento a un contesto sociale e culturale completamente estraneo, fece sì talvolta che il bisogno di una vita migliore si trasformasse in brama di potere e nella necessità di crearsi un proprio mondo, con delle proprie regole, slegate dai fili manovrati dai "pezzonovante".
Proprio una di queste storie è alla base dell'omonimo romanzo di Mario Puzo del 1969, così fortunato da spingere la Paramount Picture a investire su di esso e sul successivo riadattamento cinematografico di cui - per nostra fortuna - si occupò Francis Ford Coppola in seguito a una gestazione a dir poco travagliata.
Il resto è Storia.
Il padrino, infatti, è un'opera che ha trasceso il genere e lo stesso mezzo cinematografico per insinuarsi nel patrimonio culturale mondiale; diventando un cult senza tempo di cui tutti, amanti del cinema o meno, conoscono la storia o sono in grado di enunciare almeno una citazione.
Le motivazioni che risiedono dietro un tale successo sono molteplici e vanno al di là di tutte le questioni che hanno gravitato intorno alla sua produzione e al lungo elenco di premi vinti.
Quella che viene subito alla mente è, senza dubbio, la simultanea ricomparsa e ascesa, rispettivamente, di due mostri sacri del Cinema hollywoodiano quali Marlon Brando e Al Pacino.
La perfetta sinergia tra i due, nonostante il carattere difficile di Brando e il timore reverenziale provato da Pacino - qui soltanto alla sua terza esperienza in un lungometraggio.
La maniera magistrale con cui entrambi hanno dato vita a due dei personaggi più iconici di sempre.
Il primo conferendo al suo Don Corleone un carattere sommesso ma, al contempo, risoluto, ammantato da quella vena di malinconia propria di chi è consapevole di star avviandosi verso il crepuscolo.
Il secondo delineando un vero e proprio percorso ascendente per Michael, scandito dai tormenti di chi aveva immaginato per sé una vita diversa, ma non ha potuto fare altro che andare incontro a un destino già scritto.
Un ritratto profondamente psicologico di personaggi che rispecchiano ideali ottusi ed effimeri e il lento cambio di guardia da un sistema tradizionale, virtuoso pur nella sua illegalità; a uno più calcolatore e spudoratamente cinico.
Un affresco minuzioso di quello che sembra essere un universo a sé stante.
Una matassa le cui trame vengono pian piano dipanate mentre ci si addentra in infiniti corridoi fatti di vincoli di sangue e d'onore e che portano, alla fine, al suo fulcro: non la famiglia, utilizzata come pretesto ultimo finanche per il crimine più efferato, ma il potere.
Una fitta rete di favori e tradimenti, elegantemente introdotta tra i balli e i fasti di una tipica cerimonia italiana; marcando subito l'opposizione tra l'apparente felicità derivante dal denaro, e l'oscurità che si cela dietro le radici della stessa.
A tal proposito, indimenticabile il lavoro di Gordon Willis che gioca molto sul contrasto tra luci e ombre realizzando delle inquadrature caravaggesche in grado di esprimere l'inquietudine e i dissidi interiori dei personaggi.
Una giostra implacabile di emozioni e sconvolgimenti - accompagnata dalla celeberrima colonna sonora di Nino Rota - che pongono le basi non solo per il microcosmo della criminalità organizzata e della spietata lotta tra famiglie, ma anche per una più complessa analisi di una società corrotta nel midollo che verrà, in seguito, ampliata e approfondita nel secondo capitolo.
Lo capiamo dal finale - uno dei più spietati e magnifici di sempre - che chiude, letteralmente, la porta su ogni possibilità di redenzione; trascinando in un baratro ancora più nero un vortice di violenza da cui sembra ormai impossibile distaccarsi, se non dopo molti anni e una scia infinita di sangue e rimorsi.
Un viaggio emozionale e stratificato che rende Il padrino non solo uno dei film più importanti della New Hollywood, ma un'opera d'arte immortale e imprescindibile; e Coppola, uno dei massimi artisti.
L'immagine delle foreste del Vietnam in fiamme, con in sottofondo The End dei Doors che si fonde con il rumore battente delle pale degli elicotteri, rappresenta uno degli inizi più iconici della Storia del Cinema.
Ed è l'inzio di un'opera che ne ha segnato la Storia: Apocalypse Now.
Tratto liberamente dal romanzo Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, il film diretto da Francis Ford Coppola è un viaggio terrificante lungo l'animo umano.
Ambientato durante la Guerra del Vietnam, uno dei conflitti più assurdi che la storia contemporanea ricordi, Apocalypse Now vede come protagonista il Capitano Willard incaricato di ritrovare il Colonello Kurtz, ex militare modello che sembra aver perso il lume della ragione dopo essersi rifugiato in Cambogia e autoproclamatosi re di un gruppo di indigeni.
Dal momento in cui Willard accetta la missione siamo catapultati in un mondo così assurdo da far accapponare la pelle: La cavalcata delle Valchirie, Charlie non fa surf, l'odore del napalm al mattino, sono tutte scene iconiche ma che al tempo stesso mascherano la solitudine e la follia a cui migliaia di soldati furono destinati durante il conflitto.
E man mano che Willard risale il fiume, noi come lui discendiamo negli inferi, nel cuore delle tenebre.
La morte accompagna il capitano per tutto il tragitto, gli sibila nelle orecchie tentando più volte di strappargli un bacio fino a quando avviene l'incontro che abbiamo atteso per tutta la durata del film: quello con il colonnello Kurtz.
Il personaggio interpretato magnificamente da Marlon Brando appare fin da subito come un semi-dio: nascosto nell'ombra, alienato da tutto ciò che è superfluo, dotato di una dialettica magnetica, ci rapisce scavandoci dentro l'anima, guardando nel nostro inconscio più profondo fino a renderci partecipi della sua follia, scaturita dopo esser entrato in contatto con "l'altro" e aver visto veramente l'orrore della guerra.
"Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere cazzo sui loro aerei perché è osceno"
Vincitore della 32ª edizione del Festival del Cinema di Cannes, con un cast stellare e l'irripetibile fotografia di Vittorio Storaro, Apocalypse Now è senza ombra di dubbio un capolavoro della Settima Arte, un'epopea che trascende il concetto di Cinema e che regala allo spettatore una moltitudine di sentimenti e sensazioni così diverse e contrastanti fra loro da lasciarlo estasiato a ogni visione.
Tati23
4 anni fa
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Teo Youssoufian
4 anni fa
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