Con fatica, sacrificio e qualche lacrima per gli esclusi, ecco gli 8 migliori film dell'ultimo decennio di Cinema secondo la redazione di CineFacts.it.
Non è stato per niente facile per nessuno dei redattori: tantissimi i film meritevoli, da ogni parte del mondo e di qualunque genere, e fare una cernita tra 10 anni di Cinema internazionale per poi ricavare dieci titoli preferiti - e metterli anche in classifica uno sull'altro - è un'operazione che per chi ama il Cinema come noi può risultare addirittura dolorosa.
Andava fatta anche per fare un po' il punto su quanto il Cinema ci ha regalato in questo decennio, per provare a confrontarlo con quello dei decenni precedenti e per tentare di darvi una lista di titoli che riteniamo assolutamente imperdibili e rappresentanti di questi anni '10 del terzo millennio.
La fruizione cinematografica negli ultimi 10 anni è profondamente cambiata: se pensiamo anche solo alle possibilità che ci vengono offerte dalle piattaforme streaming come Netflix, Amazon Prime Video o Infinity, ci rendiamo conto che il Cinema si è avvicinato a noi da un certo punto di vista - in termini di fruibilità, di possibilità di scelta e di facilità di accesso - ma allo stesso tempo è successo il contrario.
Non è tanto il Cinema ad essersi allontanato, quanto il cinema.
Una lettera minuscola qui fa la differenza: le sale cinematografiche stanno soffrendo per via dell'offerta casalinga che ormai tutti abbiamo a disposizione per una cifra che mensilmente equivale il più delle volte a un singolo biglietto di ingresso al cinema.
Questo ha fatto sì che il cosiddetto spettatore casuale si allontanasse dalla sala.
Non parliamo dell'appassionato, del cinefilo o di chiunque di voi stia leggendo queste righe, categorie di persone che in ogni caso vivono il Cinema come interesse principale e grande passione, ma dello spettatore che magari la domenica pomeriggio passeggia in un centro commerciale e per passare il tempo entra in sala a vedere un film.
Magari senza nemmeno conoscere a fondo che film stia per vedere ed è attratto semplicemente dalla locandina, dal titolo, dai nomi famosi coinvolti.
Su quella categoria di spettatori le sale hanno sempre fatto una grande leva per poter sopravvivere: nel momento in cui quella fetta viene meno, o si concentra incredibilmente solo per una o due volte all'anno in occasione del "Film di Natale" e dell'evento da non perdere - nel 2019 Avengers: Endgame ha portato in sala milioni di persone che di film Marvel prima di quello ne avevano visti pochi - allora iniziano i problemi.
Ovviamente il calo di spettatori al cinema non è da attribuire solo ed esclusivamente alle piattaforme streaming, sarebbe folle sostenerlo. Ma lo sarebbe altrettanto sostenere che la presenza nelle case di un sistema che permetta di vedere film e serie TV in qualunque momento si voglia non abbia contribuito a tale calo.
Il Cinema degli ultimi 10 anni ha dovuto quindi percorrere anche una strada diversa: i film a volte sono quasi costretti a diventare una sorta di evento irrinunciabile, un qualcosa che spinga le persone a muoversi dal divano e spendere dei soldi per chiudersi in una stanzona buia con degli sconosciuti e farsi raccontare una storia, un'esperienza che il televisore di casa non potrà mai restituire con le stesse sensazioni.
È un decennio di transizione e stiamo per entrare in un decennio che cambierà ulteriormente le cose nel profondo.
Presto saremo circondati dalle piattaforme streaming appartenenti alle grandi major hollywoodiane - Disney+ arriverà in Italia il 31 marzo 2020, ma a seguire ci saranno Warner e Paramount, mentre si aspetta l'annuncio ufficiale di Sony - che hanno già dichiarato che i propri film usciranno solo lì in esclusiva, dopo essere passati in sala.
E a volte nemmeno passeranno in sala.
Ci ritroveremo quindi in un mercato cinematografico radicalmente diverso rispetto a quello del 2010 e come spettatori e appassionati dovremo fare i conti con le novità, che se da un lato portano il Cinema come arte nelle case di tutti, dall'altro rischiano di allontanare quei tutti dal cinema come luogo.
Svilendo in qualche modo la fruizione di uno spettacolo che solo sul grande schermo e in quelle condizioni ha un certo senso di esistere.
I film nominati dalla redazione di CineFacts.it come i migliori dell'ultimo decennio abbracciano l'intero pianeta e pressoché qualunque genere esistente, ed è proprio tra gli 8 film che sono entrati nella classifica generale che si può leggere una specie di manifesto redazionale.
Cinema che va oltre il Cinema e Cinema che parla di se stesso, fantascienza filosofica, musical citazionisti, biografie monumentali, drammi esistenziali e commedie autoironiche.
Il tutto sorretto da capacità tecniche, artistiche e interpretative impressionanti.
Per la nostra redazione questo è il Cinema di questi ultimi 10 anni, in questo modo viene rappresentata la potenza espressiva della settima Arte.
Forse potrebbe essere la strada per far sì che resti tale anche nel decennio futuro.
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Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.
L'unica regola imposta era quella di scegliere un massimo di 3 film per ogni anno.
Ne è uscito un totale di 87 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
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Ancora prima che il film uscisse nelle sale italiane si sentiva già l’eco oltreoceano, da parte del pubblico e successivamente delle 14 nomination agli Oscar, del fenomeno cinematografico e poi culturale che sarebbe divenuto La La Land.
Si attendeva con curiosità il nuovo film del talentuoso regista di Whiplash, ma era difficile prevedere l’impatto che avrebbe avuto il nuovo lungometraggio di Damien Chazelle, che è riuscito a creare un fenomeno culturale rendendo di fatto il film immediatamente un cult, che da un lato richiama le vecchie pellicole di Hollywood e dall’altro riesce a rinnovare il genere in una commistione perfetta che ha fatto piacere il film sia al grande pubblico, amante e non del genere, che alla critica.
La Los Angeles da sogno dipinta di viola e di blu in cui camminano e cantano Seb e Mia è già entrata a far parte dell’immaginario collettivo.
Ryan Gosling ed Emma Stone insieme sono perfetti sullo schermo, tra scene divertenti, romantiche e drammatiche, ed era forse dai tempi di Jack e Rose in Titanic che non si aveva una coppia romantica così iconica nell’immaginario cinematografico contemporaneo.
La varietà delle inquadrature, il montaggio e il montaggio sonoro eccelsi della pellicola hanno portato Chazelle a vincere l’Oscar per la Miglior Regia, divenendo così il più giovane regista di sempre ad aver ottenuto questo riconoscimento.
Famosi i pianisequenza della pellicola: il primo all’inizio del film nel traffico di Los Angeles - ottenuto in montaggio - e quello poi divenuto iconico con lo skyline della città californiana sullo sfondo, in cui Seb e Mia ballano sotto il cielo stellato.
I brani originali della colonna sonora, composti da Justin Hurwitz, sono rimasti immediatamente impressi nella cultura popolare, quasi come se esistessero da sempre.
La stessa Hollywood di cui si parla tanto romanticamente all’interno della pellicola e che viene omaggiata dal primo all’ultimo fotogramma.
[a cura di Kevin Hysa]
Posizione 7
The Irishman
Martin Scorsese, 2019
Sul finire del decennio Martin Scorsese ci ha regalato un colpo di coda decisamente di classe, dando finalmente alla luce The Irishman.
La pellicola è tratta da I Heard You Paint Houses, romanzo di Charles Brandt, edè stata in cima ai desideri dell'autore italo-americano e di Robert De Niro per quasi vent'anni.
La genesi dell'opera risiede nel momento in cui l'attore, stregato dal libro di Brandt, ha consigliato all'amico regista di leggerlo e cercare il modo di realizzarlo insieme.
E, come potete vedere, non è stata un'impresa semplice, finché Netflix non ha deciso di intervenire.
Da allora il mondo del Cinema ha vissuto un'attesa lunghissima che, però, ha ripagato decisamente le aspettative.
Scorsese ha infatti a mio avviso realizzato la propria migliore opera del decennio, traendo il meglio dalla sceneggiatura di Steven Zallian, da un impianto tecnico composto da maestranze di livello assoluto e da un cast innervato dagli attori simbolo della sua carriera come Robert De Niro, Joe Pesci e Harvey Keitel e i suoi nuovi collaboratori, tra i quali spicca un mostro sacro di Hollywood come Al Pacino.
Grazie a The Irishman Martin Scorsese è riuscito a mostrarci le sfumature più crepuscolari della sua poetica, mescolando la sua innata maestria nel dipingere un'epopea gangster con le sue doti narrative perennemente protese verso l'introspezione della sfera individuale e fallace dei protagonisti.
Un intreccio di alta sartoria nel quale nessun dettaglio tecnico, di scrittura o recitativo è tralasciato.
L'intera opera è fondata sulla maestosità della messa in scena, sul passo dolente del racconto, sulla costruzione di un ἕπος nostalgico, pieno di contraddizioni e di rimorsi.
La controversa durata della pellicola (209 minuti) è pienamente spiegata dalla sua natura, dai suoi intenti, dal vortice di emozioni umane che ribollono sotto la sua superficie da gangster movie.
The Irishman è stato costruito per travolgerci, farci percepire lo scorrere del tempo, la grandiosità della storia e la solutidine che attende ogni uomo in fondo al proprio percorso.
Per costringerci a interrogarci su ciò che resta al termine di ogni viaggio.
The Irishman altro non è che un viaggio irripetibile, anche all'interno di un decennio pieno di capolavori come quello che ci apprestiamo a salutare.
[a cura di Jacopo Gramegna]
Posizione 6
Holy Motors
Leos Carax, 2012
- La bellezza? Si dice sia nell’occhio, nell’occhio di chi guarda
- E se non c’è più nessuno a guardare?
Un uomo si risveglia in una camera da letto.
La sirena di una nave e i garriti dei gabbiani lo accompagnano nel suo incedere verso la porta della stanza.
Il passepartout - che si estende dal metacarpo della mano - si infila perfettamente nella serratura, consentendogli di procedere oltre, raggiungendo ciò che c'è dall'altra parte della parete o, forse, di se stesso: un cinema nel bel mezzo di una proiezione.
Silenzioso, magico, sacro.
Ora lo vediamo in volto: l'uomo non è altri che il regista del film, Leos Carax.
Insieme al pubblico in sala è finalmente libero di ammirare il prodigio che si anima sul telo bianco e infrangere la quarta parete, ricambiando lo sguardo di noi spettatori che, a bocca aperta, sediamo dall'altra parte dello schermo.
A questo punto incomincia la giornata lavorativa di Monsieur Oscar (un poliedrico e strepitoso Denis Lavant, collaboratore abituale del regista francese), il quale, durante le 24 ore messe in scena, indosserà le mille maschere dell'attore per interpretare narrazioni, vivere passioni, cantare e trasfigurarsi persino in un mostro.
Come si fa a raccontare un amore lungo più di cent'anni?
Come descrivere un'Arte totalizzante che abbraccia generi, tematiche e toni diametralmente opposti fra loro?
Che unisce recitazione, musica, fotografia, danza, make up e tecnologia?
La risposta di Leos Carax ai quesiti sopracitati si annida in questa viscerale produzione metacinematografica datata 2012.
Un film tanto criptico in certi suoi messaggi e simbolismi quanto lampante nel suo svolgimento.
Perché Holy Motors è qualcosa che ti afferra le budella, fruga nello spazio tra le viscere e il cuore, andando ad attivare qualcosa che è già dentro di te.
Quella strana creatura antropomorfa germogliata sui frame che abbiamo collezionato in un'intera vita da spettatori.
Holy Motors è probabilmente uno degli inni più accorati e sentiti alla Settima Arte, un'opera concettuale che, già dai titoli di testa, va a insinuarsi sotto la nostra epidermide, risvegliando sensazioni e ricordi sopiti mentre il cuore accelera e le lacrime sgorgano spontanee.
Paul Thomas Anderson è indubbiamente uno dei migliori cineasti della nuova generazione di registi statunitensi e il suo The Master ne è una chiara dimostrazione.
Il Cinema del regista californiano si contraddistingue per il suo stile particolarmente ricercato, per l’elegante e dettagliata estetica delle immagini e per la sua indole fortemente poetica capace di mettere completamente a nudo l’essere umano.
La maggior parte dei suoi protagonisti, infatti, sono personaggi solitari o emarginati condannati a un declino morale o fisico a causa del proprio essere: è esattamente quello che succede in The Master a Freddie Quell (Joaquin Phoenix) e Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffmann).
Il primo è un reduce della Seconda Guerra Mondiale emotivamente instabile e violento, il secondo un carismatico filosofo e fondatore della Causa, un emergente movimento spirituale.
I due personaggi sono antitetici ma si intendono perfettamente, formando un legame che sfocia in un rapporto di reciproca dipendenza motivato da nature differenti.
P.T. Anderson, infatti, con The Master vuole sviluppare una pellicola sul concetto di dominio e sulla dipendenza che ne consegue.
Quell è stato per tutta la sua vita un instancabile lavoratore, una persona che ha sempre servito lo Stato o un padrone: tuttavia, è un reietto che può trovare una propria dimensione solo alla corte di Dodd, al quale si subordina come personale servitore.
Dodd, dal canto suo, dipende fortemente dalla disponibilità di risorse economiche per sostenere la Causa, ma è anche ossessionato dal protagonismo che il suo ruolo gli concede.
La devozione genuina che riceve da Quell è qualcosa che non può trovare in altri seguaci, nemmeno tra quelli più stretti.
O addirittura nei suoi familiari.
La grandezza di quest’opera sta proprio in questo rapporto: il messaggio del regista è che ognuno dei due potrebbe essere il Master (termine che in italiano può essere tradotto indifferentemente in maestro o padrone) dell’altro, che i due personaggi opposti sono semplicemente le due facce della stessa medaglia.
Un tipo di simbiosi che può essere paragonata a quella tra padre e figlio, uno dei temi ricorrenti del cinema di Anderson.
Inoltre, al fine di mettere in risalto la propria poetica, il regista compie un’estenuante ricerca del dettaglio in ogni immagine.
In questo caso, il film è stato girato nel più largo formato 65mm proprio per inquadrare con maggiore accuratezza anche i particolari fisici dei soggetti in questione: un’estetica volta a immergere lo spettatore nella profondità della condizione umana dei personaggi raccontati da Anderson.
Tutto questo viene perfettamente coadiuvato non solo dalle formidabili interpretazioni di Phoenix e Hoffmann (Coppa Volpi ex-aequo alla 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia), ma anche dalla stupenda fotografia di Mihai Mălaimare Jr. (Tetro, Twixt, JoJo Rabbit) e dalle melanconiche musiche di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead.
The Master si presenta quindi come una magnifica opera d’arte destinata a rimanere non solo tra le migliori pellicole di questo decennio, ma anche un punto di riferimento per gli anni a venire.
In una classifica sui migliori film dell'ultimo decennio non poteva di certo mancare il nome di Denis Villeneuve, straordinario regista canadese che dopo un inizio di carriera in sordina, ha saputo ritagliarsi alla perfezione il ruolo di esecutore di grandi storie e copioni predefiniti.
Il suo è un Cinema in grado di raccontare una storia e di intrattenere, senza perdere la propria impronta autoriale. Un destino che ha interessato i migliori registi “americanizzati” del panorama contemporaneo.
Arrival, sci-fi squisitamente atipico, pone il linguaggio parlato e scritto come mezzo imprescindibile per unire popoli e mondi distanti.
È la testimonianza chiara del ritorno ai valori della modernità e dell’esigenza di trovare una soluzione ai problemi che affliggono la società contemporanea, rigettando indietro lo spirito nichilista e distaccato che aveva animato il cinema di fantascienza dei decenni precedenti.
L'arrivo degli alieni sulla Terra (da cui il titolo del film) è solo un espediente narrativo, utilizzato per mettere in scena un racconto che è universale e che stimola un esercizio che in Arrival è razionale, perché ha a che fare con l’intelletto e non con le emozioni.
È evidente come sia centrale nel film l’idea che solo la ragione e l’esercizio di essa possano portare sulla strada del progresso, dunque del bene, che nelle dinamiche del film si traduce con la comprensione del linguaggio alieno e delle loro intenzioni, e con la cooperazione tra le potenze mondiali, che scongiura l’inizio di una guerra.
Anche sotto questo aspetto, il film di Villeneuve si discosta molto dal coevo Interstellar, che al contrario si focalizza più su un aspetto emotivo, mettendo al centro l’amore e il potere dei sentimenti, piuttosto che la ragione, come unica chiave per salvare l'umanità.
La fiducia nel progresso umano è quindi al centro dell'opera, e ne costituisce la chiave di volta per arrivare alla verità.
Il capolavoro di Villeneuve colpisce per la sua capacità di dimostrare come scienza linguistica ed esperienza non linguistica possano tranquillamente convivere, a patto di non perdere di vista l’idea della ragione come unico mezzo in grado di comprendere il mondo e unire pensieri anche apparentemente distanti, come lo sono in principio quelli della dottoressa Louise Banks, linguista di professione, e del dottor Ian Connelly, fisico teorico.
[a cura di Pierluca Parise]
Posizione 3
Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza)
Alejandro González Iñárritu, 2014
Con la Trilogia sulla morte (Amores Perros, 21 grammi e Babel, girati fra il 2000 e il 2006), Alejandro González Iñárritu aveva già iscritto il proprio nome nel panorama dei registi più rilevanti del terzo millennio.
Tuttavia, è con Birdman che Iñárritu ha raggiunto la consacrazione a livello planetario, forte della vittoria di tre Premi Oscar (film, regia e sceneggiatura).
Thomson, per smentire i suoi detrattori e cercare il riscatto, decide di allestire un dramma teatrale a Broadway; l’impresa si rivelerà tutt’altro che facile e non priva di sorprese.
Birdman tocca diversi temi, fra quali è possibile annoverare la dicotomia fra cinema e teatro: come emerge dai discorsi dei protagonisti, tale divisione è insita nell’opinione pubblica, col teatro che è generalmente considerato più nobile rispetto al Cinema.
Volendo riassumere si potrebbe dire che il Cinema è per tutti, mentre il teatro è per pochi.
Così, un attore teatrale facilmente può ottenere successo e prestigio in campo cinematografico, mentre raramente avviene il contrario.
Riggan Thomson cerca di sfatare questo mito, nonostante il suo ego (rappresentato da quella voce fuori campo appartenente al supereroe Birdman, da lui impersonato in passato) e una critica letteraria del New York Times cerchino fortemente di dissuaderlo.
Presente è anche la critica al mondo hollywoodiano contemporaneo, che tende perlopiù a badare ai profitti, prediligendo spesso la produzione di film appariscenti ma poco interessanti nei contenuti, soprattutto per chi apprezza il cinema d’autore.
Si pensi al celebre discorso che Birdman rivolge a Thomson, pregandolo di tornare a recitare nei suoi panni, dando al pubblico ciò che esso vuole: sangue e azione, non tediose dissertazioni filosofiche.
Ironia della sorte, nei panni di Riggan troviamo Michael Keaton, che raggiunse la popolarità proprio grazie a un cinecomic, quel Batman di Tim Burton risalente al 1989. Keaton è perfettamente supportato da un cast ben assemblato, che comprende nomi del calibro di Edward Norton ed Emma Stone, all'epoca in forte ascesa (culminata poi con la performance in La La Land, diretto da Damien Chazelle due anni dopo).
Infine, è impossibile non sottolineare la tecnica con cui è stato realizzato Birdman, che si distingue da molti altri film poiché è costituito principalmente da un lunghissimo e virtuale pianosequenza, sulla scia di altre pellicole come Nodo alla Gola di Alfred Hitchcock - che adopera gli stessi inganni - e Arca Russa di Aleksandr Sokurov - dove invece il pianosequenza è autentico.
Infatti, se si eccettuano una quindicina di stacchi evidenti, i restanti tagli ci sono ma non si vedono, mascherati dall’utilizzo degli effetti speciali.
Fu perciò giustamente premiato con l'Oscar anche il lavoro di Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia alla prima collaborazione col regista messicano per un lungometraggio.
[a cura di Marco Batelli]
Posizione 2
Melancholia
Lars von Trier, 2011
Un pianeta dall'evocativo nome di Melancholia si sta avvicinando pericolosamente alla Terra.
Lars von Trier si focalizza in un primo momento sul matrimonio tra Michael (Alexander Skarsgård) e Justine (Kirsten Dunst) e in particolare sulla sposa, per poi spostarsi sulla ragazza e la sua famiglia.
Il contesto fantascientifico è un pretesto per raccontarci una condizione mentale.
Melancholia infatti è il secondo capitolo della cosidetta Trilogia della Depressione, dopo il suggestivo horror Antichrist e prima della roboante epopea Nymphomaniac.
L'istinto e la violenza della natura si contrappongono alla ragione scatenando una tragedia intimistica e personale che, per analogia, è facile associare a un'apocalisse di dimensioni planetarie.
Dove l'istinto di conservazione porta Claire(Charlotte Gainsbourg), sorella di Justine, e suo marito a negare la mortalità dell'impatto Justine, in quanto depressa, accetta l'incombenza della fine e in tale ottica quasi ne diviene profetessa.
Lars von Trier utilizza un simbolismo raffinato ma ermetico, rifacendosi più o meno esplicitamente a F.W. Nietzsche e a William Shakespeare - la stessa Justine è rappresentata come una moderna Ofelia- ma anche agli stilemi del Cinema di Andrej Tarkovskij e all'estetica del Romanticismo tedesco.
È Richard Wagner a scandire la danza della morte tra Melancholia e il nostro Pianeta.
Impossibile non pensare a Melancholia I di Albrecht Dürer, un'incisione in bulino cui peraltro compare persino un astro celeste che precipita in mare.
Lars von Trier sfrutta il filone catastrofista per descrivere questo stato di lascività, di perenne tristezza e stasi esistenziale con accuratezza e in modo assolutamente unico, riuscendo a scolpire un'opera altamente personale e catartica.
Melancholia infatti è un racconto di uno stato d'animo, può apparire nichilista o pessimista, ma la verità è che non vuole suggerire alcuna morale.
Un'opera in cui è facile specchiarsi e con cui risulta difficile confrontarsi, ma ciò che è certo è che difficilmente non rimane impressa nella mente dello spettatore.
[a cura di Lorenza Guerra]
Posizione 1
The Tree of Life
Terrence Malick, 2011
Forse è stato un errore considerare The Tree of Life tra i film che si potevano votare.
Perché il film di Terrence Malick va oltre l'essere "film", e tenta di andare oltre il Cinema stesso.
Siamo di fronte a un'opera tanto ambiziosa quanto straordinaria, qualcosa che fonde perfettamente la poesia, gli elementi naturali, l'emozione con la Settima Arte e che scuote e rapisce a ogni fotogramma.
Terrence Malick è probabilmente l'unico cineasta al mondo che poteva tentare un esperimento simile e grazie al lavoro di Emmanuel 'Chivo' Lubezki alla fotografia, di Jack Fisk alla scenografia e di Alexander Desplat alle musiche - questo film è frutto del lavoro del regista tanto quanto di quello di questi altri tre professionisti assoluti - The Tree of Life diventa un'opera immensa, destinata a restare nella Storia del Cinema e ammaliare le generazioni future.
La Via della Natura e la Via della Grazia permeano tutta la pellicola, costruita in maniera non cronologica e strutturata attorno alla piccola storia di una famiglia nel Texas degli anni '50: un padre fin troppo severo, Brad Pitt, una madre forse troppo eterea, Jessica Chastain, un bimbo probabilmente troppo incosciente, che da adulto sarà Sean Penn, sono solo delle pedine all'interno di un film-manifesto che cerca di raccontare la Storia dell'Umanità tutta e non solo, dell'Universo tutto.
La tragedia familiare non è un motore, ma una conseguenza.
Il cosmo e una farfalla, l'enorme e il piccolo, l'inesplorato e il conosciuto: la macchina da presa galleggia sinuosa e il montaggio salta da un momento all'altro in un modo che tanto ricorda la nostra coscienza mentre sta sognando.
La scelta di costruire tre case identiche come set per la famiglia Pitt/Chastain, ognuna di queste orientata verso un punto cardinale differente in modo da avere più ore possibili di luce naturale, rientra nella maniacale voglia di Malick e Lubezki di ricreare ciò che è naturale, ma con un artificio che di naturale non ha niente.
La contrapposizione tra realtà e ricordo, tra maschile e femminile e tra stupore romantico e senso di colpa rimane costante lungo tutto il film, che presenta una messa in scena che mette i brividi: praticamente ogni fotogramma potrebbe essere appeso in una galleria d'arte senza il minimo problema.
The Tree of Life riesce ad essere contemporaneamente un film profondamente spirituale e intriso di misticismo tanto quanto riesce a essere ateo e agnostico insieme, lasciando allo spettatore il compito di rispondere alla domanda sulla Via della Natura e della Grazia, ponendo domande senza avere la presunzione di conoscere le risposte.
Il film di Malick è di struggente bellezza nel momento in cui decidiamo di abbandonarci alle sue suggestioni, quando scegliamo di aprire completamente i sensi e lasciare che vengano invasi da un'espressività e da una poesia totale che raramente si ritrova nel Cinema tutto e che non ha eguali nell'ultimo decennio.
Tutta questa voglia da parte di Malick di creare un film che sia "tutto" fa sì che l'opera risulti ostica, presuntuosa e sconnessa agli occhi di coloro che guardandola si aspettavano di vedere semplicemente un "film".
Proprio per questo motivo The Tree of Life non riesce nel suo intento di aprire il cuore di ognuno di noi, ed è quindi un'opera magnifica ma un film imperfetto.
Proprio per questo motivo secondo la redazione di CineFacts.it è il film più perfetto e rappresentativo di questi ultimi 10 anni di Cinema.
Cavolo non solo ho messo 7 film invece di 8 ma ho sbagliato a considerare il decennio! *meme di Homer che legge il libro "AM I DISABLED?"
Bell'annata il 2009, ma in in generale gli anni 2000 sono migliori sia degli anni '90 sia degli anni '10. Speriamo che quest'alternanza continui nel prossimo decennio
Ciao, in realtà i film sono dal 2010 al 2019 (una convenzione che risale a vecchi giochi di cinefactsers su facebook) quindi in realtà si splittano bene i film di quel biennio, che anche secondo me è stato grandioso (io nella mia lo ho inserito con un film del 2010).
Lenù
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
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Filman
4 anni fa
Bell'annata il 2009, ma in in generale gli anni 2000 sono migliori sia degli anni '90 sia degli anni '10. Speriamo che quest'alternanza continui nel prossimo decennio
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Fabrizio Cassandro
4 anni fa
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