#articoli
[Nota dell'autore. Questo testo risale al 2018. Se lo riscrivessi oggi sarebbe un po' diverso. Non perchè io abbia nel frattempo cambiato idea sull'oggetto dell'articolo, ma perchè, rileggendolo oggi, mi rendo conto di come certi temi siano stati forse troppo semplificati. Ho scelto tuttavia di lasciare l'articolo così come appariva nel 2018, senza apportare alcuna modifica, per ricordare a me stesso come il tempo sia fondamentale per vedere le cose da nuove prospettive.]
Negli ultimi anni, con l’innegabile crescita qualitativa delle serie TV, anche agevolata dai nuovi canali di produzione e fruizione (Netflix, Amazon Prime), si fa sempre più cospicuo il numero di spettatori che ritiene che un ipotetico sorpasso ai danni del cinema (e non solo in termini di successo) sia di fatto già avvenuto.
Cercando di analizzare la questione nel modo più lucido possibile, ma senza per questo frenare la mia indole cinefila (di appassionato di cinema quindi, non di serie TV), mi chiedo: le serie TV potranno mai raggiungere la grandezza e l’importanza del cinema nella storia?
Ma soprattutto: è giusto paragonare due mondi così diversi?
Cercando di essere obiettivi, affermare che attualmente la maggior parte delle serie TV supera in bellezza la maggior parte dei film hollywoodiani (che è una frase che ho letto diverse volte sui social) non ha molto senso; bisogna stabilire per prima cosa a che tipo di cinema ci si riferisca, nel paragonarlo al prodotto televisivo.
Non si deve generalizzare o semplificare, senza prima essere entrati nel dettaglio. Frasi come "La maggior parte dei film" o "La maggior parte delle serie TV" sono troppo, troppo vaghe.
Non mi interessa capire cosa sia meglio oggi (e sottolineo oggi, perché fino a dieci anni fa anche solo l'accostare le parole Cinema e TV era per me motivo di sanzione secondo codice penale), perché in fin dei conti ognuno è libero di guardare ciò che vuole.
Quello che mi preme dire è che il grande Cinema è ben lontano dal morire e i capolavori sono sempre presenti; semplicemente, rispetto al passato, sono più difficili da scovare e in certi casi, una volta scovati, da "comprendere" e di conseguenza da apprezzare al meglio.
Per restare a Hollywood, anche escludendo Quentin Tarantino, Christopher Nolan, Denis Villeneuve e Paul Thomas Anderson, cioè i quattro nomi che più di tutti catalizzano oggi l’attenzione del grande pubblico cinefilo e che non hanno certo bisogno di presentazioni, vogliamo parlare anche dei tanti registi affermati come Jim Jarmusch, Richard Linklater, Wes Anderson, Steve McQueen, Spike Jonze, Alexander Payne, David O. Russell, che sono esplosi artisticamente dalla seconda metà degli anni '90 in poi e che sfornano filmoni uno dietro l'altro (da Grand Budapest Hotel a Boyhood, da Her a Shame, da Broken Flowers a Nebraska, ecc.).
O dei messicani naturalizzati americani Guillermo del Toro, Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu, già tutti e tre plurivincitori di Oscar, Golden Globe e premi vari d’oltreoceano, grazie a titoli quali Il labirinto del fauno, La forma dell’acqua, Gravity, Roma, Birdman, The Revenant.
E cosa dire di David Fincher e dei fratelli Coen, che dividono spesso critica e pubblico, ma che continuano a portare gente in sala?
Ci sono le nuove leve, come Damien Chazelle, Barry Jenkins e il canadese enfant prodige Xavier Dolan, ormai abbonato a ogni singola edizione del Festival di Cannes. E non possiamo nemmeno dimenticare di nominare i grandi registi americani che hanno dato il loro meglio in passato, ma che comunque restano in attività e continuano a girare film di pregevole fattura; penso ovviamente ai veterani Martin Scorsese, Steven Spielberg, Woody Allen, Terrence Malick (The Tree of Life?), Tim Burton, James Cameron, Clint Eastwood e il martoriato Ridley Scott.
Da segnalare poi il modello vincente adottato da giovani e piccole case di produzione, quali Blumhouse, Annapurna e soprattutto A24, capaci di sfornare un gioiello dietro l’altro, opere che sono riuscite nel sempre più difficile compito di incontrare il favore sia di critica che di pubblico senza avere a disposizione i budget faraonici delle major.
Appartengono alle tre case sopracitate, rispettivamente, titoli quali The Reader e Whiplash, Zero Dark Thirty e Il filo nascosto, Ex Machina e Il sacrificio del cervo sacro; e tantissimi altri.
E si parla solo di USA.
Spostiamoci in Europa.
Registi come Nicolas Winding Refn e Yorgos Lanthimos sono ormai dei punti fermi nel panorama del cinema d’autore e in Italia Paolo Sorrentino e Matteo Garrone vengono premiati nel Vecchio come nel Nuovo continente.
Naturalmente, ci sono poi tutti i film usciti vincitori dai tre principali festival europei, cioè Cannes, Venezia e Berlino negli ultimi dieci-quindici anni: film rumeni (4 mesi 3 settimane 2 giorni), film greci (Miss Violence, le opere del già citato Lanthimos), film tedeschi (un gigante come Michael Haneke dove lo lasciamo?), film danesi (Il sospetto), film russi (dal più noto Arca russa di Aleksandr Sokurov al più recente Leviathan di Andrej Zvjagincev).
E ancora, vogliamo parlare del cinema medio-orientale?
È una realtà nuova, sta crescendo sempre più; un film come Una separazione, di nazionalità iraniana (2011), è un capolavoro assoluto, un film praticamente perfetto, diretto da uno dei migliori registi cinematografici in circolazione, Asghar Farhadi, ma non conosciuto ai più.
E il cinema cinese e di Hong Kong, che ci ha offerto (e parlo solo degli anni post 2000) opere straordinarie come In the Mood for Love, A Simple Life e Poetry? E spostandoci ancora più a est, c’è ovviamente il cinema sudcoreano: un regista come Kim Ki-duk, giusto per fare un nome, è entrato ormai a far parte in pianta stabile del giro dei registi contemporanei più amati dagli appassionati di cinema.
Che dire poi della sempre gloriosa tradizione nipponica, ben rappresentata nell’ultimo decennio da maestri quali Takeshi Kitano, Sion Sono e dallo stesso Hayao Miyazaki?
E in Sudamerica? La sola filmografia del cileno Pablo Larraín, ad esempio, meriterebbe un articolo a parte.
E così via…
[Orgoglio messicano. Da sinistra a destra: Alfonso Cuarón, Guillermo del Toro, Emmanuel Lubezki, A. Gonzalez Inarrítu, Diego Luna, Gael García Bernal e Salma Hayek sul red carpet di Cannes 2017]
Il punto è essenzialmente uno: molti dei nomi sopracitati, al di fuori della non troppo larga cerchia di cinefili, sono per lo più ignoti; soprattutto agli occhi dello spettatore medio, che va al cinema una volta al mese nell'ipotesi più ottimistica e che segue invece con una certa regolarità le novità del panorama televisivo.
Chiariamoci, non c’è nulla di male in questo, a patto però che la verità non ne esca stravolta.
Qual è la verità? Che le serie TV non sono superiori al cinema; affermare il contrario, significa essere in malafede o semplicemente ignorare lo stato dell’arte.
A questo punto, qualcuno potrebbe ribattere:
"Eh va beh, ma tu nel discorso precedente non hai citato film spazzatura come Tartarughe Ninja, Power Rangers o Transformers 4; anche questi sono prodotti del cinema di oggi, come la mettiamo?".
Ecco, è molto semplice: non li ho citati e non mi interessa parlarne, perché ogniqualvolta si inizi un discorso sulle serie TV vengono esclusivamente citate le serie migliori, quelle cioè che hanno reso possibile negli ultimi tempi una sorta di avvicinamento tra i due mondi, ignorando tutto il resto.
Si parla sempre (giustamente) di serie di pregevole fattura come Game of Thrones, BoJack Horseman, Breaking Bad, I Soprano, Black Mirror, ecc., senza considerare le mediocrità; quindi, se permettete, io faccio altrettanto e vi cito solo il grande Cinema.
Una serie straordinaria come Breaking Bad non può essere paragonata al cinema di Michael Bay o simili, sarebbe troppo facile "vincere" così; se citate un grande prodotto della TV, allora per corrispondenza vanno citati esclusivamente i grandi registi cinematografici, giovani e meno giovani attualmente in circolazione, per poter reggere al meglio il confronto.
Quello che mi preme dire insomma è che ogni caso conta per sé, non bisogna fare generalizzazioni.
Come già detto, ognuno si deve sentir libero di guardare quello che desidera; anche perché alla fine, quello che conta (agli occhi dei produttori in primis) è che lo spettatore resti soddisfatto e decida di impiegare il proprio tempo libero davanti a uno schermo, piccolo o grande che sia.
[Breaking Bad è una delle serie TV di maggior successo di sempre]
Fatto tutto questo discorso, voglio fare però un passo in avanti: al di là dei singoli nomi, dei singoli registi, dei singoli film e del loro successo, avrebbe davvero senso paragonare questi due mondi, ancora prima di stabilire da quale dei due scaturiscano i risultati migliori?
Facendo emergere con prepotenza l’amore esclusivo che provo per il cinema, la risposta sarebbe negativa.
Per quanto mi riguarda, la distanza tra i due mondi resta incolmabile anche dal punto di vista concettuale.
Serie TV e cinema hanno poco, pochissimo in comune.
Basti pensare già solo al mezzo di diffusione: la visione di un’opera cinematografica implica anzitutto l’esperienza della sala (oggi sempre più sottovalutata), che ha il potere di farti immergere in quell’atmosfera magica e di evasione che cattura gli spettatori dai tempi di Georges Méliès e che ha sempre costituito il primissimo tratto distintivo del cinema lato sensu.
I non appassionati di cinema tendono sempre a considerare serie TV e opera cinematografica nello stesso calderone giusto perché entrambi raccontano delle storie attraverso immagini in movimento; che sarebbe un po’ come dire che un piatto di pasta alla carbonara è uguale a un vassoio di pasticcini, solo perché entrambi fanno parte della "categoria" del cibo.
È proprio per questo che risulta così difficile tenere separati film e serie TV. La maggior parte degli spettatori cade nell’errore di considerare esclusivamente il lato narrativo di entrambi i prodotti, senza pensare che il come sia sempre più importante del cosa, che la trama (cioè l’elemento più immediato e accessibile, concettualmente parlando) costituisca solo uno dei tantissimi componenti che contribuiscono al successo e/o alla qualità dell’opera cinematografica, e soprattutto ignorando il fatto che a essere diversa sia innanzitutto la motivazione che spinge la realizzazione di una serie televisiva.
La serie TV nasce per puro intrattenimento; affinché un prodotto di intrattenimento abbia successo è essenziale la risposta del pubblico, in questo caso televisivo, ancora più rispetto a quello cinematografico.
Quali sono le conseguenze di ciò?
In primis, l’uso esagerato, sconsiderato e palesemente forzato di tutta una serie di tattiche ed espedienti narrativi, atti a sorprendere e coinvolgere lo spettatore nel modo più rapido (cioè secondo i tempi della TV) ed efficace possibile: così, ad esempio, si spiegano l’elevato numero di personaggi in gioco che si alternano nel corso della storia, insieme all’utilizzo di tantissimi plot twist (come la morte a sorpresa di un personaggio importante), dei climax drammatici e soprattutto dei cliffhanger (l’interruzione brusca di un episodio), che sono la tecnica televisiva per antonomasia, il cui uso è ormai abusato, finalizzata a far accrescere ancor di più la curiosità dello spettatore e spingerlo ad aspettare con trepidazione l’episodio successivo.
A volte capita addirittura che certi episodi stiano in piedi e vengano realizzati solo con lo scopo di contenere il cliffhanger finale: 50 minuti al servizio di pochi secondi.
In secundis, il fatto che la produzione di una serie televisiva (una serie dura in media tra le tre e le sette stagioni, con alcune che hanno addirittura toccato il numero a due cifre), sia in continua evoluzione e possa essere soggetta a repentini cambi di rotta, modifiche di sceneggiatura e stravolgimenti narrativi strada facendo, a seconda della risposta che il pubblico possa dare o meno nel corso del tempo.
La serie TV è una montagna russa, mentre il cinema è una terrazza panoramica: se ti vuoi solo svagare, opterai per la prima, se ti vuoi godere il paesaggio mozzafiato, magari con un bicchiere di vino rosso in mano, sceglierai la seconda.
Facciamo un esempio concreto: se il fandom di Game of Thrones (ma questo vale per qualunque serie, del passato come del futuro), da un certo punto in avanti tiferà per l’unione sentimentale di due personaggi nello specifico, state pure certi che i produttori faranno di tutto affinché questo avvenga, anche a costo di cadere nella trappola, la più diffusa nel serial televisivo, dell’incoerenza narrativa.
Ma non importa granché, perché accontentare il pubblico rappresenta la sfida più importante ed è l’esigenza maggiore nelle logiche di sistema; un pubblico felice e soddisfatto continuerà a seguire le puntate e a essere affezionato alla stagione in corso, ignorando così errori tecnici oggettivi o buchi di trama e garantendo preziosa linfa vitale alla serie.
Magari per un paio di altre stagioni (più stagioni = più incassi).
La prima preoccupazione di una serie TV è quella di tenere a bada il proprio pubblico, di conoscerlo e, una volta conosciuto, assecondarlo.
Nel cinema questo non è ovviamente possibile. O meglio, sarebbe possibile solo in parte.
Dobbiamo pensare che un film sia un’opera fatta e finita, che nel momento in cui viene rilasciata nel mercato appare già nella sua veste definitiva; questo vale sempre, tranne rari casi in cui le eventuali aggiunte e/o versioni diverse verrebbero comunque inserite solo più avanti, per il mercato home video, magari come contenuti speciali dei DVD.
La differenza è semplice quanto immediata: le serie TV sono prima di tutto intrattenimento, il cinema è prima di tutto arte.
Badate bene, le tre parole chiave qui sono prima di tutto; è ovvio che anche il cinema è intrattenimento, business e spettacolo, ma sopra ogni altra cosa, esso è anzitutto una delle tante forme in cui l’arte si palesa e con cui viene espressa.
Le considerazioni che scaturiscono da questa riflessione sono innumerevoli, a cominciare da quel che concerne il ruolo del regista, sia televisivo che cinematografico.
Un bravo regista cinematografico è come un pittore, un poeta o un chitarrista: è un fabbricatore di sogni. Realizza la sua opera perchè sente prima di tutto il bisogno di mettere in atto ciò che la sua anima gli suggerisce; in quanto artista, egli risponde a esigenze creative autoriali e dà libero sfogo ai propri pensieri su pellicola, carta o spartito che sia.
Lo fa prima di tutto per se stesso; perché non ha scelta, non può resistere al richiamo dell’arte.
Il regista televisivo ha invece un ruolo marginale nell’immaginario collettivo; se a un cinefilo chiedeste di parlare di Arancia Meccanica o de La Dolce Vita, state pur certi che nessun discorso iniziale sul film prescinderebbe da un discorso introduttivo su Stanley Kubrick e Federico Fellini, cioè i registi dei due film rispettivamente.
Per le serie TV questo non potrebbe mai avvenire, a meno che il regista in questione non provenga dal cinema stesso (penso a David Lynch con Twin Peaks, ma è forse l’unica eccezione).
Se si chiedesse ad esempio a Robin Wright chi l’abbia diretta nell’episodio 12x3 di House of Cards, probabilmente non lo saprebbe dire con certezza nemmeno lei; anche perché è la norma che all’interno di una stessa stagione il timoniere di regista dei singoli episodi passi attraverso mani diverse.
Questo per sottolineare la diversa concezione che sussiste tra il regista di un film e di una serie televisiva; una differenza non da poco, considerato che il regista, da sempre nella storia del cinema, costituisce il principale valore aggiunto nella messa in scena di un qualunque soggetto.
Provate ad assegnare una sceneggiatura brillante a un regista mediocre, il risultato sarà probabilmente mediocre; provate invece ad assegnare una sceneggiatura banale ad un regista talentuoso, il risultato non potrà essere che positivo.
Come disse una volta Tom Hanks durante un’intervista: "il cinema appartiene ai registi."
[David Lynch, con Twin Peaks, è probabilmente l’unico autore-regista a essere stato in grado di elevare il prodotto televisivo alla grandezza del cinema]
Credo sia proprio questa la più importante ed essenziale differenza tra i due mondi: il cinema è dotato di quella vena artistica che la serie TV non potrà mai avere. Sia per il discorso sopradescritto (soldi e audience), sia perché il ruolo del regista di un episodio televisivo si riduce a mero esecutore, una figura che deve cioè rispondere alle richieste della casa di produzione e alle indicazioni lasciate dagli autori/ideatori della storia, veri artefici del successo di un prodotto TV e unici governatrici del destino di una serie.
Se ci pensate bene, infatti, il maggior punto di forza di tutte le serie valide presenti nell’attuale panorama televisivo risiede proprio nelle rispettive sceneggiature solide, originali, avvincenti, coinvolgenti.
Nel cinema, un discorso analogo (cioè il ruolo secondario del regista) potrebbe valere al massimo solo per certi blockbuster estivi (e nemmeno tutti), per la cui realizzazione mette becco la produzione in toto. Prendiamo l’esempio di alcuni film del Marvel Cinematic Universe: qualcuno conosce il nome del regista di Spider-Man Homecoming?
Ecco, nemmeno io; classico caso di regista invisibile, un semplice nome da poter inserire nei titoli di coda, che non possa prescindere dalle direttive e dall’action plan della casa madre.
Escludendo quindi il modello organizzativo delle grandi produzioni, per una moltitudine di casi, nonostante non siamo più negli anni ’70 quando i registi americani avevano il controllo quasi totale sulle proprie opere, l’estetica e la visione del mondo del regista, vero direttore dei lavori sul set, si riversa poi nel film che diventa quindi un prodotto personale che, indipendentemente dal suo valore oggettivo, rispecchia lo stile e la coerenza artistica di un singolo uomo.
Questo vale sia per chi di solito idea, scrive e dirige allo stesso tempo (Christopher Nolan, Quentin Tarantino, ecc.), sia per chi parte da sceneggiature o opere predefinite come i romanzi (Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, ecc.).
In entrambi i casi e in modo diverso, il tocco personale del regista sarà tangibile, nel bene e nel male.
Ovvio, nessun regista si augura di andare male al box office; se la risposta del pubblico fosse considerevole, il regista non potrà che averne soddisfazione, soprattutto se nella realizzazione del film sono stati investiti tanti capitali e quindi si sente la pressione del risultato.
Sono certo che uno come James Cameron, ad esempio, fu ben contento di sapere che Avatar, costato 237 milioni di dollari, era diventato il film con il più alto incasso di sempre (senza contare l’inflazione).
Nemmeno Kubrick, il Maestro dei Maestri, il più grande di tutti, restava indifferente al successo che i suoi capolavori potessero avere presso il grande pubblico.
Ma il punto fondamentale è che nessuno di loro, in nome della risposta della massa, ha mai mutato il proprio stile o si è mai adeguato ai gusti delle persone, tradendo le proprie convinzioni artistiche; hanno sempre mantenuto una propria coerenza di fondo.
Cito a questo proposito uno stralcio di un'intervista a Alejandro G. Iñárritu, che ritengo ben esaustivo:
"Tengo sempre in considerazione il pubblico e fare qualsiasi cosa per colpirlo, ma mai al punto di tradire la mia idea di film".
[Natalie Portman è Jackie, nel bellissimo biopic diretto dal cileno Pablo Larraín]
Per tutti questi registi, ai quali si aggiungono gli innumerevoli artisti europei e asiatici che presentano in massa i loro film nei principali festival del mondo, l’esigenza primaria resta sempre la stessa: soddisfare sé stessi ancor prima degli altri; creare un qualcosa di personale, che possa sì incontrare i gusti di più spettatori possibili, ma che allo stesso tempo ne possa fare anche a meno.
Registi di talento come i già citati Farhadi o Larraín pensano in primis a realizzare qualcosa di coerente e che possa rispecchiare il loro modo di vedere le cose, il mondo, la vita, la religione, la politica, la propria nazione; rispecchiare la propria estetica, la propria poetica.
Se poi i loro film dovessero anche ottenere un discreto successo al botteghino, a quel punto sarebbe ancora meglio, ma sempre a patto di non stravolgere il proprio linguaggio, altrimenti il risultato sarebbe artificioso.
Sono tantissimi, ogni anno, i film rappresentanti di un certo cinema indipendente, svincolato dalle grandi major.
Nelle serie TV questo non potrà mai avvenire, perché nessun produttore investirebbe mai di propria tasca dei soldi in un progetto che già in partenza avrebbe poche probabilità di riuscita economica.
È il motivo per cui esistono i cosiddetti episodi pilota: si fa vedere un assaggio di quello che potrà essere l’aspetto della serie, per vedere una prima risposta degli spettatori. Se sarà positiva, si andrà avanti; in caso contrario, la serie verrà fermata sul nascere e cancellata.
Per maggiori delucidazioni, si ascolti la conversazione tra Jules Winnfield e Vincent Vega all’inizio di Pulp Fiction.
La serie Flashforward del 2009, ad esempio, fu cancellata dopo la prima stagione a causa del suo scarso successo commerciale.
Un film, invece, anche nel caso in cui faccia flop continuerà comunque a esistere per sempre e magari riuscirà anche a ottenere ex-post l’affetto di una parte di pubblico.
Esemplari i casi di Donnie Darko e Mr. Nobody: inizialmente titoli di nicchia, nemmeno distribuiti nei principali circuiti cinematografici (in Italia sono arrivati in sala con ampio ritardo), hanno in seguito saputo raggruppare ampie fasce di proseliti affezionati, che hanno contribuito quindi alla loro diffusione, sul web come sul mercato home video, fino a farli diventare di fatto opere ultraconosciute e addirittura mainstream.
Alzi la mano chi non conosce Donnie Darko. Ed esiste qualche cinefilo che non abbia mai visto Mr. Nobody?
Qualcuno sicuramente ci sarà, ma il punto è che è un numero ormai irrisorio, se confrontato con quello di pochi anni fa.
[Donnie Darko incassò appena 500.000 dollari alla sua prima uscita, per poi diventare nel corso degli anni un vero e proprio film di culto]
La serie TV non può ragionare con le logiche del cinema, perché va di fretta; dev’essere veloce per recuperare in tempi stretti i soldi spesi per produrla.
Se così non fosse, i giochi verrebbero stoppati sul nascere. Perché è proprio l’esigenza primaria a essere diversa.
Ovviamente questo non potrà mai essere un ostacolo alla qualità generale della serie. Nessuno si può permettere di affermare che serie come Game of Thrones, The Office, Lost, The Walking Dead non siano fatte bene; è però altrettanto innegabile che, per quanto possa avere una trama articolata, la visione di una serie TV richiede in media una minor concentrazione e attenzione da parte dello spettatore, proprio perché la sua stessa natura di prodotto di mero intrattenimento ha l’esigenza preminente di rivolgersi a una schiera più ampia possibile di persone, indipendentemente dalle abitudini, dalla sensibilità e da una certa predisposizione cinefila delle stesse.
E non trovo assolutamente nulla di sbagliato in questo, basterebbe solo ammetterlo.
Per questo stesso motivo lo spessore artistico, la profondità e l’importanza sociale dei più grandi capolavori cinematografici della storia, dai film di Charlie Chaplin a quelli Orson Welles, da Stanley Kubrick a Federico Fellini, da Ingmar Bergman a Jean-Luc Godard, sono caratteristiche immortali, proprie dell’arte in generale, che resteranno inevitabilmente irraggiungibili per gli stilemi del linguaggio televisivo, che punta sulla quantità ancor prima che sulla qualità.
Fateci caso: più una serie viene portata per le lunghe, allungandola anche dove non necessario, più aumenteranno gli episodi qualitativamente inferiori alla media e il rischio di un finale al di sotto delle aspettative.
La naturale conseguenza di ciò è che sono sempre più le persone disposte a far nottata per guardare il finale di una stagione di una serie TV qualunque, di quante non siano quelle ben disposte ad andare al cinema almeno una volta a settimana.
Qualcuno si lamenta dei prezzi esagerati, qualcun altro della poca scelta della programmazione, qualcun altro ancora tira in ballo la pigrizia come scusante: la verità è che se si continua su questo passo, il futuro del cinema (almeno in Italia) non potrà essere che nebuloso.
E i dati impietosi del box-office dell’estate appena trascorsa parlano da soli.
[Il cast della serie TV Orange Is the New Black festeggia la vittoria ai SAG Awards 2017]
Lo spettatore verace di serie TV, poi, è talmente abituato ai costrutti della narrazione seriale televisiva (la quale ha pochissimi momenti di stallo), che rischia di non trovare (o di trovare a fatica) la giusta sensibilità e predisposizione, ma soprattutto la pazienza per poter apprezzare al meglio un tipico film d'autore contemporaneo, che invece si nutre in genere di lunghi silenzi, pause dilatate e scelte stilistiche anticonvenzionali (penso a Paolo Sorrentino o a Kim Ki-duk, ma l’elenco sarebbe lungo).
Questa cosa è stata evidente anche nella recente stagione televisiva: c’è stato un periodo in cui sui social tutti facevano a gara per discutere della settima stagione di Game of Thrones e le bacheche di Facebook brulicavano di post e meme vari ad essa dedicati; l’esatto opposto di quello che è avvenuto con un'altra serie trasmessa in contemporanea come Twin Peaks, proprio per il carattere più prettamente cinematografico e autoriale di quest’ultima, reso possibile dalla mano di David Lynch, ideatore e regista di tutte e tre le stagioni (come già detto sopra, si tratta forse dell’unico caso in cui un paragone con il cinema non sarebbe peregrino), ma che per questo motivo poco si sposa con i gusti della massa, evidentemente non abituata a una narrazione che procede a ritmi compassati.
Non può essere una coincidenza, infatti, che la maggior parte dei proseliti della rivoluzionaria serie su Laura Palmer sia costituita da seguaci di celluloide in senso stretto, già ammiratori e conoscitori del cinema surreale e onirico del maestro Lynch.
Ci tengo a precisare che non mi permetto assolutamente di mettere in discussione il lato prettamente tecnico della messa in scena; onestamente, la fotografia di alcuni episodi di serie TV, ad esempio, è talmente di alto livello da non fa rimpiangere i DoP che lavorano sul set accanto ai grandi cineasti, ma questo credo non basti affinché l’equiparazione totale tra i due mondi possa dirsi compiuta. Anche perché, bisogna aggiungere, è il prodotto TV che cerca di avvicinarsi sempre più al film (a un certo cinema postmoderno in particolare), sia come linguaggio che come contenuto; raramente accade il contrario.
Questo per dire che il punto di riferimento e modello da seguire in ultima istanza rimane sempre lo stesso, nonostante le crisi e gli stravolgimenti: il Cinema, la Settima Arte.
[Paolo Sorrentino ritira il premio Oscar come Miglior film in lingua straniera per La Grande Bellezza]
Qualcuno avrà sempre da obiettare come anche nel cinema contemporaneo ci siano tantissimi casi di film (anche mediocri) prodotti esclusivamente per riempire le già pingui pance delle case di produzione e andare incontro a più spettatori possibili, lasciando il secondo piano la qualità del risultato finale e avendo quindi poco a che fare con l’arte in senso stretto.
Questo è verissimo, ma la divisione in ruoli esiste proprio per questo: il regista cercherà sempre di lasciare una propria impronta sul film (e si ritorna al discorso dell’importanza del ruolo del regista nel cinema, maggiore rispetto a quello delle serie TV), mentre il produttore spererà sopra ogni cosa di avere un cospicuo ritorno, altrimenti farebbe altro nella vita; e in ogni caso, non costituiscono l’unico modo possibile per far cinema.
Quello commerciale è infatti solo una delle tante facce che il cinema può assumere.
Così come viene prodotta la saga campione di incassi di Transformers o di Fast & Furious (al di là dei propri evidenti difetti) allo stesso modo viene prodotto anche il nuovo film di Roman Polanski, Leos Carax, Apichatpong Weerasethakul e Lars Von Trier.
Sarà poi il singolo spettatore a scegliere cosa vedere e chi premiare.
La differenza essenziale risiede proprio in questo punto: il cinema è arte, è tecnica oggettiva ed è anche puro intrattenimento (e spesso le tre cose possono coincidere), mentre nelle serie TV il fine economico tende a sovrastare tutti gli altri.
Si può dire che le serie fungano per la TV allo stesso modo dei blockbuster nel cinema (per maggiori chiarimenti, si legga il mio articolo sul significato di film blockbuster).
Tutte le serie TV, valide o meno valide, convergono nella medesima direzione, cioè il successo di pubblico, le entrate economiche, l’influenza nella cultura pop.
Nel cinema quest’aspetto è certamente dominante in moltissime produzioni contemporanee realizzate con un budget considerevole, dagli action fracassoni ai superhero movies del Marvel Cinematic Universe, dal fantasy all’animazione in CGI, ma esiste tutt’un’altra zona grigia, conosciuta per lo più agli appassionati di cinema e disseminata di piccole opere indipendenti, titoli sperimentali e film d’autore vari, diretti da registi poco conosciuti, che trovano nelle vetrine dei festival internazionali, in Europa come negli USA, la loro massima aspirazione e il loro palcoscenico ideale per poter emergere e farsi conoscere.
Questo meccanismo in campo cinematografico rischia annualmente di essere messo in crisi, perché sono sempre meno i produttori che decidono di investire in progetti nuovi, magari diretti da giovani cineasti talentuosi (e a questo si collega il discorso del sempre più frequente numero di remake e spin-off, frutto appunto di poco coraggio da parte delle case) e anche perché l’investimento costituisce sempre un salto nel vuoto; ma nonostante questo, la voglia di credere nella sperimentazione tecnica e nel continuo rinnovamento di registi, attori e sceneggiatori nel mondo del cinema non è mai venuta meno.
Inoltre, si deve anche considerare l’impatto che ha avuto (e sta avendo) lo streaming legale e illegale, che di certo non facilita la produzione cinematografica e che costituisce senz’altro una delle cause del calo di introiti registrato nell’ultimo decennio nelle sale.
In definitiva, ognuno è libero di scegliere quello che vuole.
L’importante è continuare a considerare separati i due mondi.
Le serie TV rispondono alle regole della televisione, con tutto ciò che ne consegue; il cinema risponde anch’esso alle logiche di produzione e intrattenimento (ripeto, qualcuno dovrà pur guadagnarci ed è giusto che sia così) ma anche, e soprattutto, all’esigenza di offrire al mondo un motivo per cui valga la pena continuare a credere nel lato creativo dell’uomo, che rende il nostro tempo un pochino migliore e i dolori della vita meno angosciosi.
È il potere proprio del cinema, è il potere proprio dell’arte.
29 commenti
Pierluca Parise
6 anni fa
Rispondi
Segnala
BubbleGyal
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Jonny Mone
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Sam_swarley
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Vi.
6 anni fa
Rispondi
Segnala
RustCohle
6 anni fa
Concordo sul fatto che in questo caso non fosse cruciale l'aver visto decine e decine di serie ma l'averne compreso le logiche produttive e di realizzazione. Proprio per questo ti dico che secondo me molte delle cose scritte nell'articolo non sono vere o meglio non lo sono più, come ad esempio l'usanza di rilasciare l'episodio pilota per testare le reazioni del pubblico che ormai è quasi definitivamente estinta (eccetto forse per Amazon). Al giorno d'oggi viene proposta la prima stagione di una nuova serie e se ha un buon riscontro solitamente viene prodotta una seconda stagione (esattamente come i franchise cinematografici). Ma in molti casi ciò non avviene, ad esempio Maniac è stata concepita per concludersi in una stagione, in quel caso non si può dire che l'intento sia esclusivamente commerciale giusto?
Sul ruolo dei registi in campo televisivo ci sarebbe un discorsco lunghissimo da fare, la paternità artistica in questo campo viene assegnata allo showrunner che scrive il soggetto e decide il look che deve avere quel prodotto. Poi in molti casi però il regista diventa molto più che un esecutore, basti vedere gli esempi di David Slade in Hannibal e American Gods o Sollima in Romanzo Criminale e Gomorra.
Mi sembra un po' limitante dire: cinema=qualità, serie televisive=quantità vista la vastità e l'eterogeneità di prodotti in entrambi i settori, solo questo.
Ad oggi secondo me anche un lavoro televisivo può essere considerato arte. Poi capisco il discorso nel suo complesso ma ho diverse opinioni a riguardo :)
Grazie della risposta e del tempo dedicato in ogni caso.
Rispondi
Segnala
BubbleGyal
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Fede3597
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Yuri Palamini
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Vi.
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Per me è lo stesso motivo per cui molti attori famosi e talentuosi accettano con piacere i ruoli nel Marvel Cinematic Universe o in generale nei superhero movies, indipendentemente dalla qualità finale del singolo film. Voglio dire, se una cosa funziona, in termini di impatto sulle persone, è normale volerne far parte. Per me infatti fanno benissimo, fanno i loro interessi.
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Rispondi
Segnala
BubbleGyal
6 anni fa
Rispondi
Segnala
BubbleGyal
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Sam_swarley
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Teo Youssoufian
6 anni fa
parliamo della stessa Netflix che dopo averlo comprato ha deciso di allungare La Casa di Carta per farlo diventare di 2 stagioni invece che una con episodi da 40 minuti anziché da un'ora? 😉
Rispondi
Segnala
Vi.
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Emanuele Cortellini
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Non ho mai detto che Lynch è l’unico a essere passato con successo dal cinema alle serie TV o viceversa; so benissimo che esistono anche i casi di Soderbergh o Gondry. Ho citato solo Lynch perché a mio parere, come ho scritto nell’articolo, è l’unico che sia stato in grado di elevare il prodotto televisivo alla grandezza del cinema. Che è una cosa diversa.
Che l’impatto di Twin Peaks sia stato maggiore rispetto a quello avuto da The Knick è oggettivo (che non significa che sto criticando The Knick, lo specifico).
Ho citato le serie più famose, non perché non conoscessi quelle “minori” (ne ho viste poche, questo lo ammetto senza problemi), ma semplicemente perché il mio voleva essere un discorso generico sul confronto tra cinema e TV; non ho citato tutti i registi talentuosi contemporanei, quindi di conseguenza non ho potuto citare TUTTE le serie TV di buona qualità realizzate negli ultimi anni. Come voi giustamente mi fate notare che non ho citato Fargo o Leftovers, allo stesso modo potrà sempre spuntare fuori un altro utente (appassionato di cinema) a farmi notare come nell’elenco dei registi non abbia citato Jacques Audiard o Paweł Pawlikowski (cioè due grandissimi registi).
E io risponderei a entrambi i commenti allo stesso modo: non potevo scrivere un articolo di 20 pagine citando tutto e tutti ;)
ho citato le serie e i registi più famosi, perché il nocciolo della questione risiede a un piano più alto, che concerne le regole (diversissime), il mezzo di fruizione (diverso), il ruolo del regista (diverso, a esclusione di Lynch e simili) e della produzione (diverso, a esclusione dei titoli prodotti dalle major) a cui i due mondi sottostanno. Che non significa negare la qualità di un certo prodotto televisivo, ma riconoscere che si tratta, molto semplicemente, di un altro campo da gioco, un altro campionato e probabilmente anche di un altro sport (cit.)
Per quanto riguarda la conoscenza, non credo quindi che il punto sia quante serie TV uno abbia visto o conosca (voi due ne saprete molto più di me, questo si percepisce), bensì il saper distinguere i due mondi, o meglio le logiche (della TV e del cinema) da cui i due mondi sono toccati, indipendentemente dai singoli casi.
Continuerò a considerare arte solo il cinema. Si può concordare o meno (ci mancherebbe) ma questo comunque non cancella tutto il discorso che ho fatto sulla differenza tra regista cinematografico e televisivo, sul potere che ha il pubblico di influenzare il media nel lungo periodo, sul fatto che l’aspetto dominante di una serie TV sia quello narrativo (nel cinema invece è uno dei meno importanti, per fortuna) e sulle differenze propriamente tecniche messe in campo nella realizzazione dei rispettivi prodotti, dall’aspetto della fotografia a quello del montaggio, dal missaggio sonoro agli effetti visivi, che prescindono dalla singola serie TV in questione; che si tratti di casi celebri (Breaking Bad) o meno celebri (Utopia).
Poi ripeto, si può concordare o meno, ma volevo giusto chiarire questi punti;)
Grazie ancora
Rispondi
Segnala
BubbleGyal
6 anni fa
Rispondi
Segnala
RustCohle
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Filman
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Pierluca Parise
6 anni fa
Io ho proprio specificato che ci sono film che riescono a essere arte e intrattenimento contemporaneamente. In aggiunta, penso invece che le serie TV non siano una forma d’arte ma solo d’intrattenimento; questo sì, ma non perché le definizioni di arte e intrattenimento non possano coesistere.
Per me è l’arte che può essere anche intrattenimento, non il contrario.
Rispondi
Segnala
Jude
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Stanley K.
6 anni fa
Rispondi
Segnala
Luca Buratta
6 anni fa
Secondo me l'errore di fondo è proprio paragonarle, parliamo di due entità ben distinte che si assomigliano sempre di più, ma che restano distinte. È come dire che una bellissima automobile è meglio di un modesto elicottero.
Rispondi
Segnala
Mostra altri commenti