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Diabolik - Recensione: un bel tuffo nel noir anni '60

I Manetti Bros vincono la sfida e portano al cinema un grande Diabolik

Decidere di portare un fumetto storico come Diabolik sul grande schermo è di per sé una grande sfida: a mio avviso i Manetti Bros la vincono, scegliendo un approccio che niente ha a che fare con quello che il grande pubblico potrebbe aspettarsi da "un film tratto da un fumetto"

 

Il Cinema ha da sempre un debito gigantesco nei confronti delle altre arti: la Settima Arte è infatti ciò che le racchiude tutte e le amalgama, facendo dialogare letteratura, musica, pittura, scultura, architettura e - a volte - danza, in un armonioso insieme che spesso diventa molto più della somma delle parti. 

 

Normale quindi che esista da più di un secolo il dibattito su cosa sia "meglio".

Su queste pagine si è già discusso in merito e la redazione concorda nel credere che un confronto tra arti diverse non solo sia errato a monte, ma che sia anche qualcosa che non possa trovare risposta oggettiva, dato che molto si basa sulle emozioni personali. 

 

Ciò che proviamo leggendo e immaginando non sarà mai ciò che proveremo immersi in una sala cinematografica e, soprattutto, quello che abbiamo immaginato leggendo molto raramente assomiglierà a ciò che hanno immaginato uno sceneggiatore, un regista, un direttore della fotografia, uno scenografo, un cast.

 

Diabolik però dovrebbe mettere d'accordo tutti. 

 

[Il trailer ufficiale di Diabolik]

 

 

Scrivo "dovrebbe" perché questo film disattende quelle che potrebbero essere le aspettative del pubblico generalista.

E secondo me è un bene. 

 

Il Diabolik manettiano non vuole essere un cinecomic per quello che questo termine ormai rappresenta dopo 13 anni di Marvel Movie, non vuole nemmeno assomigliare al Diabolik firmato da Mario Bava: il film di Antonio e Marco Manetti si immerge invece interamente negli anni '60 e ci presenta un noir che per intenzioni, atmosfere, interpretazioni e messa in scena assomiglia davvero a un fumetto di quell'epoca, filmato e portato sul grande schermo. 

 

I due registi - coadiuvati in sceneggiatura da Michelangelo La Neve, loro collaboratore anche su Song'e Napule e su Ammore e Malavita - scelgono di raccontarci l'albo n°3 del Re del Terrore nato dalle penne delle Sorelle Giussani: L'arresto di Diabolik è dunque il soggetto del film, la storia in cui il temibile criminale viene catturato. 

 

 

[L'albo di Diabolik alla base del film]

 

L'ingresso in scena di Diabolik è nel prologo del film, così come quello del suo rivale Ispettore Ginko (un sempre bravo Valerio Mastandrea): i primi minuti del film ci regalano l'unica scena d'azione, un inseguimento tra la mitica Jaguar di Diabolik e le forze dell'ordine capitanate da Ginko, dove impariamo da subito a conoscere quello che non è un supereroe né un mago, ma "un uomo dalle capacità straordinarie"

 

Ciò che a me è risultato lampante in Diabolik è che la vera protagonista non sia tanto l'identità segreta di Walter Dorian, bensì Eva Kant

Diabolik ci presenta il ladro del titolo come un personaggio già noto nel fittizio Stato di Clerville, già temuto e ricercato dalla polizia, e sceglie di mostrarci la bionda algida Eva nel momento della sua conversione.

 

È il suo, il percorso che il film mette al centro di tutto. 

 

La chimica tra Luca Marinelli (Walter Dorian/Diabolik) e Miriam Leone (Eva) è evidente e palpabile: i due personaggi in scena funzionano, con il risultato però di far funzionare molto meno le altre interazioni di Eva con il resto del cast, dove la scelta registica di cristallizzare le emozioni paga forse un po' meno, quando vengono a mancare il carisma di Marinelli o la presenza scenica di Mastandrea. 

 

 

[Miriam Leone con Alessandro Roja: in Diabolik è il vice Ministro della Giustizia Giorgio Caron]

 

 

Eva Kant è il cliché della donna ricchissima e bellissima, anelata dal genere maschile e irraggiungibile, avvicinabile solo tramite sotterfugi come il ricatto o… il fascino irresistibile di un criminale come Diabolik: il film dei Manetti venera il personaggio di Eva, facendolo brillare in ogni scena in cui compare. 

 

Il suo primo ingresso nel film è in questo senso paradigmatico: vediamo un campo medio in cui alcuni personaggi parlano tra di loro e a un certo punto appare lei, al centro del quadro, gemmea e luminosa nonostante sia a metri di distanza, mentre cammina verso la macchina da presa e verso il gruppo di personaggi in primo piano. 

Lady Kant arriva e diventa subito un magnete per gli sguardi e per l'attenzione maschile e femminile. 

 

Il suo personaggio è quello che compie un arco narrativo più completo e nitido, dal primo all'ultimo atto, quasi come se il film Diabolik volesse raccontarci in realtà "le origini" di quella Eva Kant così iconica, modello di bellezza e di forza, una donna non comprimaria né succube del proprio compagno, ma vera e propria co-protagonista. 

 

Il Diabolik dei Manetti è un film che non vuole assomigliare a qualcosa di già visto e dopo un prologo adrenalinico sceglie la strada del noir: la fotografia ha un carattere proprio e passa da contrasti esagerati in stile fumetto a un piattone che ricorda il fotoromanzo, ma è tutto coerente e organico, quindi mai fuori posto. 

 

Il ritmo è posato, lo sviluppo è lento e i dialoghi riportano frasi ed espressioni d'antan, le stesse che troveremmo leggendo un albo di Diabolik o guardando un film di sessant'anni fa; tutto è glaciale, tutto è in sottrazione, rigoroso ed elegante: in un mondo dove tutto è immoto e ogni personaggio ambisce solo al potere, in qualsivoglia forma questo si presenti, diventa più che corretto lasciare che questa morte apparente sia visibile, lampante e protagonista di ogni quadro e ogni interazione. 

 

Un universo dove le poche cose in movimento sono i tradimenti, le minacce e le astuzie per raggiungere ciò che si vuole, che sia questo un diamante, un criminale, una donna o un'emozione forte che possa scuotere un'esistenza statica e annoiata. 

 

 

[L'Ispettore Ginko in Diabolik ha il volto di Valerio Mastandrea]

 

 

Il senso stesso di tutta l'operazione filologica è proprio quello di ricreare il mood senza aggiornarlo, modernizzarlo o renderlo cibo per teenager iperattivi. 

 

Diabolik mantiene il suo fascino nelle scenografie curate e nella striscia di luce che illumina gli occhi del ladro per eccellenza, nelle musiche che accompagnano il film e nelle inquadrature, con una macchina da presa che spesso racconta parte di una scena con un complesso movimento, qualcosa che ci ricorda gli anni '60 di Alfred Hitchcock e i suoi thriller. 

 

Panoramiche a 180° ad andare e tornare con il colpo di scena, movimenti con la focale corta per scoprire un dettaglio importante poco prima dello stacco, ombre, dettagli, silhouette e pugnali volanti ripresi fissi, dove a muoversi è solo lo sfondo, angoli di ripresa da troppo tempo non più utilizzati e una cura particolare per il riempimento del quadro nella sua interezza. 

 

Il modo in cui il film viene confezionato dialoga ottimamente con ciò che invece nel film si vede: travestimenti, maschere, rifugi sotterranei, messaggi in codice morse, imitazioni della voce e tutti gli escamotage che fanno parte della storia del personaggio di Diabolik sono parte integrante e importante del film. 

Si sente un po' la mancanza dell'ironia tipica dei prodotti targati Manetti Bros, ma è anche vero che c'era poco spazio di manovra per inserirla, si nota però la loro classica maniera di trattare il Cinema di genere e farlo proprio, oltre al divertito citazionismo e ai continui omaggi alla Storia del Cinema, cosa che li ha sempre caratterizzati dagli esordi nel lungometraggio con Zora la Vampira alle puntate del 2021 de L'ispettore Coliandro. 

 

In Diabolik si percepisce inoltre un profondo rispetto nei confronti del personaggio e del lavoro delle milanesi Angela e Luciana Giussani: è difficile empatizzare con un protagonista negativo, che pugnala alla schiena degli innocenti per il proprio tornaconto, eppure il pubblico tende a tifare per lui. 

 

 

[Il rifugio di Diabolik: perfetto high-tech anni '60]

 

Sappiamo che sono già in produzione i due sequel di Diabolik, approvati ancora prima che uscisse questo primo capitolo.

 

Nella tragedia della pandemia questo è uno dei rari casi fortunati, perché siamo tutti coscienti del fatto che al botteghino il film dei Manetti Bros dovrà scontrarsi con il transatlantico Spider-Man: No Way Home, per via della scellerata decisione da parte di 01 Distribution di fare uscire il film italiano, pronto e fermo da un anno, la stessa settimana in cui esce il colossal Sony/Marvel. 

Liberi quindi dal risultato del box office i sequel di Diabolik vedranno comunque la luce e di questo non posso che essere contento. 

 

Nel film l'Ispettore Ginko parla di Diabolik dicendo che potrebbe essere chiunque, dato che nessuno lo ha mai visto in faccia. 

 

Il film Diabolik invece sa perfettamente chi è e va fiero della propria identità: un'originalità rétro che, più che un ossimoro, è una medaglia. 

 

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