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The French Dispatch - Recensione: Haiku per artisti perduti

Finalmente arriva The French Dispatch dopo un lungo stop causato dalla pandemia: cosa racconta questa volta Wes Anderson e cosa aggiunge al suo Cinema?

È un plumbeo mercoledì di fine ottobre a Dublino quello che si muove sopra la mia testa, mentre cammino verso il centro per la la proiezione delle 18:20 di The French Dispatch, il film di Wes Anderson a lungo rimandato causa pandemia.

 

L'umidità fa a cazzotti con lo scenario e mentre passo sotto il ponte di Pearse Street mi chiedo dove sia finito l'autunno e perché non ha chiamato per dire che avrebbe fatto tardi: passerà mai o siamo destinati a non rivederlo mai più?

 

Gli edifici bassi dai mattoni rossicci sporcati dal tempo e dallo smog mi accompagnano fino all'ingresso del più elegante e curato Trinity College.

Dribblando la LUAS e i gialli double-decker affollati di mascherine mi infilo in Temple Bar, accaldato e zuppo di una pioggerella fine.

 

Mi muovo con le mani in tasca e la testa bassa tra i viottoli storici del quartiere, cercando di raggiungere l'Irish Film Institute (IFI da qui in avanti).

 

 

 

Metto la mascherina e varco l'ingresso, ma prima di procedere lungo il corridoio che mi conduce nel cuore dell'edificio mi fermo, come da rito, nello shop dell'IFI: piccolo, essenziale eppure fondamentale.

 

Tra gli scaffali si alternano DVD e Blu-ray di ogni tipo e provenienza: dalle ultime uscite a quelli della Criterion Collection, dal Cinema italiano a quello francese, fino alle opere dei cineasti irlandesi. 

C'è anche una nicchia dedicata alla letteratura cinematografica con biografie e libri di testo utilizzati per insegnare sceneggiatura, regia, fotografia, recitazione e via discorrendo.   

 

Qualche settimana fa mi sono portato a casa un bel Blu-ray della Third Window Films dedicato a Hana-bi di Takeshi Kitano, ma oggi sembra non ci sia nulla di interessante e lascio il negozio un po’ deluso.

Il cuore dell'edificio è un piccolo atrio dal soffitto altissimo nel quale si trovano gli ingressi alle sale, una caffetteria e un piccolo gastropub utile per consumare una birra e qualcosa di caldo prima o dopo un film.

 

Mi metto in un angolo ad aspettare che la sala 1, quella più grande, venga aperta.

 

Attorno a me ci sono una manciata di coppie, un gruppo di quelli che sembrano vecchi cinefili prestati a qualche giornale e un insolito personaggio che fa su e giù per l'atrio trascinandosi con un passo incerto.

Mentre inizio a fantasticare sullo strano passeggiatore una maschera apre le porte della sala e invita il pubblico a mettersi in fila per controllare biglietto e Covid Certificate (aka Green Pass).

 

Mi siedo nel posto strategico scelto online.

Sul sedile di fronte al mio c'è una placca con una citazione anonima:

“La durata di un film dovrebbe essere proporzionata alla resistenza della vescica umana.”

 

Sorrido e mi abbandono alle luci che si abbassano e all'inizio del film.   

 

 

[The French Dispatch, The French Dispatch]
 

Se ami il Cinema di Wes Anderson, ricordare la prima volta che hai visto uno dei suoi film è un po' come perdersi nelle romanticherie del passato e rivivere un frammento della propria infanzia.

 

La fotografia è saturata, i tempi comici e il passo della storia sono sincopati eppure perfettamente bilanciati, una canzone incisa su una cassetta smagnetizzata da troppi giri di walkman accompagna il sorriso che si allarga piano piano sulla bocca e ogni protagonista è ammantato da una carica idiosincratica bonaria, inconciliabile con la realtà.

 

Eppure non è davvero così.

 

La mia prima volta in compagnia di Wes Anderson è stata per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Era la prima metà degli anni '10 del 2000 e io, nemmeno ventenne, avevo memoria di quel trailer tanto assurdo del film che vedeva protagonista uno dei miei eroi cinematografici: Bill Murray.

 

Al cinema della mia zona non passò o, forse, fu proiettato durante una di quelle rassegne infrasettimanali alle quali non andavo mai: i vari impegni sportivi e scolastici non me lo avrebbero permesso.

Ebbi occasione di scoprire Le avventure acquatiche di Steve Zissou qualche anno dopo, guardandolo su Sky Cinema durante una mattinata di ozio estivo.

 

Era un film fuori dal coro, stracolmo di scelte di scrittura, messa in scena, gestione del ritmo e dei personaggi a me aliene e per certi versi ostiche; anche se nella mia testa il ricordo tende più a romanzare l'esperienza come una meravigliosa epifania in Technicolor.

 

Sia chiaro: per certi versi lo fu.

 

Solo che impiegai più tempo, più visioni e più film del regista texano per comprendere per quale ragione quell'opera così stramba avesse catturato la mia attenzione.

 

 

[The French Dispatch]

 

Wes Anderson è un regista del quale è difficile ignorare esistenza e voce autoriale.

 

Senza la sua presenza il panorama cinematografico sarebbe molto più sciapo, aggrappato a pietre miliari e stilemi del racconto per immagini cesellati in golem di legno massello, dalla massa inamovibile.

Wes Anderson, invece, esiste e il suo occhio e i suoi stilemi narrativi visivi e non - quindi tutte quelle componenti che lo rendono unico e perfettamente distinguibile dal resto del Cinema - sono armoniosa definizione di cosa significhi essere un autore.

 

Il suo storytelling ha delle unicità assolute, che creano una dissonanza all'interno del Cinema smuovendo un mezzo ricco di mestieranti che segue i dettami del mezzo senza ricerche stilistiche (investendo comunque capacità e talento) e una manciata di eroici creativi capaci di distinguersi grazie al loro estro. 

Smuove le fondamenta del racconto per immagini e, mentre Internet e i cantanti pop romani vorrebbero convincerci che le inquadrature simmetriche le abbia inventate lui e siano di conseguenza il suo unico marchio autoriale, il regista è invece molto più complesso.

 

Starsene seduto su quattro fantasticherie che ridefiniscono i mutevoli rappresentanti del movimento hipster, sempre alla ricerca di nuovi stilemi a disegnarne la presenza nel tempo presente, non è certamente il suo focus.   

 

 

[Stephen Park nei panni dello chef Nescaffier in The French Dispatch]

 

Come ogni autore di grande talento, Anderson si sposta lungo le sue produzioni e il suo linguaggio così unico non può essere apostrofato come il lavoro di un creativo che "fa sempre la stessa cosa".

 

La sua autorialità è il suo personale linguaggio attraverso il Cinema in quanto forma di storytelling universale che vive di grammatiche evolute dalla tecnologia e dalle declinazioni offerte dalle varie culture, ma pur sempre assoggettata a una serie di regole utili a definire una canonicità, come un qualsiasi altro linguaggio (per evitare diventi incomprensibile, vanificando la sua funzione).

Wes Anderson gioca con le strutture del Cinema - in virtù del suo personalissimo stile - per comunicare un senso e gusto narrativo grazie a qualcosa che può essere identificato attraverso il suo stesso nome: una nuova declinazione del linguaggio.  

 

Dire che Wes Anderson fa sempre la stessa cosa è un po' come ammettere di non riconoscere le basilari ossature del racconto per immagini e di storytelling e lagnarsi di un regista che, avendo dei propri stilemi, sarà inevitabilmente sempre uguale e diverso da se stesso. 

Un po’ come il Cinema nella sua forma più comune, capace però di essere comunque stimolante. Il concetto alla base è l'idea secondo la quale sia il "come" di un film, e molto raramente il "cosa", a decretarne il fascino.

 

Quando il “come” si allarga alla forma autoriale e non solo a un espediente, ci si trova al cospetto di qualcosa di ancora più prezioso.    

 

La domanda quindi è: Wes Anderson con The French Dispatch ha portato avanti la sua poetica autoriale oppure è rimasto fermo?

 

Cosa rende il suo film tanto unico nella sua poetica? 

 

 

[Timothée Chalamet e Lyna Khoudri in The French Dispatch]



The French Dispatch è sostanzialmente la raccolta dei migliori articoli di un giornale destinato alla chiusura dopo la morte del suo eccentrico fondatore.

 

Nella poco allettante immagine del film antologico fatto di racconti sconnessi, Wes Anderson costruisce invece un film coerente con se stesso, piuttosto che utilizzare la struttura come puerile scusa per raffazzonare un film.

 

The French Dispatch è accompagnato da una peculiare grazia, sviluppata attraverso il gusto indicativo del linguaggio di Wes Anderson - quindi dalle scelte di messa in scena che fonde tutti i suoi totem visivi - e nuove sperimentazioni stilistiche che utilizzano i formati cinematografici e le animazioni, in un film che sfrutta saggiamente ogni storia per tradurre umori in immagini.

 

Wes Anderson è chiaramente intenzionato a rendere omaggio a un pezzo di Storia del giornalismo ormai scomparso, rappresentando grazie a The French Dispatch e all'ampio cast di attori e attrici una classe di penne dal cuore artistico, capaci di raccontare il quotidiano con l'eleganza di un romanziere, l'arguzia di un umorista e il cuore di un avventuriero. 

 

Un film concepito per ricordare a un mondo vittima di una deformazione spettrale dell'informazione, mai così strillona e svuotata da qualsivoglia legame all'arte dello scrivere, come un tempo sia esistito - e in forme molto rare esista ancora - un giornalismo composto da personaggi eccentrici il cui desiderio di raccontare il mondo passava per una prosa appassionata, lunghe avventure con artisti, rivoluzionari, chef e talvolta intimi ritratti di città e sobborghi attraverso il tempo.

The French Dispatch non è un pretesto per dare sfogo alla strampalata fantasia cartoonesca di Wes Anderson, ma un'opera intrisa di amore e nostalgia nella quale il giornalista è prima di tutto una figura letteraria che vive il mondo, i suoi tumulti, i suoi eventi. 


Un osservatore che utilizzando la penna, lo sguardo e le riflessioni, racconta ai lettori le meraviglie, le idiosincrasie e le follie di un presente assurdo, mai banale, nel quale nascono icone quotidiane da t-shirt e immagini impermeabili al tempo.   

 

 

[Wes Anderson sul set di The French Dispatch]

 

Guardare The French Dispatch è esattamente come leggere il numero conclusivo di una pagina giornalistica importante.

 

Il magazine fittizio diventa vivido grazie all'indolenza di Bill Murray nei panni del fondatore; è sgraziata nello sguardo sbadato ed essenzialmente brutale di Owen Wilson; si dibatte nel cuore melanconico di una Frances McDormand innamorata delle icone e delle loro umanità; riverbera un insano entusiasmo nella critica d'arte di Tilda Swinton e trova una straordinaria e suadente voce nell'avventuriero Jeffrey Wright e nel suo racconto culinario.

 

Quale che sia il vostro articolo preferito del The French Dispatch, seduti nella poltrona del cinema vi sembrerà di sfogliare l'elaborata pubblicazione redatta da giornalisti contraddistinti da una potente identità narrativa e di prosa, in un crescendo continuo, dal pezzo di costume verso le firme più autorevoli, "dotate" e affascinanti.   

 

Anderson in The French Dispatch è chiaramente innamorato di quello che sta raccontando e, per quanto il film antologico possa sembrare qualcosa di poco organico, in questo caso il suo concept così ben amalgamato con lo stilema scelto, con lo scorrere del minutaggio e la fluidità con la quale il regista fonde le varie tecniche di messa in scena e montaggio non potrà che catturarvi.

 

The French Dispatch è un po’ il C’era una volta a… Hollywood di Wes Anderson: l’omaggio a un tempo perduto portato sul grande schermo tramite il suo occhio.

 

La soundtrack è perfetta per accompagnare ogni pagina del The French Dispatch, ammantando così ogni sequenza di un particolare romanticismo che tiene lo spettatore costantemente legato al modo in cui l'autore gioca con i suoi "tic registici", con l'umore fumettistico delle vignette disegnate dagli illustratori da giornale, con le voci narranti dei giornalisti che non invadono mai lo spazio filmico - creando ridondanze - ma lasciando aria a quanto il regista sa mostrare con il suo ingegno filmico.   

 

Bianco e nero, colore, 35mm, 1,37:1 e 2,39:1, Alexandre Desplat Jarvis Cocker: così Wes Anderson celebra un giornalismo ormai dimenticato in un presente ossessionato dall'attimo e dal consumo dell'informazione senza memoria, regalando a molti degli attori coinvolti piccoli momenti preziosi di puro Cinema e omaggiando gli occhi azzurri, le labbra rosse, i corpi nudi autentici e non volgari, presenze sceniche potenti e coinvolgenti e le voci ammalianti degli interpreti, che ci guidano lungo le righe dei loro articoli scritti per il The French Dispatch.

 

The French Dispatch gioca con i formati e il colore senza mai essere inutilmente ricercato, ma puntando sempre a dare alla scena l'enfasi visiva data dalla situazione, dall'attore in scena e da cosa e come diventa protagonista di quel momento, non importa quanto breve possa essere.    

 

 

[The French Dispatch, The French Dispatch]
 

Dire che Wes Anderson fa sempre il solito Cinema è follia e The French Dispatch è dimostrazione di quanto un autore, grazie al suo personale linguaggio, possa scrivere e dirigere una lettera d'amore che sia sua nella forma, riuscendo però a toccare il cuore di ogni spettatore disposto ad ascoltare una storia dedicata a un mondo scomparso, attraverso la celebrazione di un'arte che non deve obbligatoriamente cannibalizzare se stessa, il momento o l'aspettativa di cosa verrà domani per vivere.   

 

Andate a guardare The French Dispatch e, se non ne rimarrete rapiti, chiedetevi se forse non vi stia scivolando qualcosa dalle mani o se, magari, non vi occorra più tempo per capire come mai quell'opera così particolare, in qualche modo, vi abbia comunque lasciato qualcosa nell'animo e nel cuore.

 

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1 commento

Terry Miller

1 anno fa

Non riuscii ad andare al cinema quando uscì quindi ho approfittato di Disney+ per vederlo.
La regia, il ritmo narrativo e le interpretazioni dei personaggi mi sono piaciuti, ma proprio perché lo stile di Wes Anderson mi piace, ma purtroppo non mi sono sentito coinvolto dalle storie e ho fatto una gran fatica a finirlo. Proverò a rivederlo più avanti, magari non era la serata giusta.

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