Si sa, per un regista alle prime armi esordire professionalmente rappresenta un traguardo estremamente importante, ma allo stesso tempo un’impresa parecchio complicata.
Infatti, il mondo del cinema è molto duro e spietato, e spesso non perdona l’inesperienza con la quale si producono i primi lavori.
Per questo motivo, i debutti dei principianti sono usualmente di basso spessore, nella maggior parte dei casi a causa di risorse economiche limitate.
Quante volte avete sentito parlare di registi che hanno iniziato la loro carriera con opere acerbe o fallimenti per poi maturare (per chi ce la fa) nel corso degli anni?
Sicuramente molte, perché si tratta della norma.
Per migliorare, di solito, bisogna fare pratica.
Risulta quindi evidente che riuscire al primo tentativo è atipico: tuttavia, questa lista cerca di raccogliere le migliori eccezioni in cui i cineasti si sono presentati alla critica e al grande pubblico con una pellicola di pregevole fattura.
Inutile dire che i registi in questione sono dei predestinati: tutti (o quasi, visto che per uno “tecnicamente” non è così) sono diventati tra i migliori realizzatori della storia.
Lo spettro è molto ampio: troveremo film che vanno dal cinema classico degli anni '40 fino a quello moderno di fine anni '70.
Da notare sono anche le età in cui i lavori sono stati prodotti: alcuni autori erano giovanissimi!
Quanti di questi titoli avete già visto? Di quanti ne avete già sentito parlare?
Figlio d’arte dell’attore Walter Huston, John Huston (1906-1987) si avvicina da ragazzo prima al mondo della scrittura e poi a quello della sceneggiatura per il cinema.
Il suo talento lo porta a scrivere film di successo per William Wyler e Raoul Walsh, e così decide di tentare la via della regia.
Il mistero del falco è l’adattamento (il terzo, in realtà) dell’omonimo romanzo noir di Dashiell Hammett, e vede come protagonista un detective privato (Humphrey Bogart) alle prese con diversi individui che vogliono entrare in possesso di una statuetta d’oro raffigurante un falcone.
La pellicola è diventata negli anni una vera e propria icona del cinema noir americano, soprattutto grazie ad una sceneggiatura ironica contraddistinta da una brillante caratterizzazione dei personaggi e la regia ricca di suspense e ritmo.
Entrambi firmate personalmente da Huston.
Il regista durante la sua carriera verrà candidato a 15 Premi Oscar e il suo Il tesoro della Sierra Madre nel 1949 ne vincerà tre.
Indovinate per che categoria?
Esatto: Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale e… Miglior Attore Non Protagonista a Walter Huston, suo padre.
Posizione 7
La rabbia giovane (1973) - Terrence Malick
Questo caso è forse il più eclatante della lista.
Dopo essersi laureato in filosofia ad Harvard con il massimo dei voti, Terrence Malick (1943) inizia a lavorare come giornalista freelance.
A 25 anni diventa docente di filosofia al Massachusetts Institute of Technology, ma capisce di non essere tagliato per la professione.
Così, in cerca di un nuovo lavoro, decide di buttarsi nell’industria cinematografica.
Si avvicina alla Settima Arte da mero studente, frequentando un Master all’AFI (American Film Institute).
Durante gli studi scrive e gira il suo primo cortometraggio (che gli servirà da tesi) e inizia a buttare già la sceneggiatura di La rabbia giovane.
Crede così tanto in questo progetto al punto di preparare una specie di kit di vendita contenente il concept del film, diapositive e videocassette con riprese di attori da mostrare personalmente ai potenziali produttori, in pieno stile “venditore ambulante”.
In questo modo riesce a raccogliere 200.000 dollari da investitori di ogni tipo (anche medici e dentisti), altri 200.000 dal produttore esecutivo Edward Pressman e 25.000 li mette di tasca propria.
Ma la caratteristica ancora più sorprendente è che, nonostante sia un debutto, La rabbia giovane possiede un livello di maturità artistica che normalmente viene raggiunto a metà o ai picchi di una carriera.
Il film, ispirato a fatti reali, è un road movie che vede come protagonista una giovane coppia americana (Martin Sheen e Sissy Spacek) in fuga per gli Stati Uniti mentre è braccata dalla polizia.
Nella pellicola si notano già tutti i tòpoi del regista texano: il rapporto con la natura, la violenza umana, la ricerca interiore.
L’utilizzo elegiaco della fotografia è la palese dimostrazione di quanto sia incredibile che quest’opera sia stata ideata e girata da un principiante.
La critica rimase entusiasta e viene tutt’ora considerato uno dei più potenti esordi della Storia del Cinema.
Figlio di una facoltosa famiglia protestante francese, Jean-Luc Godard (1930) cresce con le passioni della pittura, della letteratura e del cinema.
Inizia a frequentare assiduamente i cineclub, dove conosce François Truffaut e Claude Chabrol.
La sua visione critica della Settima Arte lo porta a scrivere recensioni per importanti riviste cinematografiche francesi come i Cahiers du Cinéma.
L’amore per il grande schermo si fa sempre più concreto e gira quattro diversi cortometraggi, ma è il successo del suo amico Truffaut con I quattrocento colpi che lo convince a realizzare il suo primo lungometraggio.
Dopo aver facilmente reperito i fondi per la produzione, per il suo debutto prende spunto proprio da un soggetto di Truffaut riguardante un ladro di automobili (Jean-Paul Belmondo) in fuga dalla polizia per avere ucciso un agente: nasce così Fino all’ultimo respiro.
Con questo film Godard riesce in due intenti: collaborare alla nascita della Nouvelle Vague e rivoluzionare il linguaggio classico del Cinema.
Infatti, il suo esordio è un esperimento che va contro tutte le canoniche regole registiche conosciute fino ad allora, trasformando la grammatica di un’arte che necessitava di una nuova prospettiva.
Le riprese effettuate rigorosamente solo con luce naturale, la sceneggiatura aggiornata di giorno in giorno, la presa diretta in stile documentaristico e l’ellissi temporale del jump-cut in fase di montaggio sono tutte le caratteristiche di una pellicola che ha modernizzato il cinema e, allo stesso tempo, ha segnato un suo ritorno al naturalismo.
Le innovazioni tecniche e linguistiche di Godard in Fino all’ultimo respiro hanno influenzato un’intera generazione di registi come Brian De Palma, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e George Lucas.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) dimostra addirittura dall’età di tre anni la propria passione per la poesia, passando poi alla letteratura in età adolescenziale.
A 22 anni pubblica le prime composizioni poetiche e a 33 il primo romanzo, Ragazzi di vita.
Il libro ottiene un clamoroso successo di pubblico e, nonostante il contenuto venga molto criticato e sottoposto a un processo per “oscenità”, gli permette di essere chiamato a collaborare nelle sceneggiature di alcuni film di registi di livello come Federico Fellini, Mauro Bolognini e King Vidor.
Ma è proprio l’ambientazione della sua prima opera letteraria che gli suggerisce il soggetto del suo esordio come regista, per il quale avrà come assistente un ventenne Bernardo Bertolucci.
Accattone parla di un fannullone (Franco Citti) che sfrutta una prostituta e, dopo che quest’ultima viene arrestata, si innamora di una ragazza per la quale è disposto a fare ciò che più detesta (lavorare) pur di mantenerla lontana dal marciapiede.
Lo sforzo, però, dura molto poco.
La caratteristica principale della pellicola è che, per meglio rappresentare la microsocietà della borgata romana, Pasolini ha selezionato attori esclusivamente non professionisti provenienti proprio dalla periferia della capitale.
Si tratta di una scelta non solo aperta al realismo, ma anche rivolta al ruolo che il sottoproletariato urbano rappresenta per il regista, ovvero quello di custode di speranza e innocenza in una società meschina, selvaggia e crudele.
Come il suo collega Godard solo l’anno prima, anche Pasolini esordisce nella Settima Arte sperimentando uno stile di regia molto minimale volto a modificare la struttura linguistica del cinema classico: fotografia volutamente sgranata, piani sequenza, primissimi piani e montaggio sonoro ricercato.
Del resto, la sua lunga esperienza da letterato lo ha aiutato particolarmente nell’impostazione di questa nuova struttura artistica.
Infine, per evidenziare la purezza del protagonista e spiegare che è una vittima di un’inesorabile realtà, Pasolini lo accomuna indirettamente a un Cristo incompreso, facendo accompagnare le sue gesta durante tutto il film dalle musiche religiose di J. S. Bach.
Accattone viene ricordato non solo come l’opera prima di una dei più grandi intellettuali italiani, ma anche come un vero e proprio esercizio poetico impresso su pellicola.
François Truffaut (1932-1984) nasce a Parigi da madre diciottenne e padre ignoto, ma viene riconosciuto dopo un anno dal nuovo sposo della madre.
A soli sette anni si appassiona alla letteratura francese e inizia a frequentare i cinema della capitale, spesso al posto di andare a scuola.
A 12 anni la sua infanzia si indurisce terribilmente: scopre per caso che la figura paterna che l’ha cresciuto non è il suo padre biologico, sua madre è sempre più distante e per mancanza di spazio nell’appartamento di famiglia è spesso costretto a dormire nel corridoio.
A 15 anni scappa di casa, lascia la scuola e intraprende diversi lavoretti, tra cui fondare un cineclub (fallito poco dopo) dove conosce la figura di André Bazin, il fondatore dei Cahiers du Cinéma.
Il padre lo denuncia alla polizia e lo fa rinchiudere per cinque mesi in un riformatorio, dal quale verrà tirato fuori proprio da Bazin, che gli offre un lavoro da critico cinematografico presso una delle sue riviste.
Dopo avere girato alcuni cortometraggi e aver fatto da assistente di regia a Roberto Rossellini, si sente finalmente pronto a girare un lungometraggio.
Così, dopo essere stato dichiarato persona non grata al Festival di Cannes del 1958 per alcune recensioni molto dure e aggressive contro il cinema francese dell’epoca, l’anno dopo vince proprio a Cannes il premio per la Miglior Regia con I 400 colpi.
Non c’è bisogno di approfondire troppo la trama: si tratta di una serie di peripezie di un dodicenne descritta in maniera autobiografica.
Infatti, ritroviamo molte similitudini con l’infanzia del regista: dalle anaffettive relazioni con la famiglia ai mesi passati in riformatorio, oltre ovviamente all’incondizionato amore per la letteratura francese e il cinema.
A differenza dell’amico Godard, Truffaut non desidera ristrutturare i canoni classici della grammatica cinematografica, bensì presentare una nuova prospettiva dal punto di vista contenutistico ed emotivo.
La rivoluzione della Nouvelle Vague, infatti, passerà soprattutto anche dal lirismo con il quale vengono descritti temi come l’infanzia, la famiglia e la libertà.
E di questo Truffaut è il precursore, perché è riuscito ad esprimerlo magistralmente fin dal suo esordio, con uno stile tanto intimo da arrivare a trasmettere tenerezza.
I 400 colpi rappresenta anche un’ode all’irrequietezza e, allo stesso tempo, una riflessione di come essa debba essere intesa come forma personale di espressione.
Luchino Visconti di Modrone (1906-1976) nasce da un’antica famiglia aristocratica discendente dalla dinastia dei Visconti, una delle più antiche stirpi nobili dell’Italia settentrionale.
Grazie all’influenza culturale dei genitori e parenti, si appassiona sin da giovane età all’opera lirica e al teatro, stimoli che lo portano ad andare in Francia e diventare assistente di regia di Jean Renoir, il quale diventerà una grande ispirazione per il debutto del regista.
In Francia conosce personalità antifasciste e dell’ambiente comunista e, tornato in Italia, inizia a sviluppare un’idea di Cinema che si differenzi da quella ampollosa dei telefoni bianchi.
Con alcuni intellettuali italiani inizia a scrivere un adattamento cinematografico del romanzo Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, il quale tratta la storia di una moglie insoddisfatta (Clara Calamai) che si innamora di un povero vagabondo (Massimo Girotti) e lo convince a uccidere il marito.
Non a caso Ossessione è considerato come l’antesignano o il capostipite del neorealismo italiano: infatti, Visconti si distingue dal cinema dell’epoca raffigurando i protagonisti non più come personaggi artificiosi, bensì come essere umani nei quali gli spettatori si potevano immedesimare (richiamando il realismo del suo maestro Renoir).
La realtà raffigurata nel cinema retorico di stampo fascista era finta e costruita, mentre adesso troviamo una serie di metafore a rappresentare, in maniera totalmente cruda e trasgressiva, diverse emozioni e sensazioni: sensualità, attrazione sessuale, omosessualità, libertà, illusione e, appunto, ossessione.
Basti pensare che il personaggio della Calamai viene introdotto con un’inquadratura delle sue gambe e che quello di Girotti è spesso a torso nudo o con una canottiera attillata.
L’importanza di quest’opera risiede quindi nella forza espressiva e nell’audacia con le quali Visconti rappresenta una realtà pessimistica, deludente, avvilente e misera in contrasto con i dettami cinematografici dell’Italia degli anni '40.
La pellicola, infatti, fu prima sottoposta a diversi tagli di censura e poi tolta dalla circolazione attraverso l’eliminazione delle copie esistenti.
Tuttavia, il regista riuscì a nasconderne una, dalla quale deriva la versione che tutti ora possiamo ammirare.
Charles Laughton (1899 – 1962) è stato un ottimo attore britannico di teatro e di cinema, insignito nel 1934 con l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per Le sei mogli di Enrico VIII.
L’attore ha all’attivo più di 50 film dove è stato diretto da la crème de la crème di Hollywood: Cecile B. De Mille, Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Howard Hawks, David Lean, Billy Wilder, Otto Preminger e Stanley Kubrick.
Forse è anche grazie all’esperienza nelle collaborazioni avute con questi grandi autori che decide di provare la via della regia per il cinema (per il teatro ci aveva già provato).
Paul Gregory, un suo amico produttore, legge il romanzo The night of the hunter di Davis Grubb e gli propone di dirigerlo.
La sceneggiatura viene curata dal premio Pulitzer James Agee e vede come protagonista un assassino psicopatico che si finge pastore protestante (interpretazione magistrale di Robert Mitchum) alla ricerca di una somma di denaro nascosta e custodita da una coppia di bambini, fratello e sorella.
L’estrema originalità di questa opera prima deriva anche da un congiunto di influenze diverse tra cui lo stile classico di David W. Griffith, il realismo poetico francese degli anni ’30, l’introspezione del cinema scandinavo di Carl Dreyer e Ingmar Bergman e specialmente l’espressionismo tedesco degli anni ‘20.
Infatti, è proprio questo influsso artistico che Laughton sfrutta per meglio rappresentare l’animo inquietante del romanzo: fotografia in bianco e nero (bellissima e firmata da Stanley Cortez), primi piani, inquadrature oblique con giochi di luci e ombre, scenari a tratti fiabeschi o surreali.
L’atmosfera viene resa ancora più angosciante anche grazie alla funerea colonna sonora comprendente inni religiosi cantati a cappella.
Si tratta, in conclusione, di un dramma morale che mette in palese contraddizione il bene e il male attraverso una critica al fondamentalismo cristiano.
Ma ora: perché in questa classifica di registi predestinati Laughton viene considerato un’eccezione?
Semplicemente perché all’epoca il messaggio del film non fu capito, al botteghino fu un disastro e Laughton… non tornò più a dirigere.
Il regista britannico esordì con un capolavoro al suo primo e unico tentativo.
Il prodigio, il regista predestinato per antonomasia.
Orson Welles (1915-1985) nasce da una ricca famiglia originaria del Virginia che lo avvicina sin da bambino al mondo dell’arte.
Si appassiona alla pittura, ma soprattutto al teatro.
Rimasto orfano a 15 anni, decide di tentare la carriera da attore in Irlanda, ma senza successo.
Il suo talento, però, è un fiume in piena: tornato a New York, debutta a Broadway a soli 19 anni.
In soli due anni diventa una star teatrale e a 22 fonda il Mercury Theatre, una compagnia di prosa.
La nuova impresa lo rende ancora più celebre e la compagnia viene invitata spesso alla radio per interpretare opere letterarie classiche.
Qui, la svolta: l’adattamento radiofonico de La guerra dei mondi di H. G. Wells viene interpretato dall’attore come una versione di un radiogiornale in cui si racconta l’arrivo degli alieni sulla terra.
La trasmissione scatena il panico in tutti gli Stati Uniti e gli vale un contratto mai visto a Hollywood per realizzare tre film con la RKO.
Infatti, a soli 25 anni, Welles diventa il primo regista a ricevere la libertà artistica assoluta da una casa di produzione per un film d’esordio.
Quarto potere vede come protagonista Charles Foster Kane, un magnate della stampa che muore in solitudine nel suo maniero all’inizio della pellicola.
Prima di spirare, pronuncia una parola il quale significato è incomprensibile a tutti.
Al fine di svelare l’arcano, un giornalista indaga nell’infanzia del tycoon intervistando amici e conoscenti.
Considerato dalla maggior parte di critici come il miglior film mai realizzato della Storia del Cinema, fa ancora più impressione se si pensa che oltre ad essere un debutto fu scritto, diretto e prodotto da un venticinquenne neofita.
L’originalità di Quarto potere rispecchia appieno il genio di Welles: la narrazione del film è costruita a incastro tra un cinegiornale e un’inchiesta attraverso delle testimonianze che parte da un fatto compiuto e si sviluppa a ritroso.
I flashback sono utilizzati ad arte per presentare il personaggio principale e, allo stesso tempo, svelare il mistero che aleggia attorno alla trama.
Una caratteristica ancora più sorprendente è il coraggio con il quale il giovanissimo Welles vuole presentarsi al mondo della Settima Arte: se da un lato la morte del personaggio di Charles Kane rappresenta una metafora dell’ascesa e decadenza del sogno americano, dall’altro rappresenta anche l’assassinio del cinema classico per mano di quello moderno, utilizzando come arma la potenza espressiva della pellicola in questione.
Quarto potere incarna l’ambizione di un giovane regista che ha voluto racchiudere in una sola pellicola non solo l’intera esistenza di un essere umano dalla nascita alla caduta, ma anche la grandezza della sua passione e del proprio genio.
Nasco a Genova poco più di trent'anni fa, anche se chi mi conosce bene giura che siano molti di più. Sono visceralmente appassionato della settima arte in tutte le sue forme ed espressioni (perfino le peggiori), con una predilezione particolare per il genere Western. Dall'amore per il grande schermo è nato inoltre un forte interesse per le serie televisive coltivato con speciale attenzione. Sono pure un patito di politica, che cerco di capire anche attraverso il cinema. Attualmente in trasferta a Bruxelles.
Lorenzo Rinaldi
5 anni fa
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Lorenzo Casarini
5 anni fa
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