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8 film indispensabili sulla vecchiaia

Quali sono i film che descrivono degnamente la senilità? 

Quali sono i film che descrivono degnamente la vecchiaia, la senilità, la terza età?

 

Saggezza, consapevolezza, solitudine.

Tempi dilatatissimi per riuscire a cogliere i frutti seminati, interiorizzare e accettare ciò che è stato, ciò che è e quel che sarà.

 

È la vecchiaia: il corpo si deteriora, i ricordi vengono filtrati, rimane ciò che vale la pena essere conservato e i dettagli superflui, ma che intensificano la memoria.

L’amore nelle sue varie forme affonda le radici nel profondo scevro della superficialità, arricchito piuttosto che annichilito dalla quotidianità che ha scalfito la prova del tempo.

 

Gli anziani hanno vissuto sulla propria pelle numerose stagioni, l’intervallarsi di vita e di morte, le nascite e le perdite e portano sulle spalle il peso di ogni rimpianto, rimorso, sconfitta.

Eppure il percorso della vita, al contempo lunghissimo e breve come un battito di ciglia, si avvia alla conclusione nella consapevolezza che è la meraviglia che riusciamo a provare di fronte alle piccolezze che il mondo offre a rendere gli uomini davvero umani. 

 

Nel Cinema, come nella vita, l’ossessione nei confronti della prestanza fisica e della giovinezza diventa sempre più viva e l’adolescenza viene mitizzata come assoluta età di vigore e rigogliosità.

 

I ritmi sincopati del Cinema non lasciano spazio alle storie nascoste tra le rughe, solchi profondi sul viso e nel cuore.

 

Allora i media ci propongono gli anziani spesso come delle macchiette, buffe creature dal retrogusto quasi folkloristico, racchiuse nel loro mondo fatto di feticci, di portapillole e di ricette i cui ingredienti segreti verranno seppelliti assieme a loro. 

 

Ma ci sono film che al contrario riescono a rappresentarne la poesia.

 

Vediamo insieme quali. 



Posizione 8

Una storia vera

David Lynch, 1999

 

Una storia vera è un film del 1999 diretto da David Lynch, con Richard Farnsworth, Sissy Spacek e Harry Dean Stanton.

 

Siamo abituati alle digressioni oniriche e all’apologia dell’assurdo di Lynch, ma in questo caso ci troviamo di fronte alla sua opera più tradizionale, seppur non priva della forza espressiva che rende il celebre regista di Missoula un racconta storie oltre che un Maestro del grottesco.

 

Questo film racconta la vicenda - tratta appunto da una storia vera - di Alvin, un agricoltore anziano e senza patente che nel 1994, a bordo del suo trattore tosaerba, affrontò un viaggio di sei settimane percorrendo 400 chilometri alla velocità di 8 kmh per riappacificarsi con il fratello malato.

 

Alvin, testardo e genuino, affronta questo viaggio eterno con pazienza e saggezza.

 

Ogni chilometro macinato a bordo del tosaerba assume un gusto speciale, ogni tramonto che si staglia all’orizzonte dei campi infiniti viene goduto, ogni discorso con le persone incontrate non è banale, perché non esistono persone banali ma soltanto interlocutori che non hanno voglia di ascoltare.

 

Alvin è l’ultimo dei romantici.

 

Un Ulisse dalle mani callose, il viaggio è il mezzo necessario per somatizzare il risentimento covato per anni nei confronti del fratello, superarlo, trovare le parole per la riconciliazione.

 

Posizione 7

Up

Pete Docter e Bob Peterson, 2009

 

Questo gioiello Pixar del 2009 ha portato il lutto e la senilità in un film di animazione per lo più infantile.

 

Up racconta la storia del settantottenne Carl che vuole realizzare il sogno di sua moglie Ellie, da poco defunta.

In un breve ma intensissimo montage veniamo a conoscenza della storia della coppia: i due si conoscono da bambini e si sposano nella casa dove giocavano.

Trovano successivamente lavoro nello zoo locale ma non riescono ad avere figli a causa della sterilità di Ellie. 

Carl decide di mettere da parte i risparmi per recarsi alle Cascate Paradiso in Venezuela, un luogo esotico e paradisiaco in cui hanno sempre sognato di andare.

 

Eppure, come spesso accade, i risparmi finiscono per essere un fondo cassa per bollette, spese mediche, riparazioni.

Quando pare che tutto sembri allinearsi a favore del viaggio la morte fa capolino nella loro vita: Ellie spira e Carl diventa scorbutico e misantropo, vivendo nei rimpianti e nel passato.

Un inconveniente esterno e uno sfratto forzato lo risvegliano dal torpore del dolore e lo spingono a fuggire proprio lì dove non si era mai recato, alle Cascate Paradiso, a realizzare il suo sogno e a ritrovare la gioia di vivere a bordo della sua casa, una sorta di vascello trasportato da centinaia e centinaia di coloratissimi palloncini. 

A contatto con un bambino rotondetto e ingenuo, e con un cane parlante tontolone ma buono, Carl ritrova se stesso e ci trasmette una lezione tanto facile da esporre quanto difficile da far propria: non è tanto importante raggiungere la meta, ciò che è davvero fondamentale è godersi a pieno il viaggio.

 

La sua vita con Ellie è stata intensa e ricca d’amore nonostante non siano riusciti a realizzare il sogno di andare alle Cascate Paradiso e di formare una famiglia.

 

Posizione 6

Youth - La giovinezza

Paolo Sorrentino, 2012

 

Youth è un film del 2012 sulla vecchiaia di due amici in un resort svizzero: Fred (Michael Caine), direttore d’orchestra di fama internazionale che è sprofondato in uno stato di apatia e Mick (Harvey Keitel), regista il cui obiettivo e ossessione è dirigere un testamento che sia anche il suo capolavoro.

 

Entrambi sono agli sgoccioli della propria carriera.

Trascorrono il tempo passeggiando, ricordando, osservando gli altri, sostanzialmente in un tripudio di vuoto il cui obiettivo è osservare e venerare il simulacro del passato e della giovinezza. 

In questo resort per ricchi annoiati le generazioni si confrontano, accomunate dalla stessa noia, dalla stessa insoddisfazione spesso immotivata, dagli stessi silenzi, dalla stessa attrazione sessuale fine a se stessa che rappresenta il punto d’incontro tra il questo circo d’ispirazione felliniana, l’alta borghesia e gli animali.

 

Non c’è spazio per il decadimento, la prestanza è l’unico valore, il corpo statuario di Miss Universo ce lo ricorda, sinuoso e arrogante, giovane e fecondo, statua rappresentativa del valore ossessivo del corpo in una realtà che non accetta né le pieghe delle rughe né quelle della volontà. 

Il resort sulle Alpi è una prigione dorata, dove un falso Diego Armando Maradona mostra la sua abilità con una pallina da tennis, una giovane stella del Cinema si sente oppresso nel ruolo mainstream per cui è conosciuto, una coppia di coniugi annoiati non sanno che dirsi e conoscono solo la lingua del sesso.

 

Per quanto sia Mick quello che sembra non aver perso l’entusiasmo, ben presto si comprende che il suo affannarsi per un ultimo grandioso film è la forma di diniego più cocciuta.

A trovare pace e accettazione sarà Fred che, dopo essersi rassegnato alla fine della giovinezza, potrà di nuovo accogliere l’unica cosa che non è soggetta al consumo nel tempo: la bellezza della sua musica.

 

Posizione 5

Il posto delle fragole

Ingmar Bergman, 1957

 

L’illustre professore Isak Borg (Victor Sjöström) viene insignito di un prestigioso premio accademico e dovrà recarsi in un’altra città per ritirarlo.

 

La sua giornata inizia con un incubo ambientato in una città sconosciuta, tra orologi privi di lancette, carri funebri e un morto vivente che ha il suo volto.

La nuora Marianne, in crisi matrimoniale con il figlio cinico e pessimista, propone di fare il viaggio insieme a lui.

 

Questo road movie diretto da Ingmar Bergman nel 1957 inizia con un sogno esplicativo, la maschera rigida del professore si incrina a favore di una riscoperta di sé e delle proprie paure, a discapito della sua rigidità, della sua integrità e del suo successo nella vita.

Borg ha settantotto anni, è un uomo perbene il cui egoismo è sempre stato ben celato dietro modi raffinati.

Il suo passaggio nella vita delle persone che gli sono state vicine ha lasciato aridità, tanto abile come studioso Borg è totalmente analfabeta nella lingua dei sentimenti.

Il mondo onirico e quello reale confluiscono uno nell’altro continuamente, il viaggio non è solo fisico ma è anche mentale, in sequenze e dissolvenze che tutt’oggi apparterrebbero al cinema d’avanguardia.

Borg ha modo di confrontarsi con il fanciullino pascoliano che è dentro di lui e che ha represso in una vita dedicata totalmente alla razionalità. 

 

Nel Cinema di Bergman l’assurdo e l’illusione che tentiamo di sopraffare prima o poi riemergono violenti e prepotenti.

Il posto delle fragole è un luogo che appartiene alla memoria, ma è anche metafora di quella parte di noi capace di godere della meraviglia del fanciullo.

 

Il finale del film è positivo, seppur con notevole ritardo Borg si rende conto che è ancora possibile cambiare condotta in favore di un atteggiamento più positivo e aperto all’affetto, alla costruzione del rapporto con gli altri, a partire dalla nuora e dal figlio.

Alla fine Borg riesce a piantare i semi della serenità, seppur tardiva: nemmeno a un passo dalla morte è troppo tardi per redimersi.

 

Posizione 4

Vivere

Akira Kurosawa, 1952

 

L'impiegato comunale Watanabe (Takashi Shimura), vedovo da venticinque anni, scopre di avere un tumore allo stomaco e decide di godersi gli ultimi mesi di vita. 

La domanda che permea ogni esistenza, anche nei momenti in cui pare la goliardia schiacci la riflessione, è sempre quella: qual è il senso della nostra vita? 

 

Watanabe si rende conto di non aver dato un significato alle sue azioni, di aver vissuto inglobato in un sistema di ripetizioni e fatti, senza essere riuscito a imprimere la sua presenza nel mondo.

Soffocati da una burocrazia complessa, da una società poco amichevole ed entusiasta nei confronti di chi vuole provare a spostare qualche tassello, schiacciati dal peso di abitudini, di quotidianità e noia spesso finiamo per ignorare ciò che è importante. 

 

Dopo L’Idiota, tratto dall’omonima opera di Fëdor Dostoevskij, Akira Kurosawa nel 1952 ripete il tentativo di portare sullo schermo un dramma intimista e esistenziale.

A un passo dalla fine il protagonista, dopo un’illuminazione a cui sussegue un impeto eroico, si batte con dedizione per la costruzione di un parco giochi per bambini, superando tutti gli ostacoli burocratici posti dall’amministrazione comunale alla sua realizzazione. 

L’opera degli anziani per i bambini, e così il ciclo della vita si chiude dove si è aperto, l’anzianità converge nell’infanzia, nella semplicità di un parco giochi, dove si è lontani dalla macchina brutta e rumorosa della pubblica amministrazione, dei rimpianti, delle illusioni. 

 

La pubblica amministrazione si vanta della realizzazione del parco giochi dopo la morte di Watanabe provocando nello spettatore rabbia e disillusione: eppure l’eroismo silenzioso dei piccoli gesti di un anziano sarà un atto di sovversione in un mondo fatto di ipocrisia e scartoffie. 

Non c’è violenza e non c’è prestanza fisica, non c’è nemmeno una sommossa, ma solo il piccolo desiderio di un uomo medio agli sgoccioli della propria esistenza.

 

Posizione 3

Amour

Michael Haneke, 2012

 

Nel 2012, tre anni dopo la vittoria al Festival del Cinema di Cannes per Il nastro bianco, il regista austriaco torna a trionfare in Francia con questa sua opera d’amore e malattia. 

È la storia di George (Jean-Louis Trintignant) ed Anne (Emmanuelle Riva), due anziani professori di musica in pensione, che godono l’inverno della loro vita in pace ed armonia. 

A interrompere il loro idillio borghese sarà un’inaspettata malattia di Anne.

Pian piano la malattia peggiora e della Anne che ha sposato George rimarrà ben poco.

È relativamente semplice accettare la morte quanto è difficile essere coscienti del percorso che porta a questa, le ultime vie della vita da percorrere prima di affrontare l’ignoto.

 

Il sogno di tutti è morire nel sonno, spirando serenamente. 

Nel momento in cui insorge una malattia che progressivamente limita prima la propria indipendenza e poi le funzioni vitali, è difficile accettare il proprio destino.

 

Amour, nella poetica ed elegante messinscena hanekiana, spinge a chiedersi se è vita una vita in cui si ha difficoltà a compiere i gesti più naturali ma triviali che si possa pensare di fare, come alzarsi dal letto o andare in bagno. 

Neppure la saggezza della vecchiaia rende pronti a vedersi o a vedere la persona che si ama perire sotto il peso di una malattia inarrestabile che priva lentamente, ma inesorabilmente, della dignità prima ancora della vita.

I coniugi si aggrappano a sfuggenti memorie, a piccoli e momentanei miglioramenti, come se questi fossero boccate d’aria dopo giornate rinchiusi in una cella. 

Le stesse mura domestiche, teatro del film, divengono prima nido d’amore puro e poi prigione dorata di ricordi e dolore senza fuga. 

 

Nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia: il cinema ci abitua sempre di più a film d’amore leggeri in cui questa promessa non è altro che una locuzione vuota che appartiene a un futuro che travalica le pagine dello script.

Amour è un piatto indigesto servito dalla mente acuta di Haneke che ci pone davanti alla concretezza di queste parole. 

Il dramma dell’amore non è solo l’amore non compiuto, la mancanza di tempismo e l’incomunicabilità, ma è anche qualcosa di molto più viscerale, semplice, naturale ma altrettanto distruttivo.

 

Posizione 2

Umberto D.

Vittorio De Sica, 1952

 

La grandezza del Cinema e dell’arte in generale non ha un inizio e nemmeno una fine: è l’universalità che abbraccia ogni tempo e ogni spazio a fare da contorno. 

Il caso di Umberto D., diretto da Vittorio De Sica nel 1952, è uno di questi.

 

Ambientato nell’Italia a ridosso del boom economico, del divismo e della crisi del neorealismo, la storia parla del pensionato Umberto (Carlo Battisti), povero economicamente e piuttosto solo: vive con il cane e la domestica, è perennemente a rischio di sfratto, ritiene che l’unica possibilità di pace sia nella morte. 

Per quanto paia una trama circoscritta nella storia del nostro Belpaese possiamo traslare Umberto su qualsiasi coordinata del globo terracqueo e vedere come esistano, nei flussi perenni dei cambiamenti e delle rivoluzioni, categorie umane lasciate in disparte, abbandonate a loro stesse.

 

Spesso gli anziani fanno parte di questa categoria, deteriorati nel corpo e nello spirito, ma spesso ricchi come Umberto di un valore inestimabile: la dignità. 

La dignità a volte trabocca nell’orgoglio, nell’incapacità di chiedere aiuto, ma rimane una qualità ineccepibile, una colonna portante dell’essere umano.

Nel rigoglio dell’Italia totalmente avvolta nell’abbraccio americano del dopoguerra la presenza di un cagnolino, il cui affetto è scevro di artefatti, sarà ciò che permetterà a Umberto di riconciliarsi con il mondo.

 

L’empatia tra due esseri viventi commuove e spacca lo schermo nel suo silenzio, tra il tripudio di urla e rumori della città, rimanendo impresso nella Storia del Cinema nostrano e mondiale.

 

Posizione 1

Viaggio a Tokyo

Yasujiro Ozu, 1953

 

Siamo di nuovo di fronte a una coppia di coniugi: Shukichi (Ryu Chishu) e Tomi (Higashiyama Chieko) lasciano la campagna di Onomichi per rendere visita ai figli che vivono e lavorano a Tokyo: Koichi è un medico di quartiere con una famiglia ma poco tempo per seguirla e Shige è una parrucchiera particolarmente interessata ai beni materiali.

I due coniugi vengono rimbalzati da un figlio all’altro, che non hanno né tempo né voglia di scarrozzarli in giro per la capitale. 

I due protagonisti, nonostante un approccio dolce e comprensivo nei riguardi dei familiari, non riescono a interagire nemmeno con i nipotini.

L’unica ad accogliere i due anziani è la nuora vedova Noriko, interpretata da Setsuko Hara, altra attrice feticcio di Ozu.

 

I genitori sono delusi dai figli, si sono aspettati troppo: oltre a non aver intrapreso carriere brillanti sono diventati freddi e cinici.

I due anziani, seppur incantati dallo sfrigolio della roboante Tokyo del dopoguerra, si sentono fuori luogo.

Sono i semi dell’alienazione metropolitana che cresceranno rigogliosi nel cinema giapponese contemporaneo.

 

Per quanto i due dolci vecchietti paiano vittime di questo sistema, il Cinema di Yasujiro Ozu non si perde mai in moralismi spiccioli: l’involuzione sociale e morale dei figli è contrapposta a un passato accennato in cui Shukichi ha avuto il vizio dell’alcol.

La mancanza di attenzione dei figli nei riguardi dei genitori pare una conseguenza inevitabile di una società in cui tutti hanno fretta e manca il tempo materiale per fare qualsiasi cosa.

Noriko dovrebbe risposarsi e dimenticare il marito defunto, ma se la guerra finisce su carta non è detto che finisca nel cuore delle persone.

La sua anima candida è senza tempo, ma la sua gentilezza è anche fonte di sofferenza; se Noriko agli occhi del mondo non è nient’altro che una zitella, la sua purezza e gentilezza viene capita ed apprezzata fino in fondo dai due anziani. Il conflitto generazionale non è sempre esplosivo ma può essere anche il germoglio per un rapporto solido e catartico, in ambedue le direzioni.

 

La telecamera fissa e centrale ad “altezza tatami”, caratteristica del Cinema di Ozu, non sta a testimoniare le azioni dei protagonisti quanto più il semplice scorrere del tempo, così come comuni rumori come quello dei battipanni o lo sferragliare di un treno.

Questo stile si adatta ai tempi dilatati dei due anziani e all’incedere della loro rassegnazione.

 



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17 commenti

Benito Sgarlato

5 anni fa

Appena finito di guardarlo ho subito pensato che sarebbe stato un bellissimo cortometraggio (max 40 min), che forse sarebbe stato meglio del lungometraggio così com'è uscito

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Sì, è divertente pensare come il suo unico film "normale" sia quello più sui generis :D

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Up lo si può vedere sia da bambini che da adulti!

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Figurati :3

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Figurati :3

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Sebastiano Miotti

5 anni fa

Oh che bella notizia

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Quando pubblico una top 8 cerco sempre di spaziare tra i generi, tra le epoche e le nazioni! Up rappresentava quel punto di vista "infantile" a questo argomento.
Pare che siano stati comprati i diritti per fare un film d'animazione su un'avventura grafica molto bella che si chiama To the moon e spero che, con la bellezza di quella storia, possano fare qualcosa ancora più stupefacente di Up! Ci ho pensato perché la storia di Up me lo ricorda molto ma è ancora più profondo

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Sebastiano Miotti

5 anni fa

Anche io, ma questo perché di Up credo sia splendida solo la prima ora di film al massimo. Probabilmente qualcosa meno

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Claudio Serena

5 anni fa

Per me è facile rispondere: UP
non amo i film d'animazione della Pixar & Co.
Il mio cuore appartiene all'animazione giapponese, con Miyazaki sopra tutti

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Lorenza Guerra

5 anni fa

Curiosità: cosa sostituireste per Gran Torino o Nebraska?

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