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#top8

8 film rinchiusi tra le mura di una prigione

In questo torrido agosto vi parliamo di film ambientati in carcere, sperando che in alcune celle ci sia l'aria condizionata

Per un articolo che parla di film ambientati in prigione lascio la parola a qualcuno che sapeva bene come dire le cose:

 

"I bet there's rich folks eating in a fancy dining car, 

they're probably drinkin' coffee and smoking big cigars. 

Well, I know I had it coming, 

I know I can't be free, 

but those people keep a-movin', 

and that's what tortures me..."

 

Non credo esistano modi migliori per presentare una Top 8 a tema carcerario che con le parole del grande Johnny Cash e della sua Folsom Prison Blues, di cui consiglio l'ascolto nella versione live davanti al pubblico dei residenti del carcere omonimo. 

 

La canzone parla di due elementi fondanti del Cinema, come i treni, protagonisti di una delle prime vedute proiettate dai Fratelli Lumière nella serata che di fatto inaugura il viaggio pluricentenario della Settima Arte, e l'evasione, la fuga dalla propria realtà scomoda e stringente verso un mondo idealizzato di fantasia. 

L'evasione - anche letterale - è ovviamente un tema cardine del Cinema carcerario, un sottogenere che è stato declinato in diversi registri ma che ha goduto, sin dall'epoca della Hollywood classica, di un enorme successo.

 

Da Io sono un evaso di Mervyn LeRoy a Forza bruta di Jules Dassin con Burt Lancaster (che ritroveremo più avanti), fino a Rivolta al blocco 11 di Don Siegel, regista molto affine a queste tematiche e autore di un film considerato da Quentin Tarantino come un esempio imbattuto di grande Cinema carcerario.  

 

 

 

Nel corso della sua storia il sottogenere carcerario è stato raccontato in chiavi diverse: dal neo-noir de Il profeta di Jacques Audiard al thriller di Cell Block 99 - Nessuno può fermarmi, a sua volta omaggio all'exploitation di titoli come Penitentiary di Jamaa Fanaka e Riki-Oh di Lam Ngai-kai, passando per tutto la corrente del women-in-prison, a partire dalla serie giapponese Female Prisoner per arrivare a titoli campioni di sleaze come The Big Doll House e Chained Heat.

 

Le storie raccontate dal Cinema carcerario sono storie che riguardano la persona nel profondo: gli aneliti di libertà, il coraggio di sognare un futuro migliore, ma anche il confronto con il passato e con la redenzione.

Tra i sottogeneri cinematografici, quello carcerario si dimostra da sempre uno dei più sovversivi, in quanto è tra i più feroci nell'attaccare il sistema e tra i più coraggiosi nel porsi domande scomode, che riguardano la morale e le condizioni di vita vissute in contesti artificiali lontanissimi dagli agi della quotidianità.

 

Il carcere, infatti, è un micromondo che si presta bene al laboratorio dell'immaginazione cinematografica e letteraria, in quanto ambiente governato da regole che derivano dal modello del mondo "normale", ma che sono estremizzate in chiave di castigo e rieducazione; come diceva Hanna Arendt "L'uomo è fatto per la libertà e per la politica; la prigione è l'assenza di libertà e l'esclusione dalla politica".

 

L'ambiente soffocante del carcere, le condizioni di igiene e salute precarie, la convivenza forzata con persone di diversa provenienza sociale e razziale sono ostacoli che spesso emergono nei racconti carcerari: il Cinema ha cercato di raccontare storie di "laboratorio sociale," in cui la cooperazione forzata tra individui eterogenei porta alla creazione di una società alternativa e, per certi versi, utopistica, laddove sorge dal crollo delle abitudini e dall'abbandono dei codici della società civile.

Il Cinema carcerario segue a grandi linee due macrotendenze, due movimenti, uno centripeto e l'altro centrifugo, a seconda che si raccontino le condizioni di vita interne agli istituti di rieducazione o l'idea romantica della fuga e dell'abbattimento delle barriere.

 

Partiamo da questi ultimi, in quanto sono i più coinvolgenti e ricchi di azione: l'evasione nel Cinema carcerario può essere di fantasia, come nel caso del detenuto della ballata di Johnny Cash, oppure realizzarsi in un piano d'azione radicale di piegamento del sistema. 

 

 

 

Voglio citare qui due esempi eclatanti, per quanto profondamente diversi tra loro: il tesissimo Fuga da Alcatraz (sempre di Don Siegel), in cui un Clint Eastwood all'apice della popolarità guida un manipolo di detenuti nell'impresa di fuggire da un luogo per definizione inespugnabile, e il chirurgico Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson, in cui l'evasione è raccontata per sottrazione e concentrazione sui particolari, sui gesti, sulle mani. 

 

Se a Siegel interessa il carcerato come figura titanica che inganna il sistema riuscendo a sconfiggerlo, a Bresson non interessa tanto l'evasione in sé (tanto che il titolo del film declina la fuga al passato, come azione già data per compiuta), quanto la progressiva perdita di senso di gesti e azioni messa in atto da un sistema che usa la dilatazione del tempo come mezzo di tortura e la nascita di una nuova manualità, scandita dalla precisione della disperazione.

In Un condannato a morte è fuggito il mutamento del tempo ha effetti diretti sul modo di vivere: Bresson, come al solito, è preciso e puntuale nell'esplorazione e nella messa in scena della rivoluzione del gesto.

 

I due film citati sono solo l'apice del film carcerario, che spesso usa la chiave elettrizzante del film d'azione per incollare lo spettatore allo schermo: a volte la fuga dal carcere deve risultare così difficile e appagante che si sfora nella fantascienza distopica, come nel caso di titoli che a mio avviso meriterebbero una riscoperta come Fuga da Absolom e 2013 - La fortezza.

 

Altre volte invece viene scelta la chiave della commedia o, nel caso di Galline in fuga di Nick Park, la tecnica dell'animazione, antropomorfizzando dei pennuti in fuga da un allevamento intensivo in un aggiornamento tutto british de La fattoria degli animali (ce ne parla in questa Top 8 la nostra esperta di animazione Eris Celentano).

 

Passando al movimento centripeto, troviamo storie non tese alla fuga ma alla resistenza all'interno del sistema: spesso l'imprigionato è dipinto come un eroe in ribellione sia fisica che spirituale: paradigmatici sono due film di cui ci parlano qui, rispettivamente, Jacopo Gramegna ed Emanuele Antolini, uno che precede di poco la New Hollywood e uno che ne coglie in pieno lo spirito. 

Sto parlando de L'uomo di Alcatraz di John Frankenheimer (autore di cui non viene mai abbastanza riconosciuta la grandezza e l'influenza), tratto da una storia vera e interpretato da un Burt Lancaster in stato di grazia, e di Nick mano fredda di Stuart Rosenberg, di cui il protagonista interpretato da Paul Newman rappresenta proprio il paradigma dell'eroe che si oppone agli aguzzini (in questo caso, come spesso accade, le guardie carcerarie, antagonisti per eccellenza del Cinema carcerario).

 

Si crea qui un problema morale che solo la fiction può porre efficacemente: se l'eroe è il carcerato quanto importa ciò che ha fatto? 

 

In alcuni casi, infatti, il crimine è del tutto ignorato, mentre in altri l'eroe è incarcerato ingiustamente come ne Le ali della libertà di Frank Darabont, tratto da una delle rare escursioni di Stephen King fuori dall'horror e formante un dittico ideale con Il miglio verde, sempre dagli stessi autori.

 

 

 

Il problema della colpa e della commisurazione della pena è centrale in molti film carcerari che dipingono spesso situazioni autenticamente kafkiane: è il caso di Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy, con un grande Alberto Sordi, di cui ci racconta in questa Top 8 Riccardo Melis, o di Fuga di mezzanotte di Alan Parker, ispirato alla storia vera di un uomo arrestato in Turchia per spaccio di hashish e costretto a un calvario disumano, come ci racconta qui sotto Teo Youssoufian.

 

Il carcere è un mondo in cui le leggi del mondo esterno vengono distrutte e rimodellate, sia dagli aguzzini sia dai carcerati stessi, costretti a creare veri e propri modelli sperimentali di convivenza: quale ruolo gioca l'etica o un senso generale di umanità in queste situazioni? 

 

È la domanda che si pongono Miguel Piñero e Robert M. Young in un piccolo grande film ingiustamente dimenticato come Esecuzione al braccio 3, epitome del detto sartriano per cui "l'inferno sono gli altri", in cui l'introduzione di un elemento tanto alieno ai codici morali come un pedofilo mette in crisi la sottile linea di equilibrio su cui si gioca la convivenza dei detenuti in un carcere di Manhattan. 

Il film si chiude con una chiosa sulla perdita dell'umanità da parte di un giovane prigioniero rilasciato su cauzione; gli effetti del carcere sulla crescita, negli istituti di rieducazione minorile, è al cuore di un cult del Cinema italiano, Mery per sempre di Marco Risi, di cui ci parla qui Elena Bonaccorso: un ritratto della brutalità del carcere e del potere dell'educazione, oltre che della necessità di creare comunità e di accettare chi viene percepito come diverso, tanto in carcere quanto nella società cosiddetta civile. 

 

Da gustare in compagnia di classici come Scum di Alan Clarke, capace di rivoluzionare le leggi in ambito di incarcerazione minorile in Gran Bretagna, o di perle da riscoprire come Bad Boys di Rick Rosenthal, guidato dal carisma di un giovanissimo Sean Penn in rampa di lancio.

 

Chiude il nostro excursus un altro grande film italiano, forse il grande testamento artistico dei Fratelli Taviani: in Cesare deve morire il potere dell'arte, nella forma del Teatro, crea un dialogo tra i detenuti e le loro controparti finzionali, in un esperimento catartico di collettività in cui imparare a recitare diventa prova generale di libertà ed evasione sul piano più alto, quello spirituale. 

 

Evasione come arte quindi, evasione come Cinema, balsamo che rigenera e crea i germi per una vera rivoluzione e per una distruzione definitiva delle sbarre e delle catene.

 

[Introduzione a cura di Marco Lovisato]

 

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Posizione 8

L'uomo di Alcatraz

di John Frankenheimer, 1962

 

L'uomo di Alcatraz è un'opera in grado di cogliere le varie sfaccettature e funzioni della detenzione e mostrare l'evoluzione di un essere umano costretto a una pena carceraria.

 

Il film narra la vita di Robert Stroud, che finisce in prigione per aver ucciso un uomo reo di aver malmenato una prostituta.

Destinato a scontare 9 anni uccide in un raptus una guardia carceraria, subito dopo aver saputo che sua madre aveva cercato invano di fargli visita.

 

Inizialmente condannato a morte, proprio grazie all'intercessione della sua amata madre la sua pena viene commutata in un ergastolo in isolamento: da quel momento la sua intera esistenza viene rivolta dapprima all'ornitologia e poi alla conoscenza nel senso più ampio. 

 

Il film di John Frankenheimer, ispirato alla vera storia alla base del libro The Birdman of Alcatraz, è lontano dai ritmi frenetici e dalla carica adrenalinica che avrebbero contraddistinto alcune delle successive opere del regista, ma ne mostra l'assoluta maestria anche nel costruire un character study interamente ambientato tra le mura delle prigioni che hanno ospitato Stroud, tra le quali l'ormai leggendaria Alcatraz. 

 

Servendosi di una regia quasi invisibile al servizio della recitazione e della narrazione, Frankenheimer riesce a tratteggiare con asciuttezza le dinamiche carcerarie senza mai tralasciare la fascinazione del racconto. 

 

A sublimare la pellicola c'è a mio avviso una delle migliori interpretazioni di Burt Lancaster, che decostruisce via via l'emotività del personaggio, passando dai seppur sporadici eccessi d'ira e dalle tensioni che contraddistinguono il personaggio a inizio opera a un'elegante pacatezza: per la sua prova vinse la Coppa Volpi alla 27ª Mostra di Venezia. 

 

A coadiuvarlo anche un eccellente Telly Savalas, in grado di offrire un'ulteriore prospettiva umana e drammatica alle vicende del protagonista.

 

L'opera ottenne 4 nomination ai Premi Oscar 1963, non riuscendo a ottenere alcun premio: la concorrenza di Lawrence d'Arabia e de Il buio oltre la siepe limitò le ambizioni di un film che, comunque, negli anni si è guadagnato con pieno merito l'empireo delle opere di ambientazione carceraria.

 

Disponibile sul canale MGM+ di Prime Video

 

[a cura di Jacopo Gramegna

 

Posizione 7

Nick mano fredda 

di Stuart Rosenberg, 1967

 

Ne La 25ª ora, capolavoro di Spike Lee, all’interno del salotto della casa del protagonista Edward Norton si può vedere il manifesto di Nick mano fredda di Stuart Rosenberg.

 

Due film che rappresentano un atto di ribellione e di rabbia nei confronti della rispettiva epoca storica.

 

Se La 25ª ora è tristemente figlio degli attentati dell’11 settembre 2001, Nick mano fredda anticipa invece il movimento del 1968 e, di riflesso, la rivoluzione copernicana della New Hollywood. 

 

La storia di Nick, un uomo incarcerato non per un atto criminale ma perché rappresentativo di un ideale di ribellione contro il potere, rivela nel suo essere architettonicamente claustrofobico il respiro verso un nuovo modo di pensare e concepire il mondo.

 

 

Per questo la frase “Nessuno esce dalla vita” ripetuta dal protagonista diventa un promemoria ideologico, un grido all’evasione che sarà concretamente tentata a più riprese.

 

Nick mano fredda, nonostante da un punto di vista drammaturgico sia perfettamente essenziale e in linea con molti altri jail movie, non è solo un film, ma un simbolo.

 

Un simbolo che ha nella figura statuaria di Paul Newman un interprete perfetto.

 

Con un perenne registro a metà tra l’arroganza e la rabbia che cela sofferenza, l’attore che era stato Butch Cassidy per George Roy Hill aggiorna la figura del fuorilegge del West agli anni ‘60, elevando il suo talento nel rendere indimenticabili i personaggi ribelli a un punto irraggiungibile.

 

 

Insolente come pochi e con degli occhi di ghiaccio che mascherano una superiorità imperturbabile, Paul Newman ha consegnato Nick mano fredda alla Storia del Cinema.

 

Disponibile a noleggio su AppleTV

 

[a cura di Emanuele Antolini

 

Posizione 6

Detenuto in attesa di giudizio

di Nanni Loy, 1971

 

Un imprenditore da tempo residente in Svezia (Alberto Sordi) torna in Italia assieme alla famiglia per godersi le vacanze estive; alla frontiera verrà però inspiegabilmente arrestato e condotto da una prigione all'altra, percorrendo tutta la penisola da nord a sud: durante uno dei trasferimenti scoprirà di essere accusato dell'omicidio di un cittadino tedesco, ma oltre al nome della vittima - da lui mai incontrata - non sanno indicargli dove, quando e soprattutto come sia morto. 

 

Il film di Nanni Loy nasce dall'input dello stesso Sordi, profondamente colpito dalla lettura del libro Operazione Montecristo, nel quale l'intrattenitore Lelio Luttazzi documentò il suo mese passato in cella a causa di un errore giudiziario.  

 

L'idea venne elaborata dal veterano Rodolfo Sonego e poi affidata a Sergio Amidei e al giornalista Emilio Sanna, quest'ultimo autore dell'inchiesta televisiva Verso il carcere.

 

Il risultato è una delle migliori interpretazioni dell'attore, come al solito degno rappresentante dei vizi e delle virtù dell'italiano medio, qui però in uno dei suoi sconfinamenti nell'agrodolce, se non proprio nel dramma.

 

Detenuto in attesa di giudizio è un incubo kafkiano in salsa nostrana: il protagonista e in parallelo la moglie si perdono in un labirinto burocratico fatto di regole infinite e in continuo cambiamento, formalismi esasperati e incomunicabilità tra uffici. Nessuno sembra poterli aiutare o semplicemente parlare la loro stessa lingua; lei tra l'altro è straniera e quindi è doppiamente penalizzata.

 

Simbolica da questo punto di vista la figura della chitarra, inviata a un carcerato dalla madre 16 mesi prima e sempre un passo indietro rispetto a lui. Le scartoffie non riescono infatti a tenere il ritmo dei suoi trasferimenti e quando finalmente arriverà a destinazione sarà ormai troppo tardi. 

 

Al tempo stesso però l'opera di Loy risulta anche una denuncia feroce nei confronti del sistema carcerario italiano: arretrato, brutale, sovraffollato e dove l'individuo, a prescindere dal fatto che sia colpevole oppure no, perde automaticamente la propria dignità e umanità.

 

La presenza di Sordi - che non rinuncia a qualche battuta qua e là, volte a stemperare la tensione - non deve però trarre in inganno: l'ambiente nel quale si muove il suo personaggio non è poi così diverso da quello di pellicole decisamente più crude come Hunger di Steve McQueen.

 

Violenze fisiche e psicologiche sono all'ordine del giorno e il comportamento dei secondini non dipende da quello dei detenuti, ma dall'umore, dalla frustrazione o dal desiderio di esercitare il proprio potere. Perfino dormire o andare in bagno in santa pace è da considerarsi un lusso. 

In un paese nel quale si è innocenti fino a prova contraria le carceri sono in realtà popolate da persone non ancora condannate, semplicemente in attesa di essere interrogate dal giudice. 

Anche quando vengono finalmente ricevute, può bastare un cavillo o una disposizione appena introdotta per far saltare tutto l'iter e ripartire da zero.  

Il finale non lascia scampo: per avvocati e giudici il dramma di un uomo è irrilevante, al massimo il pretesto per chiacchierare sulle storture del sistema.

 

L'errore non rappresenta l'eccezione e qualsiasi soluzione positiva dipende solamente dal caso.

 

Disponibile su Prime Video e su Pluto TV

 

[a cura di Riccardo Melis]

 

Posizione 5

Esecuzione al braccio 3

di Richard M. Young, 1977 

 

"Jesus help me, ‘cause man won’t". 
  

Questa la tagline di uno dei film carcerari più oscuri degli anni '70, Esecuzione al braccio 3 (in originale Short Eyes), dramma corale tratto dall'omonima piéce di Miguel Piñero ispirata alla propria esperienza in carcere a Sing Sing.

 

Ambientato nelle Tombs, il soprannome del Manhattan Detention Complex nel cuore di New York, Esecuzione al braccio 3 è uno spaccato realistico di vita carceraria, in cui Miguel Piñero e il regista Robert M. Young mettono in scena la difficoltà di creare un equilibrio di convivenza tra detenuti multietnici e autori dei crimini disparati. 

Il già difficile esperimento sociale di cooperazione e creazione di una scala rudimentale condivisa di valori viene definitivamente compromesso dall'arrivo nelle Tombs di Clark Davis (Bruce Davison), un mite uomo apparentemente comune rinchiuso perché accusato di aver molestato sessualmente una bambina (short eye è lo slang coniato da Piñero per indicare un pederasta). 

Nonostante l'opposizione di alcuni membri della comunità, i detenuti presto si ergono a giudici, giuria ed esecutori, sfogando su Davis tutta la loro brutalità repressa, assistiti dalle guardie carcerarie, ben felici di offrire un uomo in sacrificio come modo per ristabilire l'equilibrio.

Esecuzione al braccio 3 è un film corale e duro, capace di evitare sia facili giudizi morali che di romanticizzare la condizione carceraria e figlio della fine delle grandi illusioni di pace degli anni Settanta, un prodotto del suo tempo capace però di urlare tutta la sua rabbia con grande attualità.

Con la sua pièce, Piñero vuole illustrare il modo in cui i reclusi, esclusi dalla società, sono costretti a creare un codice morale fragile e contraddittorio per non perdere definitivamente la propria umanità in un sistema disegnato appositamente per calpestarla.

Il personaggio di Davis rappresenta in questo senso un elemento di disturbo che va oltre i compromessi tra ladri e assassini, tra bianchi e neri: la pedofilia è rappresentata nel film come il crimine più abietto, capace di unire tutti contro un nemico comune, ma soprattutto capace a sua volta di trasformare i prigionieri stessi in giudici e somministratori di giustizia in un cortocircuito che mette a nudo l'ipocrisia del sistema, ben rappresentato da delle guardie carcerarie più affini nei comportamente ai reclusi che a integerrimi attori della legge e dell'ordine. 

Il personaggio di Clark rappresenta un elemento di disturbo talmente potente da riuscire a farsi odiare universalmente, unendo paradossalmente il gruppo dei detenuti, ma Young e Piñero sono però bravi a umanizzarlo, anche grazie a una straziante scena di confessione che anticipa di vent'anni quella di Dylan Baker in Happiness di Todd Solondz. 

Piñero e Young hanno il coraggio di lavorare nelle zone più grigie della morale, chiedendosi quanto veramente Clark sia da condannare in toto e quanto sia esso stesso "vittima" dei propri irresistibili impulsi. Di certo, si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, pronto a essere usato come capro espiatorio e vittima di catarsi sacrificale dal resto della comunità.

Il realismo di Esecuzione al braccio 3 è accentuato da un casting che comprende autentici ex galeotti e dal fatto che per le riprese fu concesso alla produzione di usare un'autentica ala in disuso del carcere in cui il film è ambientato. 

Oltre ad aumentare l'immersività del film, la presenza di autentici galeotti in una vera prigione ha portato inizialmente a vere tensioni sul set, col primo regista, Michael Schultz, costretto a farsi da parte in favore di Young, capace di guadagnarsi in poco tempo il rispetto di Piñero e del variegato cast, che comprende oltre a Davison lo stesso Piñero, Jose Perez nei panni di Juan, bilancia morale della comunità, Don Blakely, Nathan George, Shawn Elliott e i giovani Luis Guzmán e Mark Margolis, rispettivamente nei ruoli di un detenuto e di una guardia carceraria. 

 

Nel film troviamo anche momenti lirici e curiosamente poetici, come quello in cui i galeotti intonano insieme Do Do Wap Is Strong in Here, canzone della colonna sonora composta e interpretata per l'occasione da Curtis Mayfield, che appare nel film nel ruolo di un detenuto.

 

Disponibile su Plex.

 

[a cura di Marco Lovisato

 

Posizione 4

Fuga di mezzanotte

di Alan Parker, 1978

 

La storia di Billy Hayes è una storia vera: arrestato all'aeroporto di Instanbul per contrabbando di hashish, l'allora ventitreenne studente di New York venne condannato a 4 anni di prigione, che tragicamente a meno di due mesi dal suo rilascio si allungarono all'ergastolo nel carcere di Sağmalcılar. 

 

Dopo un trasferimento che diede modo a Hayes di evadere, lo studente scrisse un libro sulla propria esperienza che diventò subito un best seller e attirò l'attenzione di Hollywood: la sceneggiatura fu affidata a Oliver Stone e la regia ad Alan Parker, che all'epoca aveva all'attivo solo un film uscito due anni prima, Piccoli gangsters.

 

Fuga di mezzanotte è ancora oggi uno dei film carcerari più duri e violenti, in grado di coniugare la tensione drammatica richiesta dalla storia con il realismo crudo ed esplicito, dando allo spettatore la sensazione di vivere direttamente le esperienze del protagonista. 

Le immagini di un carcere sovraffollato, sudicio e senza speranza ci colpiscono nel profondo, facendoci comprendere il devastante impatto che la detenzione può avere sull'animo umano; la fotografia di Michael Seresin - qui alla seconda collaborazione con Parker, con cui poi fece coppia fissa per altri 7 film - contribuisce a rendere opprimente e livida l'atmosfera, con un contrasto netto e degli angoli bui che spesso diventano protagonisti più dei personaggi stessi. 

 

Il film indaga a fondo la psicologia dello statunitense privato della libertà dalla parte opposta del mondo, lontano migliaia di chilometri da casa e inserito in un ambiente alieno, straniero, dove non conosce nulla se non le vessazioni che è costretto a subire: Billy compie un percorso all'interno del film che lo vede passare da turista a sopravvissuto e da vittima a combattente. 

 

Brad Davis nei panni del protagonista interpreta un personaggio con il quale nonostante tutto è molto difficile empatizzare: egocentrico, narcisista, convinto della propria innocenza benché chiaramente colpevole, pronto a definire la Turchia "una nazione di maiali" di fronte al giudice. 

Forse risiede proprio quella che a mio avviso è l'unica pecca del film: il tentativo continuo di dipingere il protagonista come qualcuno verso cui provare pietà a tutti i costi; senza dubbio la violenza subita è insopportabile e la pena che deve scontare smisurata rispetto alla colpa, ma né lo script né Davis hanno intenzione di mostrarci Billy come semplice vittima del sistema, qualcosa che invece la regia tenta in ogni modo di fare. 

Alan Parker riesce a trasformare la prigione in un mondo completo, reale e finito, un microcosmo del comportamento umano carico di sadismo e costellato da immagini che sembrano provenire dall'inferno o da un luogo in cui l'espiazione è resa impossibile, dove più che giustizia viene comminata vendetta. 

 

Il film vinse 6 Golden Globe, 3 BAFTA e ottenne 6 nomination ai Premi Oscar - tra cui Miglior Film e Migliore Regia - vincendo due statuette per la Sceneggiatura non Originale e per l'ennesima colonna sonora indimenticabile firmata Giorgio Moroder

 

Curiosità: il sadico secondino turco del carcere (che mi causò qualche trauma quando vidi il film da ragazzino) è interpretato da Paul L. Smith, famoso in quanto "copia" di Bud Spencer nel filotto di film che pochi anni prima di Fuga di mezzanotte sfruttarono la fama della coppia Terence Hill/Bud Spencer con dei sosia chiamati Simone e Matteo. 

 

Una cosa che personalmente credo meriterebbe la stessa pena imposta a Billy Hayes. 

 

Disponibile a noleggio su AppleTV 

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 

Posizione 3

Mery per sempre

di Marco Risi, 1989 

 

Tratto dall’omonimo romanzo di Aurelio Grimaldi, Mery per sempre appartiene a quella schiera di film italiani della fine del secolo scorso che richiamavano il Neorealismo, mettendo in scena spesso in maniera cruda storie di emarginazione nella società italiana, ormai ben lontana dalla povertà del Dopoguerra ma che si trascinava - e si trascina ancora - numerose diseguaglianze sociali.

 

Ambientato a Palermo nel carcere minorile Rosaspina (pseudonimo per la reale struttura carceraria Malaspina), il film unisce tre diversi immaginari: l’affresco corale di giovani allo sbando, la storia di riscatto guidata da un insegnante e la lotta personale e drammatica di una ragazza trans contro una famiglia e una società che la disprezzano.

 

Il professor Terzi (Michele Placido) accetta l’incarico di insegnante nel carcere minorile, trovandosi subito in grossa difficoltà. L’iniziale incomunicabilità con i suoi studenti, tutti provenienti da storie devastanti di miseria, lo rendono una figura estranea, quasi aliena, agli occhi di ragazzi che hanno conosciuto solo disagio, tanto da aver trovato nel reato l’unica via di reazione. Reato e non crimine, poiché di illegalità si parla secondo le leggi dello Stato, ma non secondo quelle di natura, che rendono spesso inevitabile a chi muore di fame passare "dalla parte del torto".

Individui già bollati dalla società come irrecuperabili - perché non sanate sono le condizioni di svantaggio che li hanno visti nascere - trovano nel professore Terzi un nemico poi amico, uno dei pochi che passa la giornata a spiegar loro che forse una vita diversa è possibile e che i loro veri nemici sono chi li ha convinti di aiutarli: il monologo sulla mafia è il fulcro di questo pensiero.

 

Una versione molto meno altolocata de L’attimo fuggente, potrei azzardare, che per coincidenza è uscito lo stesso anno di Mery per sempre.

 

Nonostante il film sia corale, mostrandoci le vite di Pietro, Natale, Giovanni, Claudio, Antonio, Matteo, il titolo rende omaggio alla storia forse più forte tra quelle dei ragazzi detenuti: Mery (Alessandra Di Sanzo), nata Mario, è in carcere per prostituzione, ma lo è - ufficiosamente, si intende - anche per ciò che ha tentato di essere, cioè sé stessa.

 

“A volte vorrei tornare indietro, a quando ero picciridda. Tante cose non le capivo. E forse era meglio così.  

Quando mi mettevo le scarpe coi tacchi, mamma, papà, i miei frati, ridevano, mi applaudivano "bravo, bravo", l'attore da’ casa.

Era bello allora. Quasi tutte le notti sogno che una mattina mi sveglio e mi ritrovo vecchio, coi capelli bianchi bianchi, con le rughe, le vene, un semaforo spento. 

 

Vedi, forse allora potrei essere come tutti gli altri. Non è che sono una vera donna che posso dire… fare dei figli...

Neanche un uomo e dire "domani mi sposo".

Io nun sugnu né canni né pisci, io sono Mery.

Mery per sempre”.

 

Disponibile su Amazon Store

 

[a cura di Elena Bonaccorso

 

Posizione 2

Galline in fuga

di Peter Lord e Nick Park, 2000

 

In una campagna dello Yorkshire Mr. e Mrs. Tweedy portano avanti la propria fattoria, dove le loro galline vengono custodite in una gabbia che ricorda un campo di prigionia. 

 

I due crudeli contadini sono frustrati dai miseri guadagni aziendali, in particolar modo Mrs. Tweedy (Miranda Richardson) che, senza alcuna pietà, uccide le galline che non fanno più uova. 

Ginger (Julia Sawalha), una gallina ormai stanca della situazione, decide di reagire progettando una grande fuga con le altre galline. 

È così che, attraverso l’aiuto di Rocky Rhodes (Mel Gibson), un gallo piombato improvvisamente nel loro recinto, studieranno un piano per “volare via”.  

 

Distribuito da DreamWorks Pictures e prodotto dallo studio Aardman Animations in collaborazione con DreamWorks Animation, Galline in fuga è il miglior incasso di sempre per un film in stop-motion.

 

Ci sarebbe tanto da dire su questa pellicola memorabile sotto diversi aspetti, a partire dall’ambito tecnico che, attraverso la magistrale animazione in claymation, ha creato un mondo e dei personaggi bizzarri, efficaci e unici, diventati poi iconici per lo studio d’animazione. 

Importante, però, è concentrarsi sul perché Galline in fuga sia rilevante per una Top 8 del genere. 

 

Innanzitutto per l’origine: il film era stato concepito dai due registi come una parodia del celeberrimo La grande fuga, per poi evolversi man mano durante la produzione.

 

Sebbene infatti mantenga molti aspetti dell’opera di John Sturges, la pellicola si evolve diversamente sia attraverso gag esilaranti e dialoghi brillantemente ironici sia lasciando il giusto spazio a momenti struggenti, che vengono alleggeriti solo dal fatto che, beh… le protagoniste sono delle strambe e folli galline antropomorfe!

 

Un clima di tensione permane tra una battuta e l’altra e si teme costantemente per l’incolumità delle povere galline ogni minuto che passa con Mrs. Tweedy in agguato, pronta a commettere un nuovo atto di crudeltà. 

Nonostante quest’ombra si estenda minacciosa sul pollaio, le galline sono comunque pronte a ribellarsi. 

 

Non a caso c’è chi nell’opera ha visto un aspetto marxista: semplificando molto, galline/operaie (che, per giunta, svolgono per proprio conto diversi lavori cosiddetti umili, associati per l’appunto alla classe operaia) pronte alla liberazione/lotta di classe contro un nemico terrificante/sistema capitalista.

 

Per le galline le carceri, dunque, sono un luogo di rivoluzione, in cui battersi per i propri ideali e, di conseguenza, per la propria sopravvivenza. 

 

Disponibile su Prime Video e Netflix 

 

[a cura di Eris Celentano 

 

Posizione 1

Cesare deve morire

di Paolo e Vittorio Taviani, 2012 

 

Intorno al Sessantotto, a Ivrea, le componenti neoavanguardistiche del teatro italiano riconoscono la necessità di tornare (artisticamente) nel mondo, anche eludendo il privilegio accordato al palcoscenico istituzionale; tornare nel mondo per comprendere la provenienza dal mondo.

 

In Cesare deve morire, nel 2012, due conoscitori di Bertolt Brecht come Paolo e Vittorio Taviani donano nuova vita a istanze che sembravano scolorite.

Premiato a Berlino, il loro film entra nel carcere di Rebibbia per seguire il processo di messa in scena del Giulio Cesare shakespeariano, in un contesto non-artistico che è sì istituzionale ma che si esprime istituzionalmente - in una rappresentazione pubblica su un palco - solo agli estremi dei settantasei minuti di durata.

 

Nondimeno, siamo pur sempre accarezzati dalle parole di colui secondo il quale - citando il Come vi piace - all the world's a stage.

Il ritorno al mondo distoglie allora lo sguardo dal palco istituzionale, torre eburnea in cui la vita rischia costantemente di nascondersi a sé stessa, per poter accedere allo spazio finzionale del carcere; e con un paradosso solo apparente, oltrepassando le interpretazioni nichilistiche della parola del Bardo, lo spazio finzionale (o discorsivo: siamo tra Michel Foucault e Jacques Rancière) è propriamente uno dei costituenti del mondo, della mondità.

 

Come spazio della finzione, il carcere - in quanto istituzione e in quanto luogo - assegna delle posizioni di potere; come spazio della finzione cinematografica, perché non un minuto soddisfa le concezioni ingenue del documentario e perché l'estetica cinematografica inghiotte quella teatrale e quella letteraria, Cesare deve morire mette in questione quelle posizioni dominanti.

 

Il luogo carcerario viene risignificato in chiave antinaturalistica e il gioco tra realtà e finzione, tra la vita dei carcerati e il Giulio Cesare, non assume affatto una preminenza modernistica, impiantata sullo smascheramento (che in questi termini non trova posto in Brecht).

 

Tornare al mondo, per l'arte, vuol dire comprendersi in una continuità con il mondo che i detenuti non possono che approssimare dolorosamente proprio al di là del loro status (istituzionale) di detenuti.

 

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[a cura di Mattia Gritti]  

 



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