I Premi Oscar: noti a tutti, criticati puntualmente da chiunque ogni anno, fraintesi dai più e conosciuti a dovere da pochi.
Per introdurre la nostra seconda classifica dei Migliori Film perdenti è necessario innanzitutto fare un passo indietro di quasi un secolo: l'Academy è nata infatti nel 1927 e come scrivono sul sito ufficiale la loro mission è quella di "Riconoscere e sostenere l'eccellenza nelle arti e nelle scienze cinematografiche, ispirare l'immaginazione e connettere il mondo attraverso il mezzo cinematografico."
Tutto nacque da una cena a casa di Louis B. Mayer, allora capo della MGM: lui e i suoi ospiti parlarono della creazione di un gruppo organizzato a beneficio dell'industria cinematografica hollywoodiana.
Una settimana dopo 36 invitati provenienti da tutti i rami creativi dell'industria cenarono all'Ambassador Hotel di Los Angeles per ascoltare la proposta di fondare l'Accademia Internazionale delle Arti e delle Scienze cinematografiche.
Furono presentati gli articoli costitutivi e vennero eletti i responsabili, con Douglas Fairbanks come presidente.
La prima cerimonia degli Academy Awards - che vedete qui sopra immortalata - fu un semplice banchetto che si tenne il 16 maggio 1929 presso la Blossom Room del Roosevelt Hotel, con 270 partecipanti.
I destinatari dei Riconoscimenti al Merito in 12 categorie erano già stati annunciati tre mesi prima; l'anno successivo l'Academy mantenne segreti i risultati, ma fornì un elenco ai giornali in modo che potessero andare in stampa entro le 23:00 per avere l'edizione del quotidiano aggiornata in uscita il giorno dopo.
La cosa andò avanti così fino al 1940, quando il Los Angeles Times pubblicò i vincitori nell'edizione serale, rendendoli pubblici anche a tutti coloro che si stavano recando alla cerimonia.
Da quel momento si decise per il sistema di buste sigillate, in uso ancora oggi.
A parte un paio di edizioni perse nel mezzo degli anni 2000 personalmente seguo la cerimonia dei Premi Oscar fin dal 1992, quando Il silenzio degli innocenti si portò a casa i famosi Big 5 (Film, Regia, Attrice Protagonista, Attore Protagonista, Sceneggiatura) fino ad allora vinti solo da Accadde una notte nel 1935 e da Qualcuno volò sul nido del cuculo nel 1976 e da quel momento in poi mai più assegnati.
In oltre trent'anni ho dunque imparato a conoscere le dinamiche dell'Academy, le scelte dietro a determinate nomination e statuette e tutto il furibondo marketing messo in moto dai produttori e dagli Studios che accompagna i film nella loro cavalcata verso la gloriosa Notte degli Oscar.
Non sono ovviamente mancate le sorprese, che in maniera diversa e più o meno accentuata si presentano comunque ogni anno, ma sono ormai almeno vent'anni che non mi scandalizzo davanti a certe premiazioni, perché conosco la differenza fondamentale che gran parte del pubblico tende a dimenticare quando si lancia in invettive nei confronti di quello o quell'altro premio: gli Oscar non sono un festival cinematografico.
I festival del Cinema sono un'altra cosa.
Parlando di quelli importanti e prestigiosi, come possono essere il Festival di Cannes o la Mostra di Venezia, in questi appuntamenti esistono gli organizzatori che ogni anno scelgono un Presidente di Giuria e i giurati che valuteranno i film, esiste una selezione dei film che vengono accettati per concorrere e spesso - se non sempre - i film in concorso vengono presentati in anteprima mondiale proprio in quelle situazioni, prima che tutto il mondo possa vederli.
Le kermesse durano da una settimana a una decina di giorni e ci sono proiezioni, eventi, conferenze stampa, serate speciali.
I festival sono dunque molto vicini al significato etimologico del termine latino medievale festivalis, diventato poi festival in francese e in seguito in inglese, infine arrivato in italiano senza modificarsi verso la metà del XIX secolo: una festa.
Gli Academy Awards noti come Premi Oscar sono molto lontani da un festival.
Non esiste una giuria che cambia ogni anno - al massimo vengono invitati nuovi membri a far parte dell'Academy, che si aggiungono ai già presenti - non esiste a monte una selezione di film perché sono gli studios a proporre all'Academy le proprie opere nelle varie categorie, quindi virtualmente qualsiasi film potrebbe ottenere una nomination, ma soprattutto i film arrivano alla cerimonia quando sono ben noti e conosciuti in quanto già distribuiti nelle sale l'anno precedente.
Gli Oscar nascono per celebrare soprattutto l'industria hollywoodiana e per veicolare uno o più messaggi, a seconda di quali siano le intenzioni dell'Academy.
Sono "importanti" non tanto da un punto di vista meritocratico, artistico o di contenuto, bensì da quello promozionale ed economico: la cosa vale tanto per chi lo vince quanto per chi si trova a lavorarci in seguito.
Chiunque vinca un Oscar avrà per qualche anno un credito importante all'interno dell'industria, troverà molte più porte spalancate rispetto a prima perché diventa un nome facilmente spendibile e di richiamo per il pubblico, se parliamo di attori e professionalità note al pubblico come i registi o i produttori: sono sicuro che chiunque legga queste righe avrà visto almeno una volta in un trailer o su un cartellone pubblicitario la dicitura "Con l'attore Premio Oscar" o "Dal regista 2 volte Premio Oscar".
È ben nota la capacità di fare spettacolo e di autopromuoversi propria degli statunitensi: gli Oscar sono una delle dimostrazioni più palesi in tal senso.
L'Academy è riuscita in poche edizioni a far credere al mondo che il proprio premio fosse quello più importante di tutti, quello più prestigioso, più ambito, più autorevole.
La conseguenza di questo traguardo, però, è da ritrovarsi non solo nella promozione della serata stessa e dei film che vedono partecipi i vincitori degli Oscar, ma nella percezione che il grande pubblico ha di questi premi e soprattutto nei confronti di chi li vince o di chi, ed è il caso di questa classifica, non li vince.
A Chaplin assegnarono due Oscar onorari, nel 1929 e nel 1972, più un Oscar per la Miglior Colonna Sonora nel 1973 per Luci della ribalta, film di ventun'anni prima bloccato in patria ai tempi del maccartismo.
Tempi moderni? Non pervenuto.
Il grande dittatore? 5 nomination, nessuna statuetta.
A Bergman andò anche peggio: per lui 9 nomination tra il 1960 e il 1984, per il Miglior Film, la Migliore Regia e la Migliore Sceneggiatura Originale.
Nel 1971 gli assegnarono l'Oscar alla Memoria Irving G. Thalberg, ma lui non andò nemmeno a ritirarlo.
Orson Welles è un altro di quelli che ha letteralmente modificato il modo di fare Cinema, quando non aveva neanche 25 anni: andò in nomination come regista, attore e sceneggiatore di Quarto potere, vincendo la statuetta per quest'ultima categoria assieme all'oggi famoso Herman J. Mankiewicz, per gli amici Mank.
Poi più niente per nessun film, nemmeno una nomination fino all'Oscar onorario del 1971, che esattamente come Bergman non si presentò a ritirare, preferendo mandare un video di ringraziamento dove diceva di essere in Spagna a lavorare.
In realtà era a Los Angeles, a pochi chilometri dal Dorothy Chandler Pavilion dove si stava svolgendo la cerimonia: questo dovrebbe chiarire che tipo di rapporti c'erano in corso tra Welles e Hollywood.
Stanley Kubrick? 13 nomination per 5 opere nelle categorie Miglior Film, Regia, Sceneggiatura ed Effetti Visivi: quest'ultimo fu l'unico che vinse, grazie a 2001: Odissea nello spazio.
Alfred Hitchcock? 5 nomination, zero statuette.
Un solo Premio Oscar vinto nel 1968, ma stiamo ancora parlando del Premio alla Memoria Irving G. Thalberg.
Curiosità: a differenza di Bergman e Welles andò a ritirarlo, ma fece il discorso di ringraziamento all'epoca più breve di sempre, dato che una volta sul palco disse soltanto "Grazie".
Hawks? Una sola nomination: come Migliore Regia per Il sergente York nel 1942.
Kurosawa? Una sola nomination: come Migliore Regia per Ran nel 1986.
Ovviamente anche loro hanno vinto un Oscar: quello onorario.
Howard Hawks nel 1975, a 79 anni di età e dopo 47 film, Akira Kurosawa nel 1990, a 80 anni di età e dopo 34 film.
Chiudiamo questo triste elenco - che avevo detto sarebbe stato lungo e noioso - con il nostro Sergio Leone, uno che il Cinema lo ha insegnato anche agli statunitensi che ancora oggi provano a imitarlo.
Per lui niente: zero statuette, zero nomination e nemmeno un Irving G. Thalberg o un onorario come per gli altri.
Nulla.
Mai.
Se vi siete arrabbiati leggendo queste righe vi chiedo di riflettere su quanto scritto poco prima: questi nomi elencati quanto secondo voi rappresentano l'idea di Cinema cara a Hollywood e, dunque, all'Academy?
Il punto è squisitamente tutto lì.
Nonostante negli ultimi anni ci sia stata un'importante apertura nei confronti delle minoranze l'Academy è formata per la stragrande maggioranza da uomini bianchi milionari e professionisti di Hollywood.
Persone che nominano i film di Hollywood e che premiano i film di Hollywood.
Persone che sanno perfettamente che il giorno dopo La Notte degli Oscar tutto il mondo ne parlerà e che i titoli di giornali e TV verteranno soprattutto su chi ha vinto l'Oscar per il Miglior Film.
È in questa ottica che gli Oscar vanno vissuti, valutati e discussi.
Per quanto splendido sia, Com'era verde la mia valle di John Ford vinse come Miglior Film l'anno di Quarto potere.
Ma quale tra i due è ricordato, studiato e venerato ancora oggi?
L'Academy però ai tempi preferì premiare un film che tratta dei problemi del lavoro, dei sindacati e delle morti bianche, piuttosto che un poco velato attacco frontale nei confronti del più potente editore dell'epoca.
Quando nel 1981 l'Oscar al Miglior Film venne assegnato a Gente comune di Robert Redford in nomination c'erano anche Toro scatenato di Martin Scorsese e The elephant man di David Lynch.
Il film di Redford è senza dubbio toccante e fortemente concentrato sulla recitazione e le emozioni, ma tra i tre citati è davvero quello che ha lasciato il segno?
Mel Brooks, produttore del film di Lynch, lo aveva già preventivato ai tempi quando sbottò dichiarando "Tra dieci anni 'Gente comune' sarà la risposta a una domanda di Trivial Pursuit, mentre il pubblico continuerà a guardare The elephant man".
Anche dopo quarant'anni, Mel, te lo assicuro.
Gli esempi sono tanti e ce ne sono anche di recenti: immagino vi ricordiate tutti dell'epic fail agli Oscar 2017, quando La La Land fu dichiarato vincitore dell'Oscar per il Miglior Film che però spettava a Moonlight.
Provate ad andare oltre la mera questione artistica o di gusto personale e chiedetevi di cosa parlino i due film.
L'anno prima arrivarono lanciatissimi alla Notte degli Oscar Revenant - Redivivo con 12 nomination e Mad Max: Fury Road con 10: il primo ne vinse 3, Regia, Attore Protagonista con finalmente Leonardo DiCaprio e fotografia, il secondo ne portò a casa 6.
Chi vinse l'Oscar per il Miglior Film? Il caso Spotlight.
Anche in questo caso provate a ricordarvi di cosa trattano i film in questione.
Quell'anno l'Academy non aveva interesse nel far parlare il mondo intero del film di Alejandro G. Iñárritu o di quello di George Miller, perché tanto se ne stava parlando da mesi e avremmo tutti continuato a parlarne, come infatti facciamo ancora oggi.
C'era però un gran bel film che metteva al centro una vera inchiesta giornalistica sulle implicazioni tra la Chiesa cattolica e la pedofilia.
Era quello secondo l'Academy il film da mettere in luce, premiandolo e veicolandolo in tutto il pianeta nel caso in cui qualcuno non se ne fosse accorto al momento della sua distribuzione.
Discorso diverso, che apro e chiudo velocemente, andrebbe invece fatto per le nomination che sono forse più importanti degli Oscar stessi.
Se decine di truccatori pensano che un truccatore abbia fatto un gran lavoro, se centinaia di direttori della fotografia valutano che un loro collega sia stato eccezionale e letteralmente migliaia di attrici e attori - è la professione più rappresentata nell'Academy - applaudono un'interpretazione, difficilmente si stanno sbagliando e senza dubbio sono tra le persone al mondo meglio in grado di giudicare quel lavoro.
Perché è ciò che fanno anche loro.
Una volta decise le nomination, però, tutti quanti votano per tutte le categorie, quindi il punto sulla capacità di valutazione cade un po'.
Tornando in topic: non sto ovviamente dicendo che i membri ragionino sempre pensando al messaggio o alle intenzioni.
Il voto è segreto ed è ridicolo pensare che più di diecimila persone possano mettersi d'accordo per premiare uno stesso film dopo aver stabilito quale messaggio abbiano intenzione di far passare.
Una volta che si fa parte dell'Academy però, magari da molti anni, si conosce perfettamente il suo scopo e il voto inevitabilmente va a seguire quel tipo di dinamica.
L'Oscar al Miglior Film è da intendersi quindi da un lato come "Miglior Produzione" - da ricordare che a ritirarlo sono i produttori, non il regista né lo sceneggiatore, non quindi chi lo ha creato e realizzato, bensì chi è stato in grado di far sì che si realizzasse - e dall'altro come "Film che meglio esprime il concetto di Cinema che Hollywood vuole far conoscere quest'anno o che meglio rappresenta un messaggio da mandare al resto del mondo".
Le ragioni possono essere di carattere sociale o politico.
In piena Guerra del Vietnam e sotto la Presidenza Nixon nel 1971 vinse 7 Premi Oscar Patton, generale d'acciaio (compresi Miglior Film, Regia, Sceneggiatura e Attore Protagonista), un ritratto del generale George S. Patton fortemente anti-interventista, che dipinge il protagonista in maniera tutt'altro che positiva.
Più o meno lo stesso discorso si ripresentò l'anno dopo: Il braccio violento della legge di William Friedkin ottiene 5 Premi Oscar (compresi Miglior Film, Regia, Sceneggiatura e Attore Protagonista, again) per un film che mostra la violenza delle forze dell'ordine che fondamentalmente non porta a niente di valido.
[Il discorso di Michael Moore contro George W. Bush nel 2003]
Le prime due edizioni dei Premi Oscar sotto la Presidenza di George H. W. Bush assegnarono premi importanti a film come Balla coi lupi, Nato il quattro luglio, A spasso con Daisy, Il mio piede sinistro, Glory - Uomini di gloria: film antimilitaristi, inclusivi, con un occhio alle minoranze.
Da decenni più progressista che conservatrice, Hollywood mandava un messaggio forte e chiaro a quella politica statunitense che decise di iniziare nel gennaio 1991 la famigerata Guerra del Golfo.
Per non parlare dello straordinario successo di Parasite, primo film non recitato in inglese a vincere il Premio Oscar per il Miglior Film, simboleggiando un'enorme apertura all'Oriente da parte dell'Academy che difficilmente ai tempi era condivisa dal Presidente Trump, che infatti non mancò di criticare pubblicamente il film e le scelte dell'Academy stessa.
C'è inoltre da sottolineare una cosa importante, fonte di fraintendimenti soprattutto negli ultimi anni e da quando ha cominciato a circolare la barzelletta di una fantomatica "dittatura del politicamente corretto": se oggi gli Oscar vedono candidati e vincitori multietnici, se gli Academy Awards ci sembrano più inclusivi rispetto ai decenni passati è semplicemente perché tra i membri c'è stato un grande innesto di rappresentanti delle minoranze, di donne, di etnie diverse.
È dunque una conseguenza perfettamente logica, oltre che cercata e costruita nel tempo.
Se per votare a un concorso coinvolgo solo una determinata categoria di persone che hanno una mentalità di un certo tipo non posso aspettarmi che la maggioranza di loro si riconosca in storie che non li rappresentano, candidandole ai premi e facendole vincere.
Nel momento in cui allargo il coinvolgimento e mi apro a molta più diversità, il risultato sarà quello di avere più votanti che si sentono toccati e coinvolti da storie che non pongono al centro sempre e solo il maschio bianco eterosessuale come è successo per davvero tantissimo tempo.
Ecco quindi che i Premi Oscar assegnati negli ultimi anni si spiegano al contrario rispetto a quanto vorrebbe farci credere una narrazione vicina all'Alt Right statunitense: i premi non seguono una corrente, ma rappresentano i membri votanti.
È praticamente sempre stato così e continua a esserlo, la differenza di oggi rispetto al passato sta nel fatto che i membri votanti sono molto più rappresentativi della popolazione: c'è più diversità tra i membri che votano, c'è quindi più diversità tra i film che vengono premiati.
Si dovrebbe anche pensare che la società cresce, matura, evolve da quando l'Homo sapiens sapiens ha mosso i primi passi sul pianeta.
Ciò che era normale nel XVII secolo non lo era più un secolo dopo, gli atteggiamenti e i comportamenti della società civile del 1860 oggi non sarebbero più tollerati.
La schiavitù, il voto negato alle donne, i mezzi pubblici e i bagni divisi per etnia, la discriminazione delle minoranze: tutte cose che fino a pochi decenni fa erano parte del vivere comune non sono più "normali" - per quanto le si potesse definire in tal modo anche allora - e non sono più accettate.
Il mondo dello spettacolo non solo segue la società ma spesso la anticipa, rivoluzionando certi atteggiamenti e cambiando il sentire comune, facendo luce su problemi che magari non ricevono la giusta attenzione e rappresentando situazioni che necessitano un cambiamento. Pur con tutte le brutture che fanno parte della società statunitense che ben conosciamo, Hollywood è consapevole di tutto ciò e sa che i Premi Oscar sono l'appuntamento in cui tutto il mondo ha gli occhi puntati su quel palco.
Se vince un film piuttosto che un altro, dunque, non meravigliatevi perché secondo voi il film perdente "era molto più bello": il Miglior Film agli Oscar significa tantissime cose e non si limita alla qualità tecnica o artistica.
Questa Top 8 in rigoroso ordine cronologico infatti non nasce per criticare le scelte dell'Academy né per sostenere che "avrebbe dovuto vincere quello al posto dell'altro" - a nostro avviso entrambe posizioni insensate - quanto per ricordare 8 film che non dovreste perdervi anche se ai tempi non hanno vinto il riconoscimento più famoso del mondo.
La redazione ha scelto titoli che vanno dalla prima edizione dei Premi Oscar fino al decennio scorso e in ogni posizione troverete indicato su quale piattaforma poter recuperare il film.
Buona lettura e buone visioni!
P.S.: Alla cerimonia dei Premi Oscar dell'anno prossimo magari ricordatevi di quanto avete appena letto, prima di correre sui social network a scrivere che "Avrebbe dovuto vincere quell'altro!".
Può darsi che avrebbe dovuto, certo.
Il giochino però è in mano all'Academy e decidono loro: arrabbiarsi per un Premio Oscar mancato non farà cambiare idea a nessuno.
Non siete convinti? Provate a chiedere a Bradley Cooper, che ha collezionato finora 12 nomination senza mai vincerlo.
Nel 1932 Grand Hotel di Edmund Goulding vince l'Oscar come Miglior Film; a concorrere al premio ci sono film di registi che hanno segnato il Cinema dell'epoca, come John Ford, George Cuckor, Ernst Lubitsch e Josef von Sternberg: il focus di questo breve trafiletto è proprio Shangai Express di quest'ultimo.
Durante la Guerra Civile in Cina diversi passeggeri dall'aspetto distinto si accomodano nella lussuosa carrozza di prima classe del treno che collega Pechino a Shanghai, tra loro ci sono due misteriose prostitute d'alto borgo, Hui Fei (Anna May Wong) e Shanghai Lily (Marlene Dietrich).
Donald Harvey, un ufficiale britannico (Clive Brook), riconosce in Lily una figura che ha conosciuto anni prima e di cui è ancora innamorato; durante il viaggio, il treno viene assaltato e sequestrato da alcuni rivoluzionari che chiedono il rilascio immediato di uno dei loro compagni in cambio della libertà di Harvey, preso come ostaggio.
Più che in qualsiasi altro dei sette film che sanciscono la collaborazione tra il regista austriaco naturalizzato statunitense e l'iconica attrice tedesca Marlene Dietrich - ricordiamo in particolare L'angelo azzurro (1930) e Marocco (1930) - in Shanghai Express sono gli ambienti che si ergono come protagonisti.
La Cina fu ricreata artificialmente in studio e i vagoni del treno Pechino-Shanghai monopolizzano la scena fin dai primi istanti del film.
La prima inquadratura rappresenta infatti un imponente gong su cui è inciso un ideogramma; a seguire un montaggio incrociato di statue e ideogrammi.
È una Cina finta sin dai caratteri esotici dei titoli di testa, sovrabbondante, le inquadrature strabordano di elementi, le scene si arricchiscono di dissolvenze incrociate, espressione dell'estetica barocca del regista; proprio in quest'ottica risalta ancora di più l'attrice, musa del regista, icona androgina della sua epoca e professionista versatile, in grado di emergere sia in ruoli drammatici sia in quelli comici.
I primi piani su Marlene Dietrich in Shanghai Express ne sono l'apoteosi: il chiaroscuro scolpisce il suo volto - il film è valso l'Oscar per la Miglior Fotografia a Lee Garmes - elemento inconfondibile e seduttivo nella caoticità dell'ambientazione e nei vagoni claustrofobici del treno.
A distanza di 77 anni resta ancora difficile dare un senso al grande fallimento commerciale che travolse La vita è meravigliosa al momento della sua uscita.
Questa pietra miliare del Cinema hollywoodiano e della Settima Arte non solo non vinse nessun Premio Oscar, ma contribuì - con una perdita di oltre mezzo milione di dollari dell’epoca - allo scioglimento della Liberty Films, la casa di produzione diFrank Capra.
Lo stesso Capra, dopo questo e altri insuccessi, dovette iniziare a considerare l’ipotesi di terminare una volta per tutte la sua brillante carriera cinematografica.
Delle sue 5 candidature ai Premi Oscar 1947 dunque, La vita è meravigliosa non ne vinse nemmeno uno, battuto - come gli altri film in gara - da I migliori anni della nostra vita, che ottenne la maggior parte dei premi di quell’edizione oltre a registrare il maggiore incasso del decennio.
Tratto dal racconto The Greatest Gift del 1939 di Philip Van Doren Stern (ma in realtà senza dubbio ispirato al dickensiano Canto di Natale), La vita è meravigliosa racconta la storia di George Bailey, un uomo che, in procinto di suicidarsi la sera della vigilia di Natale dopo aver rinunciato a tutto per aiutare gli altri, viene soccorso da un angelo custode mandato per lui da Dio.
Ponendosi tra l’inizio della Grande Depressione e il conflitto bellico, il racconto dà luogo a una serie di riflessioni di stampo sociale sullo scontro tra capitalismo e socialismo, individualismo e collettività, portando al centro il tema dell’uomo comune che lotta per la propria comunità, affrontando un dramma personale (la fobia del fallimento e dell’invisibilità) e cercando di abbattere le disuguaglianze sociali.
Per questo e per altri motivi, il film di Capra è riuscito a radicarsi nella memoria collettiva, diventando una delle opere più ispiratrici del Cinema, la cui visione è associata ormai tradizionalmente al periodo natalizio e le cui soluzioni narrative stupiscono ancora oggi generazioni di spettatori e registi.
Ad oggi La vita è meravigliosa fa parte dei 100 migliori film statunitensi di sempre scelti dall’American Film Institute e il volto sognante del colossale James Stewart è un’immagine che rimarrà scolpita in eterno nella Storia del Cinema.
Disponibile su Sky, NOW e Plex
[a cura di Matilde Biagioni]
Posizione 6
M*A*S*H
di Robert Altman, 1970
Anni '50: mentre negli USA scorrono gli happy days, in un ospedale da campo in Corea tre medici militari - i capitani Pierce, McIntyre e Forrest - insofferenti al rigore della divisa, si dilettano in una lunga serie di burle e atti di insubordinazione.
Letta così, la sinossi di M*A*S*H potrebbe portare al pensiero di trovarci dinnanzi a una commedia dai toni demenziali ambientata nell'ormai lontano contesto della guerra di Corea.
In realtà si tratta di uno dei film politici più importanti della New Hollywood, una farsa che mira a smontare il timore reverenziale imposto dalla guerra in Vietnam, in quegli anni nel pieno del suo svolgimento.
Una sorta di contraltare canzonatorio alla solenne propaganda filomilitare.
Nel momento della distribuzione cinematografica del film negli Stati Uniti, la locandina di M*A*S*H recava una tagline apparentemente innocua che recitava: "E poi fu... La Corea".
All'uscita del film, però, fu chiaro l'obiettivo di quella satira corrosiva tratta dall'omonimo romanzo di Richard Hooker: decostruire ogni mito guerresco, come solo il grande Stanley Kubrickaveva saputo fare nel decennio precedente prendendo di mira il timore della bomba atomica.
L'obiettivo venne perfettamente centrato, al punto che la proiezione del film venne vietata per anni nelle basi statunitensi.
Tra furti d'auto militari, amplessi diffusi via altoparlante e improbabili partite di football, la giuria del Festival di Cannes fu stregata dall'opera e le assegnò la Palma d'oro.
Lo stesso risultato, però, non venne replicato durante la Notte degli Oscar: la statuetta per il Miglior Film andò a Patton, generale d'acciaio.
Il successo di M*A*S*H, in ogni caso, rappresentò una grande rivalsa personale per lo sceneggiatore Ring Lardner Jr., che tornò a vincere un Premio Oscar a 29 anni di distanza dal primo (ottenuto per La donna del giorno), dopo essere stato condannato a un anno di carcere e incluso nelle “blacklist” per non aver collaborato con la caccia alle streghe contro i suoi colleghi sceneggiatori.
Un successo che continuò negli anni a seguire: dal film è stata tratta l'omonima serie TV di enorme successo, che tra il 1972 e il 1983 ha ottenuto 14 Emmy Awards (su ben 109 nomination) e 7 Golden Globe.
Insomma, a volte l'Oscar come Miglior Film non è tutto.
Nel 1974, nel pieno della New Hollywood, l'Academy si trovò di fronte a un’edizione straordinaria.
La cinquina per il Miglior Film includeva titoli come American Graffiti, La stangata, L’esorcista, Sussurri e grida e Un tocco di classe, con altre nomination di spicco come Ultimo tango a Parigi, Serpico, Come eravamo e Paper Moon.
Fu un'annata unica in cui Ingmar Bergman, per la prima e unica volta nella sua carriera, si trovò a confrontarsi con le principali produzioni hollywoodiane della stagione cinematografica, nella categoria che più fa discutere durante la Notte degli Oscar.
Nonostante avesse già vinto due premi come Miglior Film in Lingua Straniera nel 1961 e 1962 (La fontana della vergine e Come in uno specchio) e uno nel 1984 (Fanny e Alexander), la sua presenza in questa cinquina racconta chiaramente il poco spazio possibile per un regista europeo in un periodo in cui il Cinema statunitense stava riaffermando la sua autorialità e le sue figure rappresentative.
Bergman portò sul principale palcoscenico hollywoodiano un film che sfida le aspettative del pubblico statunitense.
Mentre la sua vittoria per film come Fanny e Alexander o La fontana della vergine può essere compresa ed empatizzata da una morale puritana e conservatrice come quella statunitense, Sussurri e grida si spinge in territori moralmente più ambivalenti e mutevoli e il film ne risulta più trasgressivo, psicanalitico e iconoclastico, mettendo in discussione l'istituzione familiare e la compostezza borghese, sovvertendole quasi con disprezzo.
Sussurri e grida è un capolavoro in cui quattro donne si trovano intrappolate in un vortice di emozioni intense, tra sussurri sommessi e grida disperate si intrecciano in un crescendo di dramma e angoscia, mentre i rigidi confini dettati dai rapporti sociali e familiari lentamente si sgretolano, dando vita a un'esplosione distruttiva, ostentata e dolorosa.
Sussurri e grida non rappresenta solo un'opera cinematografica straordinaria, ma anche un punto di svolta nella carriera di Bergman e nel panorama cinematografico internazionale: era impossibile non annoverarlo in quell’edizione, ma era - purtroppo - altrettanto improbabile che ne uscisse vincitore.
In un contesto in cui il Cinema hollywoodiano si stava riaffermando Bergman scardinò un pezzettino dell'autocelebrazione a stelle e strisce con quattro nomination (Miglior Film, Migliore Regia, Migliore Sceneggiatura Originale e Migliori Costumi) e un premio, quello alla fotografia di Sven Nykvist, che suona tanto come una consolazione.
Disponibile su Nexo+
[a cura di Fabrizio Cassandro]
Posizione 4
Il mio piede sinistro
di Jim Sheridan, 1989
Il mio piede sinistro è ispirato all’omonimo romanzo che racconta la vita di Christy Brown, pittore e scrittore irlandese.
Christy Brown (la cui magistrale interpretazione valse al giovane Daniel Day-Lewis l’Oscar come Migliore Attore Protagonista) nacque nel 1932 affetto da paralisi cerebrale, una condizione che non permetteva agli arti di rispondere correttamente agli stimoli, fatta eccezione del suo piede sinistro: l'unica parte del corpo perfettamente funzionante.
La storia si apre con Christy a una celebrazione, in attesa del momento in cui dovrà mostrarsi in pubblico e parlare.
La sua infermiera intanto legge il suo libro “My Left Foot: The Story of Christy Brown”: da qui una serie di flashback racconteranno la vita di Christy, dalla sua nascita fino a quel momento.
Ancora in fasce, Christy viene visto come un bambino la cui sorte è segnata, che non ce la farà. Nei primi anni di vita non gli viene insegnato a comunicare in alcun modo perché si pensa abbia anche una disabilità intellettiva ma, attraverso una serie di eventi, Christy dimostra che può farcela: scrive la sua prima parola e il padre, che inizialmente lo disprezzava vedendolo solo come uno scarto umano, comincia a ricredersi.
Da qui in poi Christy vivrà ciò che vivono tutti i ragazzi della sua età: l’educazione scolastica, le marachelle, le amicizie, la prima cotta.
Nonostante tutte le difficoltà, Christy è amato dalla propria famiglia e riesce piano piano ad affermarsi, a parlare ed esprimersi al meglio e infine, come sappiamo dall’inizio, a scrivere la propria storia e condividerla col mondo.
L’incredibile esistenza di Christy Brown non è raccontata con pietismo, è anzi un ritratto sincero di un bambino/adolescente/uomo generalmente buono ma volte anche burbero, arrogante e altre volte anche irrispettoso, alle prese con problemi legati all’alcolismo.
La sua sofferenza non viene spettacolarizzata: è parte di un processo di conoscenza di un essere umano a tutto tondo.
Il suo fortissimo legame con la madre Bridget Brown (Brenda Fricker,vincitrice dell'Oscar come Migliore Attrice non Protagonista), una donna risoluta e fiduciosa, sarà il motivo per cui Christy riprenderà sempre a sfidare se stesso e a non lasciare che il suo fisico sia il suo limite.
Nonostante alcuni avvenimenti della vita del protagonista risultino edulcorati e positivi rispetto ai fatti reali (ad esempio alcuni momenti della sua vita amorosa, la sua strana vita coniugale e la sua drammatica morte che non viene mostrata), la pellicola di Jim Sheridan merita assolutamente la visione.
Disponibile per il noleggio e l'acquisto su AppleTV
Il capolavoro di Terrence Malick ha poco più di 25 anni. Definirlo tale ammette l’avvenuto superamento della prova del tempo.
La sinossi è presto detta: un gruppo di soldati statunitensi attenta la cima di una collina di Guadalcanal, nell’arcipelago delle Isole Salomon, in una delle battaglie strategicamente più cruciali della Guerra del Pacifico. Parlando dell’autore in questione si fa presto a immaginare come questo scenario action possa tramutarsi in qualcosa di più.
Il succedersi di inquadrature pittoresche, dialoghi sofisticati e un commento musicale commovente firmato da Hans Zimmer, senza per questo rinunciare a una dimostrazione di cruda efferatezza, è proprio ciò che risalta gli aspetti contrastanti dello scenario bellico e riesce a comunicarne tutta l'orrorifica insensatezza.
La guerra solleva alcuni fra i più ambigui interrogativi sulla condizione umana: è di fatto uno spazio istituzionalizzato di sfogo che nasce dalla brama della proprietà (desiderio), ma che si fa ben presto spazio di smarrimento (paura). Il primo film di Stanley Kubrick portava non a caso proprio questo nome: Paura e desiderio.
Spazio istituzionalizzato dove il peggiore dei crimini antisociali, l'omicidio, è incentivato invece che condannato.
Su un piano più tecnico Malick e il suo team sono come sempre incredibili nella resa fotografica di tutto ciò che filmano, soprattutto per lo spirito di osservazione che li porta a scegliere di riprendere dettagli immersi in una luce naturale effimera e, per questo, ancora più preziosa, così per la maestria con la quale muovono la macchina da presa: un corpo di metallo animato che qui sfiora l'erba alta fiancheggiando la carne viva degli uomini. Una fotografia impressionista che incornicia monologhi rivolti a Dio o a sé stessi che sono da saggio di teologia.
Che cosa accadde durante la stagione dei premi 1998-1999 a un film tanto ispirato sulla condizione dell’uomo in guerra?
Insignito del prestigioso Orso d’oro al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, La sottile linea rossa si presentò il mese seguente alla 71ª cerimonia dei Premi Oscar con ben 7 nomination, tutte di gran pregio artistico.
Tuttavia né le categorie più tecniche come sonoro, colonna sonora e montaggio, così come nemmeno la regia e la sceneggiatura furono premiate.
Nessuno di loro tolse però al film di Terrence Malick l'Oscar comeMiglior Film del 1998: con 7 premi vinti su 13 nomination fu invece Shakespeare in love di John Madden a sbancare.
Non è questo il contesto in cui giudicare il valore di quest’ultimo, ma rimane il dubbio per chi scrive di quale fra i due titoli la prova del tempo che passa abbia consegnato un ruolo da film precursore.
La traduzione italiana del titolo originale di The Insider si distanzia in due sensi: rimuovendo l'articolo determinativo e aggiungendo al contempo un sottotitolo alquanto significativo.
La prima mossa attenua la carica sostantivale del termine, o perlomeno ne frena la piena - appunto - determinazione e individuazione; la seconda definisce in un lampo la posizione assunta nei confronti della verità.
Che il pensiero cinematografico di Michael Mann sia tenacemente umanista e che questa medesima interpretazione non possa essere figlia di un contenutismo ottuso è la macro-prospettiva grossomodo condivisibile (e ben delineata da Pier Maria Bocchi) che qui si adotta; a un tempo, quello stesso (neo)umanesimo, soprattutto alla luce - pretestuosa, che innesca lo sbiadire del soprattutto - di un film contenutisticamente impegnato, engagé, come Insider, va interrogato più a fondo.
La Storia/storia è quella di un ex-dirigente di una multinazionale del tabacco che si scaglia contro le velenose storture del mondo da cui proviene e, insieme, del giornalista determinato a montare lo scandalo (televisivo) che si trova a fronteggiare ostacoli simili e differenti.
A dispetto di quanto possa apparire da questa insufficiente sinossi, Insider non è tuttavia un film impegnato che si affida a questo impegno eleggendo come unico epicentro la dimensione pubblica a scapito di un contraltare privato o interamente espunto o inequivocabilmente subordinato, valle pronta a poter solo ricevere ciò che rotola dalla vetta.
Dietro la veritàpuò alludere senza dubbio alla doppia costruzione di una verità appunto pubblica, che nel caso di Jeffrey Wigand deve tradursi nel coraggio della parola (di denuncia) e in quello di Lowell Bergman nell'ulteriore traduzione e interpretazione mediatica di quella parola; assecondando anche la caduta dell'articolo determinativo, dunque di parte della determinazione del sostantivo, degli individui, è però Dentro la verità un sottotitolo che forse avrebbe reso ancor più giustizia allo sforzo di Mann, al neo-umanesimo che qui trova un punto di (non-)approdo che allontana dagli scogli di un titanismo romanticheggiante e(ste)ticamente insostenibile.
La ripresa degli stilemi classici compiuta dal cineasta statunitense e la capacità di offrirne una sintesi che hegelianamente è anche un superamento, un superare conservando, sono in Insider espressione di mondi - che continuamente viviamo, che continuamente siamo - in cui ogni dicotomia del tipo pubblico/privato, sentimento/ragione, verità/non-verità si sfalda almeno per un momento.
Momento dopo momento, la complessità globale del cammino e dei cammini di Wigand e Bergman si approssima sempre più: pensare umanisticamente deve voler dire pensare e interpretare questa complessità che, senza sprofondare nel soggettivismo relativistico, non lascia spazio ad alcun rifugio oggettivo, fisso.
Dentro la verità vuole solo una maiuscola, quella che ha già: proprio per questo motivo quella parola può contare davvero.
Bennett Miller è un regista che dialoga con il Cinema classico per come vede e rappresenta gli Stati Uniti come nazione.
Non fa eccezione L’arte di vincere, biopic che attraverso la storia del manager di baseball Billy Beane ci consegna un trattato sull’American Dream, sul mito che ne deriva e sulle basi di argilla su cui poggia.
Il percorso di resurrezione della squadra degli Oakland Athletics gestita da Billy Beane (Brad Pitt) diventa lo specchio per comprendere le dinamiche sportive e sociali dei nostri tempi che troveranno la propria museale personificazione nel film successivo di Miller,Foxcatcher - Una storia americana.
Lo scontro è sempre tra storia personale e destino della squadra, tra capitale e vittoria, tra mente e orgoglio, tra ciò che fa la Storia e ciò che è solo immagine.
L’arte di vincere lascia fuori campo la pomposità celebrativa e la retorica delle partite per soffermarsi sull’uomo, sull’individuo che forgia il proprio percorso indviduale nonostante sappia già la destinazione infausta del collettivo.
Il film di Miller d'altronde si apre con la frase “È incredibile quanto non conosci il gioco a cui hai giocato tutta la vita”, come a dire che non basta saper comprendere numeri e statistiche per vincere, ma è necessario anche altro, forse la fortuna di alleniana memoria.
Resta comunque il fatto che come nel film, anche alla cerimonia dei Premi Oscar del 2012 L’arte di vincere ottenne 6 candidature senza trionfare in nessuna; quell'anno il Miglior Film fu The Artist.
Bennett Miller come Billy Beane, storie di uomini con straordinario talento in perenne attesa del punto per la vittoria finale.