Le città hanno svolto un ruolo fondamentale nella Storia del Cinema mondiale da ormai un secolo, influenzando la narrazione cinematografica, la caratterizzazione dei personaggi e l'estetica delle pellicole stesse: forse il primo lungometraggio con il nome di una città nel titolo è So this is Paris, commedia muta di Ernst Lubitsch del 1926 arrivata da noi con il titolo La vita è un charleston.
Da sottolineare che si tratti proprio di Parigi, la città in cui convenzionalmente si fa nascere il Cinema in quanto tale.
Se nel secolo scorso le difficoltà dovute alle riprese in esterni limitavano la creatività, con l'andare avanti dei decenni e della tecnologia le città sono diventate delle vere icone cinematografiche, scenari perfetti per esplorare l'alienazione, la diversità socioculturale, la solitudine, il caos e la ricerca.
E ancora Munich di Steven Spielberg, Philadelphia di Jonathan Demme, Paris, Texas di Wim Wenders, La signora di Shanghai di Orson Welles, The Spirit of St. Louis di Billy Wilder (in italiano L'aquila solitaria), Vienna di Strauss di Alfred Hitchcock, Mr. Smith va a Washington di Frank Capra, Roma di Federico Fellini... e di Alfonso Cuarón, anche se la sua non è la capitale italiana.
Senza ovviamente dimenticare Casablanca di Michael Curtiz.
Charlie Chaplin ha addirittura tre film: La contessa di Hong Kong, La donna di Parigi, Un re a New York.
Proprio la città della East Coast statunitense meriterebbe una parentesi a parte, dato che non si contano i film che la riportano nel titolo: vi bastino i film di Martin Scorsese New York, New York, Gangs of New York e bene o male anche The Wolf of Wall Streete quelli di Woody Allen, da Misterioso omicidio a Manhattan a Un giorno di pioggia a New York, da Pallottole su Broadway a Broadway Danny Rose fino al capolavoro Manhattan.
Ma Allen ha dalla sua anche Vicky Cristina Barcelona, To Rome with Love e Midnight in Paris, inoltre assieme a Francis Ford Coppola e a - guarda un po' - Martin Scorsese ha firmato uno dei tre episodi di New York Stories.
Pochi grandissimi autori si sono sottratti alla cosa, forse perché la città attrae e allontana, identifica e aliena, rappresenta e distrae: Allen e Scorsese sono due cineasti che senza dubbio hanno raccontato la loro città fino a identificarsi con essa, a esplorarne i lati più oscuri e più allegorici.
In Taxi Driver New York diventa un vero e proprio personaggio, che contribuisce a esprimere l'alienazione e la disillusione del protagonista, così come lo è in Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, dove da luogo dei sogni del giovane Joe si tramuta in qualcosa di completamente diverso e anche in Colazione da Tiffany, che raccontato in un'altra città sarebbe stato sicuramente un altro film.
Tre film che non avrebbero potuto essere girati altrove, così come sarebbe impossibile pensare a La La Land senza Los Angeles o a M - Il mostro di Düsseldorf in un'altra città che non sia quella del titolo italiano.
Le città ricoprono un ruolo fondamentale per quei film che immergono i loro protagonisti all'interno dell'ambiente in cui si muovono, dove mutano, si trasformano e vengono cambiati dal primo all'ultimo atto dell'opera proprio a causa di ciò che hanno intorno.
In oltre un secolo di Cinema le abbiamo viste accoglienti e oscure, distopiche e utopiche, organizzate militarmente e allegramente incasinate, con il risultato a volte di entrare così tanto sotto la pelle del film da diventare protagoniste silenziose, oltre al risvolto turistico che riesce a muovere orde di turisti della location, che viaggiano per recarsi nei luoghi che hanno visto sullo schermo.
La redazione di CineFacts.it ha scelto dunque 8 film in cui 8 città diverse sono protagoniste: buona lettura e, nel caso vi venisse voglia di vederle dal vivo, buon viaggio!
L’opera della New Wave taiwanese non si può scindere dalla travagliata Storia della capitale dell’isola: Taipei.
In tal senso non è che altro che in Taipei - le sue mura, le sue strade, lo skyline - che si può ricercare un filo conduttore tra gli esponenti più importanti del manifesto del Cinema taiwanese.
Se si volesse analizzare questo movimento cinematografico - non basterebbe di certo un trafiletto - bisognerebbe partire proprio dalla sua Storia contemporanea, dalla posizione strategica che l’ha sempre esposta al dominio di stati più forti e che tutt’oggi rende Taiwan fulcro di un precario equilibrio geopolitico, dalla rapida urbanizzazione e modernizzazione della capitale, sgusciata nel tardo capitalismo senza che le ferite del passato avessero tempo di cicatrizzarsi.
The Terrorizers forma, insieme a Taipei Story (1985), un dittico prezioso in cui la città è protagonista.
Il terzo lungometraggio di Edward Yang vinse il Pardo d’argento al Festival di Locarno del 1987; è difficile riassumerne la trama senza sconfinare in narrazioni scomposte, sovrapposizioni casuali, assottigliamento dei rapporti causa-effetto.
The Terrorizers insegue i suoi personaggi: una scrittrice in crisi con il marito che è un medico arrivista capace di tutto pur di ottenere successi professionali, un fotografo e una ragazza membro di una gang giovanile.
I rumori di questa città in rapida espansione sottomettono le parole ed esacerbano i silenzi dei suoi protagonisti, esponenti di una nuova borghesia alienata e alienante che guarda allo stile di vita occidentale.
Nell’imperante materialismo capitalista della Taipei del boom economico degli anni ‘80 si disgregano i piani del reale e dell’immaginario.
Edward Yang, come anche il suo contemporaneo Tsai Ming-Liang, guardava al Cinema di Michelangelo Antonioni, allo scarto tra l’immagine riprodotta e la realtà percepita - vedasi Blow up - e in particolare alla dimensione spaziale della crisi di coppia borghese descritte nella trilogia dell'incomunicabilità.
D’altra parte i pochi film di Edward Yang - la cui poetica trova il suo apice in Yi yi - e uno... e due... - rielaborano le influenze passate in modo del tutto riconoscibile e inscindibile dalla sua area di provenienza.
Pochi film nella Storia del Cinema hanno avuto l'onore di dare il nome a un movimento successivo, uno di questi è Slacker, diretto da Richard Linklater.
Un'opera cinematografica sperimentale, che quasi stupisce chi è abituato a vedere il regista texano come l'autore della trilogia - non chi si ricorda Waking life o A scanner darkly - e che qui si distingue per la sua narrativa non convenzionale, mettendo al centro la città di Austin in Texas, il suo più grande amore, come un protagonista vivo e in continua evoluzione.
Slacker è infatti il flusso di coscienza della città, un susseguirsi giustapposto di vignette brevi e coinvolgenti che cercano di raccontare il panorama umano frastagliato e disomogeneo che la popola, ognuna di queste introduce nuovi personaggi, nuove storie, nuovi riferimenti, nuovi approcci alla vita: ciascuno con le proprie stranezze e idiosincrasie.
Linklater sceglie di seguire i personaggi attraverso le strade, i caffè, i negozi di dischi e altre location locali e come uno sguardo che cambia punto di attenzione passa senza soluzione di continuità dall'uno al'altro dialogo, muovendosi per le strade di Austin: una realtà che non serve solo a raccontare la quotidianità giovanile cittadina, ma che attraverso questa sceglie di mostrarci come l'autore abbia sempre posto al centro l'incontro tra differenti individui e l'interazione come substrato della filosofia su cui si muove il suo Cinema.
Proprio per questo Slacker è stato fondamentale per la nascita del movimento mumblecore, ma in generale - come ricorda Kevin Smith - è stato ispirazione per tutti i registi indipendenti statunitensi successivi.
Il film mostra come basti poco o nulla per creare un'opera importante e degna di nota e con questo anticipa parzialmente tutta la riscoperta di dialoghi spontanei, conversazioni quotidiane e sensazione di realismo che sono state riportate al centro dello sguardo cinematografico in quei decenni.
Slacker celebra la città di Austin, trasformandola in un personaggio dinamico e multiforme, ma soprattutto Slacker celebra le possibilità e la fluidità del Cinema, piegando completamente il linguaggio alla necessità di un autore.
All'esordio cinematografico dopo la felice esperienza dei Teatri Uniti, Mario Martone ci trascina nelle viscere iconografiche di una Napoli, città natale che non può che perdersi col/nel suo protagonista.
Sono gli ultimi giorni di vita del matematico Renato Caccioppoli, inequivocabilmente segnalati da un titolo che - à laUn condannato a morte è fuggito - leva l'attenzione dal cosa, dalla narrazione nella sua natura edipica, frustrante, per dirigerla al come.
Urgono però due precisazioni.
Prima precisazione: è già interpretazione separare il cosa dal come, scindere idealmente contenuto e forma.
Ecco perché l'operazione di Martone, lungi dall'essere l'unica possibile nell'incarnare tale posizione, non può venir filtrata - puntando sul come - attraverso il concetto di esercizio di stile, che spesso peraltro si cela anche in prospettive che vorrebbero (ma il problema si pone anche a tale livello, al volere) fornire un giudizio positivo.
Seconda precisazione: volendo tenere assieme cosa e come o meno, il come - che pure, astraendo, è grossomodo raggiungibile - non è una proiezione soggettiva di Caccioppoli.
Riguarda semmai il mondo nel senso delineato da Martin Heidegger, che nei suoi primi lavori parla anche di come (Wie): uomo (Esserci, Dasein) e mondo non si danno in maniera isolata.
La Napoli ctonia fotografata da Luca Bigazzi, che sul piano scenografico si appoggia ai luoghi effettivamente frequentati da Caccioppoli negli anni Cinquanta, non è il riflesso della mente febbricitante del matematico, ma è il suo orizzonte, la sua finitezza.
Sono giorni tragici in un mondo tragico, in cui Budapest è già stata invasa e l'anarchico Michail Bakunin non è stato ascoltato; gli eventi fanno il paio coi posti, senza determinismi.
(Una) Napoli e Caccioppoli, nella catena interpretativa concretizzata dalla pellicola, si allacciano vicendevolmente, inestricabilmente.
Tre episodi, tre storie, un protagonista. Anzi: due.
Nanni Moretti, regista tra i più capaci a raccontare sé stesso nel mondo che lo circonda, ci ha regalato alcune delle più belle immagini di Roma, sovrana del primo episodio In Vespa.
Caro diario è un racconto intimo e intimista.
Tra idiosincrasie, opinioni politiche, amore per il ballo e gusti cinematografici, la storia personale di Moretti si snoda lungo un percorso che unisce permanenza e viaggio.
Che quest’ultimo sia verso laviche isole eoliane o in giro per studi medici al fine di trovare una diagnosi, è già ben presente all’interno della capitale: un viaggio che si fa pura contemplazione dello spazio circostante, non portando da nessuna parte ma attraversando ogni ambiente.
In sella all’amata Vespa blu, Moretti attraversa la propria città dipingendone un ritratto che è contemporaneamente urbanistico, storico, politico, sociologico ed emotivo.
Lo "splendido quarantenne" dal casco bianco ripercorre la propria esistenza in una deserta Roma agostana e i propri quarant’anni diventano il pretesto per raccontare gli ultimi quaranta della città eterna, tanto cambiata in così poco tempo.
Una carrellata di case ci dà un assaggio di vari quartieri: Garbatella, Villaggio Olimpico, Tufello, Vigne Nuove, Monteverde.
Dall’odore “di tute indossate al posto dei vestiti, di videocassette e di pizze già pronte in scatole di cartone” che aleggia tra i viali di Casalpalocco alla bellezza inaspettata di Spinaceto, ecco una Roma altra: non vediamo i classici monumenti perché siamo condotti in giro non come turisti, ma come viaggiatori.
Menzione speciale a due momenti di questo episodio: l’attraversamento del ponte di Corso Francia, sulle note di I’m Your Man di Leonard Cohen, e la visita al luogo in cui è stato ucciso Pier Paolo Pasolini, accompagnata da un frammento del sublime The Köln Concert di Keith Jarreth.
Il film, presentato in concorso al Festival di Cannes 1994, ha vinto il Premio per la Miglior Regia.
Ha inoltre vinto il David di Donatello, il Nastro d’argento, il Ciak d’oro e il Globo d’oro come Miglior Film dell’anno.
Disponibile su Disney+ e Prime Video
[a cura di Elena Bonaccorso]
Posizione 4
Paris, je t'aime
vari, 2006
Gus Van Sant, Joel e Ethan Coen, Alfonso Cuarón, Wes Craven e ben quattordici altri registi alla camera da presa; Juliette Binoche, Steve Buscemi, Willem Dafoe, Elijah Wood e innumerevoli altri grandi nomi colorano questo ambizioso e stravagante progetto cinematografico in cui 18 cortometraggi rubano uno dopo l'altro pezzi del cuore della Ville Lumière.
Il tema di ciascun episodio è ovviamente l'amore, inteso in ogni accezione possibile, e a farne da sfondo troviamo 18 diverse zone della città.
I registi coinvolti avevano alcune condizioni a cui attenersi, fra le quali rispettare una durata di circa 6 minuti e girare il proprio episodio in appena 48 ore.
Pur condividendo un tema comune i contesti d'amore inscenati sono diversissimi fra loro, ma tutti riescono nel compito di intercettare un aspetto della città di Parigi che potrebbe anche lecitamente sfuggire a chi non la conoscesse a fondo.
Assistiamo a storie di amori che coinvolgono due ragazzi di fede religiosa differente, immigrati africani e paramedici, amori fra passeggeri della metropolitana, attrici americane e turisti che non comprendono l'uno la lingua dell'altro; insomma, sono molti gli attori sociali coinvolti che sono anche protagonisti della reale vita quotidiana parigina.
Desidero soffermarmi su un episodio in particolare che costituirà l'unico spoiler al film.
Nell'episodio Loin du 16ème (Lontano dal 16° arrondissement) la protagonista è una immigrata sudamericana che si sveglia in profonda periferia e porta il suo bambino all'asilo nido dovendo recarsi a lavoro; per consolarlo gli canta una ninna nanna. Dopo un lungo tragitto sui trasporti pubblici la vediamo entrare in un grande appartamento del 16° arrondissement.
Per lavoro accudisce un bambino per una ricca famiglia. Anche a lui canta la medesima ninna nanna.
Il 16° arrondissement è il quartiere più borghese di Parigi: storicamente al 6° piano delle iconiche palazzine haussmaniane della Ville viveva la servitù (per inciso sono ora i minuscoli monolocali degli studenti fuorisede e non solo).
Per un lungo periodo lungo tutto il Novecento le etnie maggiormente coinvolte in queste mansioni furono proprio quella iberica e quella sudamericana, come mostrato anche nel bel film Le donne del 6° piano di Philippe Le Guay.
In tempi più recenti spesso baby sitter e domestiche provengono da quartieri sempre più periferici.
Non solo dunque questo cortometraggio così come altri ci mostra una bellissima rappresentazione di un tipo di amore non convenzionale, ma al contempo dipinge in filigrana uno spaccato sociale della città.
Si ben sintetizza così come la protagonista di questo progetto cinematografico collettivo tutto da scoprire non siano soltanto l'amore e i personaggi coinvolti, ma la struttura e la storia sociale della stessa Parigi.
Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman) è un regista teatrale di Schenectady, New York, con una vita piena di alti e bassi: la sua ipocondria non lo lascia riposare e l’ansia si fa spazio insistentemente tra i suoi pensieri.
Sua moglie Adele decide di lasciarlo per andare a Berlino e coronare il sogno di diventare una pittrice, portandosi con sé la figlia Olive.
Abbandonata la speranza che le due tornino, Caden conosce Hazel e i due hanno un rapporto intenso ma di breve durata; intanto, resta pressante il timore di avere delle malattie incurabili.
Stanco di questa vita opprimente, cerca di allontanarsi utilizzando i soldi del premio della sua ultima sceneggiatura per girare un nuovo spettacolo in un vecchio magazzino.
La messa in scena, però, si rivela una ricostruzione della sua esistenza e di chi gli sta attorno, in un luogo fittizio che muta costante ogni anno che passa.
Il debutto alla regia di Charlie Kaufman è la concretizzazione più forte del suo immaginario, già conosciuto grazie a Il ladro di orchidee e Se mi lasci ti cancello, nei quali si era occupato della sceneggiatura.
Proprio come i sopracitati, la trama lineare si trasforma in una matassa complessa da sbrogliare in poche e semplici parole: la realtà e l’immaginazione si fondono, creando più e più strati senza fermarsi, confondendo lo spettatore al punto da non poter più distinguere gli avvenimenti e, di conseguenza, generando un marasma di dubbi esistenziali.
L’arte si confonde col vissuto e i significati assumono sembianze equivocabili, che si racchiudono in un discorso metacinematografico, un gioco complesso di una narrazione, una voce - quella di Caden Cotard che alla fine “somiglia” al sentire di Charlie Kaufman - alla ricerca compulsiva di un senso per uno sceneggiato senza apparente conclusione, in verità preannunciata in principio come spiega Caden stesso.
“We're all hurtling towards death. Yet here we are, for the moment, alive.
Each of us knowing we're going to die. Each of us secretly believing we won't”.
“Stiamo tutti precipitando verso la morte. Eppure eccoci qui, per il momento, vivi.
Ognuno di noi sa che stiamo per morire. Ognuno di noi segretamente crede che non lo farà”.
La differenza tra la città vera e quella fittizia creata in una fabbrica di Manhattan smette di sussistere: anch’essa è riproduzione, così come sono riprodotti il protagonista stesso e i personaggi che lo accompagnano, che coesistono al punto di creare e ricreare scenari diversi.
Il film, parzialmente girato nella vera Schenectady, già dal titolo svela la città protagonista che prende parte al dramma pessimista di Caden Cotard in funzione del Sé junghiano, costruendosi e distruggendosi con/per lui.
Disponibile a noleggio su Chili, Amazon Store, Google Play e AppleTV
Una ragazza spagnola (Laia Costa) si trasferisce da Madrid a Berlino, dopo aver visto la sua carriera da pianista andare a fondo tutto d'un tratto.
Non sei brava abbastanza, le dicono.
A Berlino lavora in un bar per pochi spicci, è sola, spaesata, animata dalla spinta vitalistica di chi smania per tornare a galla, per respirare di nuovo, per riscattare 16 anni di devozione alla pratica e di rinunce autoimposte, gettati a beneficio di un ambiente in cui solo i veri geni, alla fine, emergono.
Victoria ha fame di relazioni, vuole vedere, essere parte di qualcosa, e noi siamo sempre con lei.
Sebastian Schipper affida alla macchina di Sturla Brandth Grøvlen un unico piano sequenza di 138 minuti che, lungi dal voler essere mero esercizio di stile, trascende la tanto dibattuta dicotomia forma/contenuto, sublimandola in un film che, prima di essere prodotto vero e proprio, è autentica esperienza d'improvvisazione per gli attori.
Tempo del racconto e tempo della vita aderiscono alla perfezione, restituendo alla categoria dello spazio la sua importanza assoluta. Non ci sono tagli, scremature, ellissi: nessun osso che vola per poi trasformarsi in astronave; è tutto urgente, qui e ora.
Alimentati da una sceneggiatura lunga 12 pagine, fra le 4.30 e le 6.58 di un giorno qualunque i personaggi di Victoria vagano fra i neon di tipici club sotterranei, gli scaffali di un minimarket 24H e le candide camere di un hotel di lusso, ma anche fra banche da rapinare e ascensori in cui vige l'assurda regola del silenzio.
Ci sono sparatorie, inseguimenti, balli scoordinati e tesi attimi di quiete. Tutto in una Berlino asfissiante, stretta alla gola come un guanto nero.
Orso d'argento alla 65ᵃBerlinale, il film riesce a celebrare insieme un certo tipo di sperimentazione e l'anima ribollente di una città che ci mostra le sue crepe prima dei suoi monumenti.
È una Berlino gonfia di volti giovani e già segnati, città simbolo dell'Europa transnazionale, dove nuove architetture si mischiano con le vecchie ceneri in cui ogni Victoria può sperare di rinascere.
È una Berlino asciutta ma caotica, emblema di uno zeitgeist che vede sempre più spesso il desiderio eccedere la possibilità, trasformando vicinanza, solidarietà e amicizia in lenitivi per una frustrazione indissolubile.
È una Berlino in cui le vie di fuga prima si moltiplicano e poi si eclissano; in cui l'ombra di giganteschi palazzi grigi, al sorgere del sole, si allunga fino a confondere la vista, regalando l'illusione di un'alternativa fra la noia e l'autodistruzione.
È una Berlino di birre rubate e di corse in bicicletta: piccoli gesti che promettono un presente proprio quando il futuro è venuto a mancare.
Proprio di questa Berlino, Victoria, Sonne (Frederick Lau), Boxer (Franz Rogowski) e compagni sono dirette emanazioni: le appartengono come i gargoyle alla facciata di una cattedrale.
Poco importa se la trama non è solidissima, in Victoria c'è altro, tanto altro.
Soprattutto, c'è Berlino.
"For me, this city is still the definition of right here, right now": queste le parole del regista.
Disponibile su Prime Video
[a cura di Simone Beretta]
Posizione 1
Atlantide
Yuri Ancarani, 2021
Atlantide di Yuri Ancarani inizia come se fosse un documentario e si conclude con immagini che sembrano essere state catturate da un’installazione video-artistica.
Il film è un’opera che per sua natura è sfuggente, che rifiuta le facili etichettature, un po’ come il protagonista Daniele, il cui obiettivo è essere il più veloce tra i canali della laguna.
Non c’è altro nella sua vita e a lui tanto basta.
O meglio, nella desolazione socio-culturale in cui si trova a 24 anni per Daniele l’importante è “Non essere la merda di nessuno”.
Non c’è prospettiva, ma solo l’ambizione del rispetto, quella di prevalere per essere qualcuno o per lo meno per sentirsi tale.
Questo perché la Venezia del film è alla fine dei conti una terra popolata da fantasmi, figure erranti che sfrecciano a 85 km/h su barchini modificati alla ricerca di una terra desolata, una speranza di vita mitologica, un’Atlantide.
Perciò la colonna sonora scelta da Yuri Ancarani rispecchia l’alienazione di una generazione verso il mondo reale, che trova spazio nella psichedelia musicale di SickLuke - uno dei fautori della sonorità trap - e dei versi autocelebrativi della Dark Polo Gang, gruppo che fa dell’estetica della superficie un mantra, uno stile di vita.
Poi, una volta abbandonato il suo protagonista, la macchina da presa prende vita infilandosi tra i palazzi e i canali veneziani come se fossero corpi, cambiando anche la colonna sonora che passa all’orchestra e all’epica, scelta artistica che è un suggerimento: l’Atlantide tanto agognata non è possibile in questa vita.
Non è un caso quindi l’immediatezza socio-culturale di Atlantide, film figlio di una generazione che nella desolazione lagunare priva di orizzonti ormai ha perso ogni speranza verso il futuro: sommerso immobile come l’acqua alta fa con Venezia.
Quel che apprezzo sempre di queste TOP è che non contengono mai film strafamosi che anche i non appassionati di cinema conoscono, ma perle meno conosciute meritevoli della stessa attenzione. Ecco perché amo questo sito ed è l'unico a tema cinema che frequento.
Terry Miller
1 anno fa
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