Da Francesco Rosi a Matteo Garrone fino a Patty Jenkins e Brian De Palma: scopriamo insieme 8 film che hanno tradotto sullo schermo alcuni inquietanti episodi di cronaca nera
La cronaca nera è da sempre oggetto dell’attenzione mediatica italiana e internazionale e la sua spettacolarizzazione ha ormai reso l’individuo testimone affamato dei crimini quotidiani.
Ciò è confermato non solo dal successo dei numerosi progetti di stampo true crime degli ultimi anni, tra YouTube e le principali piattaforme streaming, ma anche dal protagonismo assoluto che le terribili storie di cronaca hanno - e verosimilmente avranno per sempre - nel dibattito pubblico.
Il gusto, insomma, di assistere al racconto di una storia vera è anzitutto quello di poter esprimere le proprie intuizioni rispetto a un caso, annunciando il proprio dissenso o, nei casi più inquietanti, mitizzando i responsabili degli illeciti.
La discussione sull’argomento non cesserà mai, perché la repulsione verso il crimine (e il criminale) diventa sempre più seduzione.
Qual è allora il limite etico? Che impatto ha nel modo in cui viviamo la rappresentazione di terribili storie vere?
E cosa resta nella memoria dello spettatore quando vede, tradotti sullo schermo e interpretati da attori, gli omicidi di cui ha sentito parlare al telegiornale?
[Casi come la fortunata serie TV su Jeffrey Dahmer dimostrano quanto sia necessario riflettere sulle problematiche legate all’esaltazione del serial killer sullo schermo]
Non è nostro compito dare risposte di questo genere, qualora effettivamente esistessero.
Certo è che se l’informazione tende a plasmare la natura dell’evento tragico per fare audience, il Cinema sembra trovare nella cronaca nera il terreno ideale per costruire storie di esseri umani e portare lo spettatore a una riflessione più intima e discreta.
Dagli anni '70 in Italia, complice la nascita del poliziottesco influenzato dal corrispettivo filone hollywoodiano, le storie protagoniste dei film iniziano ad attingere con maggiore prepotenza all’attualità, prendendo spunto attraverso evidenti richiami a fatti di cronaca nera.
Non a caso la critica individua come punto di partenza del poliziottesco due film ispirati a figure criminali realmente esistite: Svegliati e uccidi e Banditi a Milano di Carlo Lizzani. In questo particolare filone le storie vere tendevano a perdersi tra i codici stilistici e narrativi caratteristici del genere (gli inseguimenti, le sparatorie), ma dagli anni '90 nel Cinema nostrano sembra emergere una nuova sensibilità.
Matteo Garrone è a capo di questa rinascita anzitutto con L’imbalsamatore, film strettamente legato all’impatto emotivo del noir e ispirato all’omicidio del nano della Stazione Termini, ma anche con Primo Amore, Gomorra e, più recentemente, Dogman.
[Dogman, ispirato al Delitto del Canaro, è forse l’opera in cui Matteo Garrone riesce maggiormente a utilizzare l’episodio di cronaca nera come mero pretesto; ciò che va in scena è infatti una storia dal carattere universale, arricchita da simbolismi e affascinanti allegorie]
I suoi film, tutti nati dalla rielaborazione di un evento realmente accaduto, seguono un percorso autonomo e diventano storie ultraterrene, tra non-luoghi, terre di mezzo, personaggi infetti, miserabili e sottomessi.
È un approccio alla cronaca nera che, sfruttando l’allegoria visiva e narrativa, è difficilmente riscontrabile in altri casi cinematografici italiani e internazionali. I film del regista romano non hanno bisogno di sfruttare la monumentale spettacolarità attraverso cui spesso le storie di cronaca vengono trasmesse.
Un lavoro certamente da menzionare in questo senso è quello fatto da Bong Joon-ho con Memorie di un assassino, un film che restituendo il sentimento di sfiducia delle persone nei confronti della polizia, dei suoi abusi e dei suoi brutali modus operandi, riflette con pessimismo sulla natura umana, sulla violenza come prodotto della violenza.
[Memorie di un assassino è un altro valido esempio di come l’evento realmente accaduto possa trasformarsi in prezioso spunto narrativo sul quale costruire una storia di grande spessore]
Volando a Hollywood appare immediatamente chiaro chi siano i protagonisti privilegiati dei film ispirati ai fatti di cronaca nera.
A differenza del nostro Cinema che in generale tende a concentrarsi su episodi circoscritti, proprio per la specificità culturale e sociale di certi territori, quello statunitense adora mettere in scena le atrocità dei grandi serial killer della Storia.
Ma gli esempi si sprecano: Zodiac racconta dal punto di vista di Robert Graysmith, autore del libro che ha ispirato il film, la ricerca della vera identità del celebre killer dello zodiaco; Monster parla dei delitti di Aileen Wuornos oppure ancora Evilenko, tratto dal romanzo Il comunista che mangiava i bambini scritto dal regista David Grieco e ispirato alla vita del Mostro di Rostov, serial killer che tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90 terrorizzò l’Unione Sovietica violentando e uccidendo oltre cinquanta persone, tra cui molti bambini.
[Zodiac di David Fincher rimane ancora oggi uno dei film più apprezzati per quanto riguarda il racconto del serial killer]
Registi e autori scelgono approcci differenti per affrontare il tema della cronaca nera: c’è chi sceglie di sviluppare la storia con fedeltà e accuratezza, chi usa la realtà come pretesto narrativo e chi invece riassume, sintetizza e romanza gli eventi per potersi dedicare con maggior impegno alla scrittura del personaggio principale, spesso raffigurato come individuo affascinante e misterioso nella sua incontrollabile furia omicida.
Grazie agli Amici di CineFacts.it che hanno scelto il tema del mese, la redazione ha pensato a 8 film che fossero in grado di rappresentare differenti approcci al racconto e alla rielaborazione di episodi di cronaca nera traslati sullo schermo.
Salvatore Giuliano si apre con la scoperta, il 5 luglio del 1950, del cadavere - non ancora identificato - dell'eponimo bandito a Castelvetrano.
Un ritrovamento, peraltro, girato dal maestro Francesco Rosi con un'attenzione maniacale a restituirne l'impatto scandalistico: un plongée sul corpo crivellato della vittima e sugli astanti e poi un'inquadratura quasi all'altezza del cadavere, mentre viene redatto il verbale da parte delle autorità accorse sul luogo.
L'evento, per il regista napoletano, è un pretesto per raccontare il male atavico di una terra, la Sicilia, e un periodo storico sanguinoso, quello tra il 1945 e il 1950, in cui le pagine di cronaca si sono tinte di nero a più riprese: Salvatore Giuliano, infatti, con il suo sapiente lavoro di ricamo tra flashback, flash forward, gangster movie e dramma processuale è il primo esempio di film-inchiesta ideato e fortemente voluto da uno dei massimi esponenti del genere.
L'idea per il film pare fosse nata, infatti, sul set de La terra trema, quando un giovane Rosi era assistente di Luchino Visconti, e fu strenuamente difesa dal produttore Franco Cristaldi malgrado la scomodità dei temi trattati: l'opera, infatti, non si limitava a ricostruire gli eventi sanguinosi degli anni del brigantaggio e dell'indipendentismo siciliano ma gettava inquietanti ombre sui legami tra politica, mafia e polizia che si estendevano fino ai giorni in cui il film era stato realizzato.
Non a caso, l'opera si apre con un cartello eloquente, che ancora il film alla dura realtà degli eventi in esso narrati:
"Questo film è stato girato in Sicilia.
A Montelepre, dove Salvatore Giuliano è nato. Nelle case, nelle strade, sulle montagne dove regnò per sette anni.
A Castelvetrano, nella casa dove il bandito trascorse gli ultimi mesi della sua esistenza e nel cortile dove una mattina fu visto il suo corpo senza vita."
Oltre sessant'anni dopo, possiamo tranquillamente affermare che tutti coloro i quali hanno voluto puntare sulla pellicola hanno avuto ragione.
Il film venne premiato con l'Orso d'argento per la Migliore Regia al Festival di Berlino ed è unanimemente ritenuto un capolavoro da preservare, tanto da aver ispirato profondamente anche Martin Scorsese, che lo ha identificato a più riprese tra i suoi film preferiti.
A Bitonto, tra il settembre del 1971 e il giugno del 1972, cinque bambini vennero trovati annegati nel fondo di una cisterna in disuso: nessuno tra Adolfo, i due Giuseppe, Concetta e Incoronata aveva, al momento della morte, più di quattro anni.
Fu un caso terribile e senza giustizia che vide il coinvolgimento di numerosi possibili colpevoli: dalle madri ai padri, dai nonni agli zii, fino ai ragazzi e ad altri bambini del quartiere.
Tre sentenze di assoluzione gettarono il drammatico accaduto nelle ombre del mistero e così il caso divenne presto un giallo destinato a cadere nell’oblio.
Pur non facendone mai esplicitamente riferimento, Lucio Fulci nello stesso anno attinse con evidenza a quell’episodio di cronaca nera ancora in corso durante le riprese del film.
Non apparteneva al regista la volontà di replicare i titoli spettacolari dei giornali dell’epoca, né tantomeno quella di attirare l’attenzione sull’evento per spingere la giustizia italiana a muoversi con maggiore apprensione e interesse.
La tragica morte delle anime innocenti di Bitonto fu a ben vedere un pretesto attraverso cui dipingere un ritratto veritiero e sconcertante dell’Italia, sperimentando da un punto di vista tecnico con il genere del giallo e del thriller e, al contempo, inserendo elementi caratteristici dell’horror.
Non si sevizia un paperino, ambientato in un paesino immaginario della Basilicata, è però un film dell’orrore alla luce del sole dove l’oscurità colpisce ciò che è ben visibile in quanto parte integrante e costitutiva della morale di un popolo.
Nella ruralità tipica del Meridione, nel pregiudizio dell'ignoranza e nella superficialità della borghesia, Fulci contrappone moderno e antico, viadotti stradali e riti di magia nera, per lasciare emergere senza alcun didascalismo la crudeltà di entrambe le prospettive, la totale assenza di una protezione da parte delle forze dell’ordine e soprattutto della Chiesa.
Per il regista l’episodio di cronaca nera, dal quale comunque si distaccò considerevolmente, sembra perciò l’occasione ideale per rappresentare l’identità di un’Italia scombussolata dal miracolo economico.
Un’Italia convinta di aver finalmente oltrepassato l’arretratezza sociale e culturale, e invece ancora bloccata dalle sabbie mobili della miseria.
"Era. Adesso è diventato un insulto. Lo pronunciano come se fosse un'offesa!"
Entrato nell'uso comune come sinonimo di pedofilo, Gino Girolimoni è in realtà il protagonista di uno dei più incredibili errori giudiziari della Storia italiana.
Un serial killer terrorizza Roma nei primi anni del regime fascista uccidendo delle bambine nei quartieri più poveri della capitale. In un clima di isteria generale e sotto le pressioni di Benito Mussolini in persona, i responsabili delle indagini finiscono per arrestare un innocente pur di chiudere rapidamente il caso e rassicurare così l'opinione pubblica.
Gino (Nino Manfredi) fa il fotografo, ma si guadagna realmente da vivere aiutando le persone più povere ad ottenere piccoli risarcimenti; affabulatore di professione, ostentato e autentico specialista nell'arte dell’arrangiarsi: un Saul Goodman ante litteram.
Girolimoni però non è solamente vittima di un regime in cerca di un capro espiatorio e di una stampa desiderosa di un mostro da sbattere in prima pagina, ma anche di una società contraddistinta dall'ipocrisia, dall'ignavia e da una certa dose di mitomania.
A corroborare la fantasiosa ricostruzione delle forze dell'ordine saranno infatti le testimonianze di persone spinte a farsi avanti da interessi personali, dalla voglia di mettersi in mostra o da possibili ricompense, il tutto con la complicità di chi invece lo considera innocente ma preferisce stare in silenzio, per non rischiare l'isolamento sostenendo una causa persa. Quando verrà scarcerato la notizia della sua innocenza verrà quasi del tutto ignorata dai giornali. Colpa di Mussolini - nel mentre investito di pieni poteri - ma al tempo stesso in linea con una stampa sensazionalista e giustizialista poco propensa ad ammettere i propri errori.
Pur essendo uscito nel 1972 e avendo al suo centro omicidi commessi quasi un secolo un secolo fa, il film di Damiano Damiani sembra in realtà figlio dei nostri tempi: un'opera che intreccia l'interesse morboso del pubblico verso i casi di cronaca più efferati con l'opportunismo di stampa e politica.
I primi per vendere più giornali, i secondi per apparire inflessibili nei confronti della criminalità e giustificare un'ulteriore svolta autoritaria. In mezzo a loro Girolimoni che, come nei moderni casi di cronaca, vedrà la sua vita vivisezionata e sbattuta in prima pagina, senza possibilità di rifarsi un nome o ripulire il proprio una volta libero.
A livello narrativo Damiani decide di andare contro le convenzioni del genere mostrandoci da subito l'identità del killer (nella realtà mai individuato).
L'obiettivo è certamente quello di evitare ogni possibile ambiguità riguardo l'innocenza del protagonista, ma non solo. Qui il caso di cronaca nera non si piega alle regole del poliziesco e l'unica indagine alla quale Damiani sembra essere realmente interessato è di tipo antropologico: evidenziare l'emergere e il persistere all’interno della nostra società di istinti, pulsioni e comportamenti tipici di comunità pre-moderne.
La giustizia sommaria del popolo che non sentendosi sufficientemente tutelato dalle istituzioni decide di dare vita a una caccia all'uomo con relativi linciaggi di semplici sospettati.
Così come il primato dei legami di sangue e la conseguente protezione concessa ai componenti del proprio nucleo familiare, anche quando si macchiano dei crimini peggiori.
L’imbalsamatore di Matteo Garrone si ispira alla vicenda che la cronaca nera ricorda come "la storia del nano della Stazione Termini”.
Domenico Semeraro, in arte Mimmo, era un uomo di 44 anni alto 130 centimetri, che conduceva tre vite in parallelo: professore in un Istituto Tecnico di Roma, segretario dell'Istituto statale di istruzione superiore "Roberto Rossellini" - dove debuttò come controfigura per Non si sevizia un Paperino di Lucio Fulci - e tassidermista professionista.
L’uomo fu ritrovato senza vita in un sacco della spazzatura in una discarica a Corcolle, una frazione di Roma.
Strangolato, si scoprirà, dal suo giovanissimo amante con il foulard Balenciaga che portava sempre al collo.
Il film si prende alcune libertà rispetto ai fatti reali, come i nomi dei protagonisti, l’ambientazione e alcune dinamiche della storia.
Garrone racconta la storia di Peppino Profeta (Ernesto Mahieux), un cinquantenne proprietario di un laboratorio di tassidermia che si invaghisce di Valerio (Valerio Foglia Manzillo), un ragazzo conosciuto in uno zoo.
Per narrare l’incontro il regista romano si serve di un escamotage naturalistico: la soggettiva di un marabù, un uccello che si nutre di carogne.
Questo dettaglio si inserisce nella poetica di Garrone in modo chiaro, come sguardo profetico e come trasposizione zoomorfa della brutalità umana.
Del resto L’imbalsamatore compone con Primo amore (2004) e Dogman (2018) una sorta di trilogia tematica sulla cronaca nera in cui la metafora bestiale giunge alla maturità artistica e contenutistica proprio nel terzo atto.
Peppino diventerà per Valerio un grottesco Virgilio che lo accompagnerà in un girone di viziosi, a cavallo tra il degrado delle coste campane e la nebbia cremonese che nasconde la realtà sotto una coltre quasi esoterica.
Quando però Deborah (Elisabetta Rocchetti) entra nella vita di Peppino come nuova - e più conforme - partner di Valerio si forma un ambiguo triangolo: la simbiosi tra i tre personaggi si tramuta a quel punto in tragedia.
Aileen Wuornos fu una serial killer statunitense con un complicato vissuto, difficilmente riassumibile in poche righe.
Con questa consapevolezza Patty Jenkins con Monster racconta solo una parte della vita di questa donna, quella che va dal primo omicidio all’ultimo sino al giorno della sua condanna a morte.
La pellicola si apre con Aileen bambina che racconta il suo passato: allegra e spensierata, sognava di diventare famosa.
I sogni, però, si fanno sempre più fragili e quella bambina cresce, affrontando una realtà atroce ove ogni uomo che si avvicina a lei se ne approfitta, in un moto disumano di stupri e abusi.
Ormai trentenne, Aileen (Charlize Theron) conosce in un bar Selby Wall (Christina Ricci) e, dopo un primo rigetto di Aileen, le due cominciano a frequentarsi e si innamorano l’una dell’altra, nonostante la famiglia di Selby non ne accetti l’omosessualità.
Dal canto suo Aileen, che per sopravvivere si prostituiva, decide di continuare sommessamente in virtù di dare una bella vita alla sua amata.
Una notte Aileen si ritrova in macchina con un cliente aggressivo, che la ferisce e la lega; pochi istanti prima che l’uomo la stupri gli spara ripetutamente con una pistola trovata tra i sedili.
Pregna di dolore, rabbia e disgusto, decide di fuggire con Selby e, dopo un breve periodo alla ricerca di un lavoro degno, torna sconfitta a prostituirsi scoprendo però un forte desiderio di uccidere tutti gli uomini disgustosi e violenti.
La regista sceglie di narrare un caso di cronaca non limitandosi ai fatti, ma sviscerando i sentimenti, i pensieri e, soprattutto, l’animo di Aileen a tutto tondo.
Il ruolo della donna, che valse l’Oscar come Migliore Attrice Protagonista a Charlize Theron, non è semplice da portare in scena: si tratta infatti di mostrare una vita passata in fuga, di chi cerca di sopravvivere al mondo intero costretto a fare cose orribili sotto il costante giudizio altrui; di chi vorrebbe solo limitarsi a vivere senza essere costantemente turbato, martoriato, distrutto.
Ucciso.
Patty Jenkins parla chiaro e non usa mezzi termini: la violenza non può essere imbellettata, la violenza genera altra violenza.
Attraverso immagini semplici e pulite si mostra un mondo fatto di intolleranza - razzismo, sessismo, omofobia e maschilismo - e corruzione, dove il rifiuto verso il genere femminile non è altro che il riflesso di una società malata in cui la prevaricazione avviene in modo costante, costringendo chi sopravvive a farsi giustizia da solo.
Che fare quando nei primi minuti di un film le parole contraddicono per ben due volte le immagini?
In Black Dahlia la prima occorrenza riguarda le parole (d'ordine: il livello è quello dello pseudo-consenso pubblico) di una radio della polizia che minimizza la violenza che, però, vediamo in tutta la sua esplosione: fin qui qualcosa di facilmente assorbibile - e interpretabile, ad esempio politicamente - sul piano diegetico.
La seconda mina l'affidabilità del narratore intradiegetico; procedimento non nuovo, certo, ma comunque catastrofico se non si è preparati a (e/o non si è volenterosi di) accoglierne le piene conseguenze.
Con Brian De Palma, lo sappiamo, "la macchina da presa […] mente 24 volte al secondo", e in Black Dahlia il pretesto è un caso di cronaca nera già mediato nel 1987 dalla penna di James Ellroy.
Se il romanzo dell'autore di L.A. Confidential, a suo tempo efficacemente trasposto dall'omonima pellicola di Curtis Hanson proprio assecondando la scansione cinematografica dell'originale cartaceo, era un neo-noir che faceva della restituzione (già mediata) di un mondo-ambiente e dell'iper-stratificazione narrativa i propri punti di forza, il bistrattato film di De Palma scavalca il noir e insieme il neo-noir mentre ne fagocita, aderendovi, i codici.
L'inaffidabilità non è mai un gioco, men che meno un'operazione del Postmodernismo ironico. L'introspezione è negata nonostante il voice-over, la matassa narrativa - contro Ellroy - non ha interesse per i bandoli, la verità non ha funzione redentrice né può averla: è la dialettica est-etica tra una finzione privata di connotazioni moral-moralistiche e la menzogna a solcare l'opera, imprendibile.
L'omicidio irrisolto di Elizabeth Short, clamoroso caso mediatico negli USA del 1947, non è un pretesto perché le vittime sono interscambiabili o perché De Palma lo sfrutta strumentalmente come MacGuffin; allargando il discorso e rendendo antropologica la portata della riflessione depalmiana, ogni caso di cronaca non solo nera è un MacGuffin, e non può non esserlo.
Tutto è MacGuffin, tutto è pretesto, tutto - e qui dimora consapevolmente De Palma - è immagine.
Poche volte come in Black Dahlia la narrazione è implosa così fecondamente: basta fidarsi degli inaffidabili.
È asfissiante il cammino che Bennett Miller sceglie di percorrere per arrivare all’omidio di Dave Schultz.
Foxcatcher - Una storia americana d’altronde tratteggia l’horror per costruzione dei personaggi e dei tempi narrativi, arrivando al caso di cronaca nera che sconvolse gli Stati Uniti solo nell’ultimo atto.
Dave Schultz, campione olimpico di lotta libera, è stato vittima di un uomo, ovvero il miliardario John du Pont, ma anche di un sistema.
Per questo, per una volta, il sottotitolo dell’adattamento italiano “Una storia americana” è quanto mai centrato, rivelatorio.
La squadra di lotta libera Foxcatcher è stata comprata dal denaro di du Pont e ingabbiata nella sua villa. Un processo di colonizzazione che mostra come l’uomo può essere piegato dalla violenza - in questo caso psicologica - di un singolo individuo.
La paura di una scellerata reazione improvvisa o di un abbandono hanno innestato nella dinamica tra Mark Schultz (fratello di Dave) e John du Pont un rapporto di padre-padrone.
Un rapporto perciò tossico e cimiteriale.
La dinamica non è quella della passione, dell’amore verso uno sport ma quella del potere e perciò del possesso.
Per questo il personaggio di du Pont è uno specchio storico degli Stati Uniti, del loro passato di feroci colonialisti.
La ribellione se esiste viene repressa, come accaduto a Dave Schultz, che nel tentativo di liberare il fratello dalle sabbie mobili in cui era sommerso è stato freddato da du Pont davanti alla propria famiglia.
Foxcatcher è un film magistrale, che nel suo rigore formale nasconde una violenza inaudita, un ritratto di fantasmi in un mondo costruito sulla morte: una storia americana.
Il film di Bennett Miller vinse il Premio per la Regia al Festival di Cannes e ottenne 5 candidature ai Premi Oscar.
Dal contesto alle conseguenze: il film di Stefano Mordini analizza il retroterra culturale del Massacro del Circeo, uno degli eventi di cronaca nera italiana che più scossero l’opinione pubblica e aprirono il pubblico dibattito sullo stupro.
La scuola cattolica è ispirato all’omonimo libro di Edoardo Albinati, scrittore e testimone parziale della storia in quanto compagno di classe di Salvatore, fratello minore di Angelo Izzo, uno degli esecutori del massacro.
La voce narrante dello scrittore ancora ragazzo è affidata a Emanuele Maria Di Stefano e attraverso i suoi occhi impariamo a conoscere uno degli ambienti scolastici della borghesia romana, un istituto cattolico maschile.
Roma, 1975: la vita quotidiana nell’istituto si articola tra rapporti squilibrati di potere tra studenti e docenti e tra studenti e studenti, con episodi di bullismo emblematici di una violenza potenziale che, in alcuni casi, diventerà concreta.
Il film, come lo stesso Albinati, suggerisce una chiara correlazione tra l’educazione dei maschi in un contesto conservatore, cattolico, benestante e destrorso (quando non apertamente neofascista) e la violenza scatenatasi contro le due ragazze proletarie Rosaria Lopez e Donatella Colasanti: sequestrate, torturate e stuprate (Donatella sarà l’unica a sopravvivere) da Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira in una villa sul Circeo.
Oltre a delineare il vissuto in prima persona di Albinati, il regista mette in mostra nella parte finale la violenza subita dalle due ragazze; lo fa in maniera cruda, asettica, disturbante.
I nudi integrali di vittime e carnefici e la gestione quasi teatrale della regia nelle scene più forti potrebbero apparire superficialmente qualcosa di fine a sé stesso, ma sono in realtà un doloroso mezzo per mostrare cosa siano stati capace di compiere su altri esseri umani dei giovani uomini, cresciuti con una distorta idea di egemonia/subalternità.
Il film è stato presentato fuori concorso alla 78a Mostra del Cinema di Venezia, per poi essere distribuito nelle sale con il divieto ai minori di 14 anni, successivamente elevato a 18 e poi riportato a 14, a seguito delle numerose critiche di censura.