8 straordinari perdenti all'Oscar per il Miglior Film Internazionale
Ne vengono nominati 5 ogni anno e vince soltanto uno, quello di cui di solito si chiacchiera dopo la cerimonia: l'Oscar per il Miglior Film Internazionale è una fucina di titoli da recuperare, un vero viaggio intorno al mondo attraverso il Cinema
“Gli Oscar non sono un festival cinematografico internazionale. Sono molto locali."
Nell'ottobre 2019 il regista Bong Joon-ho rilasciava un'intervista a Vulture dove, tra le tante cose interessanti, dichiarava il suo punto di vista in merito ai Premi Oscar.
Il suo Parasite aveva già vinto la Palma d'oro al Festival del Cinema di Cannes e continuava a ricevere premi e apprezzamenti in tutto il mondo, ma ancora non aveva ricevuto 6 nomination e soprattutto non aveva ancora vinto i 4 Oscar che hanno scritto una pagina di Storia degli Academy Awards.
Quello di Parasite fu un evento difficile da pronosticare, dato che nessun film sudcoreano era mai stato candidato agli Oscar fino a quel momento, nonostante la cinematografia di quel paese sia tra le più floride, interessanti e influenti degli ultimi decenni; proprio da questa curiosità era nata la domanda di E. Alex Jung che ottenne la risposta che poi tutti ci trovammo a discutere nei giorni seguenti.
Bong Joon-ho in ogni caso non aveva tutti i torti: Parasite è a tutti gli effetti il primo film nella Storia degli Oscar ad aver vinto la statuetta come Miglior Film e come Miglior Film Internazionale, in quanto non in lingua inglese.
Gli Oscar esistono dal 1929, la categoria dedicata ai film non statunitensi è nata nel 1957 e Parasite ha vinto nel 2020.
Già così è piuttosto chiaro il pattern, no?
L'Oscar al Miglior Film Internazionale - nominata così dal 2020 dopo decenni di "Miglior Film in Lingua Straniera" - resta comunque l'unica statuetta che fa dialogare l'esclusivo club hollywoodiano con il resto del mondo, anche se come vedremo è un "resto del mondo" che rimane un po' troppo esclusivo anche quello.
[In verde chiaro i paesi che hanno ottenuto almeno una nomination come Miglior Film Internazionale, in verde scuro i paesi che hanno vinto almeno un Premio Oscar]
Nel 1948 si svolse la XX edizione dei Premi Oscar e fu la prima occasione in cui venne assegnata una statuetta a un film recitato in una lingua che non fosse l'inglese: si trattava di Sciuscià, uno dei capolavori di Vittorio De Sica; l'anno successivo il premio speciale andò al film francese Monsieur Vincent e nel 1950 fu ancora De Sica a riceverlo per un altro dei suoi capolavori: Ladri di biciclette.
La categoria divenne ufficale nel 1957 e le prime due edizioni videro vincitore Federico Fellini, con La strada e Le notti di Cabiria, mandando immediatamente l'Italia a condurre la classifica dei Paesi vincitori di quell'Oscar; i cuginetti francesi recuperarono i due anni successivi grazie a Jacques Tati con Mio Zio e a Marcel Camus con Orfeo Negro: 2 a 2.
La Svezia però aveva dalla sua un certo Ingmar Bergman, che infatti scese in campo e mise le cose ancora più in parità con 2 Oscar di fila: La fontana della vergine nel 1961 e Come in uno specchio nel 1962.
L'orgoglio francese si fece sentire e l'anno dopo portò a 3 gli Oscar per il proprio paese con L'uomo senza passato di Serge Bourguignon, ma la doppietta italiana immediatamente successiva con 8½ di Federico Fellini e Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica rispedì la Francia al secondo posto.
In 9 anni il Miglior Film Internazionale era andato a 3 paesi soltanto e le cose in seguito non cambiarono più di tanto: considerando anche quelle precedenti alla categoria ufficale ad oggi le edizioni del premio sono state 75 e per 58 volte l'Oscar è andato a un film europeo.
Più di un terzo del totale se lo sono aggiudicato due paesi, Italia e Francia rispettivamente con 14 e 12 Oscar; al terzo posto troviamo il Giappone con 5 e poi un quartetto formato da Danimarca, Spagna, Russia e Germania a 4.
[Niente di nuovo sul fronte occidentale è l'ultimo della lista dei vincitori come Miglior Film Internazionale]
Guardando le nomination e non i premi si nota che anche in quel caso c'è solo un piccolo gruppo di paesi: 62 nazioni hanno avuto un film candidato, meno di un terzo delle nazioni esistenti al mondo.
Non pensiate che sia perché il Cinema negli altri paesi non esiste: per darvi un'idea l'Egitto ha presentato film in 36 occasioni e le Filippine in 33, eppure nessuna delle due nazioni ha mai ricevuto una nomination.
Israele è arrivato a ottenere una nomination per 10 volte, senza mai vincere.
Ci sono poi i casi limite dovuti alle regole che definiscono il premio: i film candidati come Miglior Film Internazionale devono infatti essere prodotti al di fuori degli Stati Uniti e devono essere recitati per la maggioranza in lingua non inglese; ogni paese del mondo può inviare all'Academy un solo film all'anno.
Tra le "vittime" più note dovute al regolamento c'è sicuramente il film nigeriano Lionheart, escluso dalle nomination nel 2019 in quanto recitato per la maggior parte in lingua inglese, nonostante sia la lingua ufficiale della Nigeria.
Dal 2006 è caduta la regola che prevede che la lingua del film sia quella del paese che lo ha prodotto, peccato che nel 2004 fosse ancora in vigore e abbia così eliminato le possibilità di nomination per Private, film italiano che vide l'esordio alla regia di Saverio Costanzo, recitato in arabo ed ebraico.
Da sottolineare inoltre la curiosità che lega gli unici 3 paesi africani vincitori dell'Oscar, ovvero l'Algeria nel 1970 con Z - L'orgia del potere, la Costa d'Avorio nel 1977 con Bianco e nero a colori e il Sudafrica nel 2006 con Tsotsi: nel primo caso il regista è il greco naturalizzato francese Costa-Gavras, nel secondo è il francese Jean-Jacques Annaud e nel terzo il sudafricano Gavin Hood, anche lui bianco come gli altri due.
Negli ultimi anni si sta notando una certa apertura da parte dell'Academy nei confronti del mondo, anche e soprattutto in seguito alle polemiche innescate dal movimento #OscarsSoWhite nato nel 2016 che denunciava giustamente una schiacciante ed esagerata maggioranza di caucasici all'interno dell'associazione.
Parasite di Bong Joon-ho è stato nel 2020 il primo film non in lingua inglese a vincere l'Oscar come Miglior Film, ma la presenza di una "quota straniero" tra i candidati nella categoria è una cosa che si sta verificando in ogni edizione a partire dall'anno prima.
Nel 2019 ci fu Roma di Alfonso Cuarón (recitato in spagnolo), nel 2021 Minari (principalmente in coreano), nel 2022 Drive My Car (principalmente in giapponese) e nel 2023 Niente di nuovo sul fronte occidentale (recitato in tedesco e francese).
Prima del 2019 era successo a La grande illusione di Jean Renoir, Z - L'orgia del potere di Costa-Gavras, Karl e Kristina di Jan Troell, Sussurri e grida di Ingmar Bergman, Il postino di Michael Radford, La vita è bella di Roberto Benigni, La tigre e il dragone di Ang Lee, Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood e Amour di Michael Haneke.
Appena 9 volte in 80 anni dal 1939 al 2018, per poi riverificarsi per 5 volte di fila negli ultimi 5 anni.
Gli Oscar si stanno dunque aprendo agli altri paesi nella categoria da loro ritenuta più importante, quella che premia la miglior produzione e che il giorno dopo la cerimonia riceve la luce di tutti i riflettori del mondo, di riflesso anche la categoria del Miglior Film Internazionale negli ultimi anni ha visto una serie interessante di "prime volte", ovvero di nomination per paesi che non l'avevano mai ottenuta prima: è il caso del Libano nel 2018 (che ha poi raddoppiato subito nel 2019), della già citata Corea del Sud con l'exploit di Parasite nel 2020, della Tunisia e della Romania nel 2021, del Bhutan nel 2022 e della sorprendente Irlanda nel 2023.
Sorprendente perché pare assurdo che non fosse mai stata candidato prima un film irlandese, ma il motivo è da riscontrare nella regola della lingua inglese che in Irlanda è una delle due lingue ufficiali e, solitamente, quella utilizzata nel Cinema; The Quiet Girl è però recitato nell'altra lingua ufficiale, il gaelico irlandese, che ha dunque permesso al film di entrare nel circolo dei candidati al Miglior Film Internazionale.
Credo che nessuno voglia costringere l'Academy a promuovere il Cinema mondiale - non è il suo scopo, né il suo principale obiettivo - ma una volta presa coscienza del fatto di essere il premio cinematografico più visto e seguito dal pubblico di tutto il mondo forse sarebbe il caso di ampliare lo sguardo almeno sulla categoria che tiene conto proprio di quel Cinema.
In merito c'è una riflessione significativa pronunciata dal regista keniota Likarion Wainaina, autore dell'acclamato Supa Modo, film presentato al Festival del Cinema di Berlino che ha raccolto nel mondo 44 premi su 58 nomination, opera presentata all'Academy per il Kenya che però non è entrata in nomination:
"Normalmente noi africani siamo visti come dei mendicanti che chiedono l'elemosina.
Ma sono sicuro che il giorno in cui i riflettori saranno puntati sul Cinema africano l'unica cosa che ogni singolo membro dell'Academy sarà pensare "Perché ci è voluto così tanto tempo per guardare questa roba?!""
Qui sotto troverete 8 film che non hanno vinto l'Oscar, ma che sono dei meravigliosi esempi di cosa l'Academy abbia nominato nei decenni e di quello che il Cinema al di fuori degli Stati Uniti è in grado di offrire.
Ci auguriamo che possano incuriosirvi e spingere a guardare oltre, nel caso vi troviate rinchiusi tra le mura del Cinema hollywoodiano con la paura di scoprire qualcosa di nuovo.
Magari anche voi vi chiederete "Perché ci ho messo così tanto per guardare questa roba?!"
Il punto fermo del Cinema di Gillo Pontecorvo è sempre stato l'impegno politico, che si è tradotto in un fare artistico mai caduto nell'arido ideologismo e che ha portato in scena una sorta di documentarismo narrativo i cui protagonisti di elezione sono coloro che la Storia ha calpestato, torturato e silenziato, eredità della sua formazione neorealista.
Gli indios, gli ebrei, i sottoproletari trovano spazio nella concisa filmografia del regista pisano, puntellata di progetti mai realizzati e lunghi intervalli tra un'opera e l'altra, naturale risultato di un approccio molto rigoroso che faceva ruotare ogni idea, ogni atto creativo attorno alla necessità del Cinema, e non alle bieche (ma spesso stringenti) logiche dell'industria.
Logiche che spesso hanno comunque - ovviamente - interferito nell'onorevole agire del regista, come nel caso di Kapò. Ben lungi a mio avviso dall'essere un film perfetto, Kapò fu uno dei primi a imbastire un discorso narrativo sul campo di concentramento, con tutte le problematiche che tale scelta tematica inevitabilmente comporta, tra cui in particolare la spettacolarizzazione della Shoah e la sessualizzazione all'interno del lager.
Pontecorvo decide di raccontarci la storia di Edith, una giovane ebrea che riesce a sopravvivere all'interno di un campo di concentramento in Polonia grazie a un cambio di identità e all'assunzione dell'odioso ruolo di kapò.
La storia d'amore con il prigioniero sovietico Sasha è il principale nodo della discordia tra Pontecorvo e Franco Solinas, che con lui si è occupato della sceneggiatura: le logiche commerciali di cui sopra costrinsero il riluttante regista a inserirla nel film, andando a rovinarne la compattezza narrativa e dandogli una disarmonica piega da feuilleton.
Negli enormi occhi di Susan Strasberg (figlia di Lee, colui che ha importato i dettami del Metodo Stanislavskij negli Stati Uniti) vediamo l'innocenza tradita, un'identità ebrea non pacificata, la disperata voglia di vivere e l'aspirazione alla redenzione.
La bontà delle intenzioni, alcune decisioni tecniche molto forti (come la scelta di "controtipare" alcune sequenze per conferir loro una grana da cine-giornale) non sono riuscite a salvare il film da alcune critiche molto forti che, per assurdo, sono forse il suo lascito maggiore, ciò che oggi viene ricordato di un'opera che non è riuscita a imporsi sulle reazioni che è stata in grado di suscitare: fatto esemplificativo di come una volta uscito un film diventi a tutti gli effetti dello spettatore, del poco controllo sulla ricezione che anche il regista più "puro" può avere.
Jacques Rivette ha criticato aspramente il carrello in avanti che a suo dire spettacolarizza la morte di uno dei personaggi principali, affermando che un regista che abbia compiuto tale scelta artistica non meriti altro che disprezzo.
Parole forti su cui la più strenua difesa non è riuscita ad avere la meglio nella memoria storica.
Uscito sconfitto dalla cerimonia degli Oscar del 1961 contro La fontana della vergine di Ingmar Bergman, Kapò è l'ennesimo film di cui vale assolutamente la pena riscoprire l'interesse della carriera troppo poco ricordata del regista de La battaglia di Algeri.
A cinquant'anni di distanza fra il primo lungometraggio della sua carriera e le ultime opere, Roman Polański ha spesso inscenato la medesima dinamica: una donna che dà una lezione di umiltà a un uomo.
Se in Venere in pelliccia del 2013 possiamo osservare le interazioni fra il genere maschile e quello femminile come spettatrici di un rovesciamento dei rapporti di forza - lì accentuate dalle tematiche trattate, prima su tutte quella del sadomasochismo - nel 1962 i dialoghi fra i tre personaggi protagonisti sono meno allusivi, le movenze meno spinte; eppure resiste il medesimo grado di infida necessità nella lezione impartita all'ego maschile, questa volta per via di un segreto, oltretutto sadicamente rivelato.
L'unità di tempo, luogo e azione è un'altra delle caratteristiche che unisce i due film: una coppia passa un fine-settimana su di una barca e dà un passaggio a un ragazzo; non tarderanno le divergenze e lo scontro finale fra i due uomini.
Tanti gli status simbol della virilità inseriti nella sceneggiatura: la competenza, il coraggio, l'intraprendenza, la decisione; tutti rappresentati dall'oggetto simbolo del film, vale a dire il coltello.
La forma della stessa imbarcazione che fende le onde è uno dei possibili significati del titolo.
La lama, dopotutto, è storicamente il primo simbolo del genere maschile.
Come ci si rammarica quando si viene avvisati di una disgrazia imminente, ma si apprezza il fatto di sapere come correggere per tempo il proprio atteggiamento futuro, così questo film ancora attuale - e tanto più sconvolgente al debutto di quel lontano decennio - parla al genere maschile, facendone incrinare le certezze ma facendo affidamento alla sua sensibilità.
Non poteva iniziare in modo più intrigante la carriera di questo regista, da subito ampiamente riconosciuto dalla critica internazionale, dalla Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia, alla nomination ai Premi Oscar per il Miglior Film Internazionale nel 1964.
Fu tuttavia l'anno di Federico Fellini, del resto già al suo ottavo (e ½) film.
Éric Rohmer è stato un regista cardine della Nouvelle Vague e un simbolo del Cinema francese dagli anni '50 fino alla sua morte: il suo film più rappresentativo è La mia notte con Maud, candidato ai Premi Oscar nel 1970 come Miglior Film Internazionale e nel 1971 come Migliore Sceneggiatura Originale.
Quell'anno vinse Z - L'orgia del potere di Costa-Gravas e nel 1971 venne superato da Patton, generale d'acciaio di Francis Ford Coppola, ma questo non fermò l'avanzata di un nuovo Cinema di stampo rohmeriano nel panorama statunitense: basti pensare al percorso di John Cassavetes che quasi in contemporanea al francese si fece promotore di un'idea innovativa di dialogo, di improvvisazione e di centralità della parola e dell'interazione umana nel racconto cinematografico.
La mia notte con Maud è una parte dei Sei racconti morali insieme a La fornaia di Monceau, La carriera di Suzanne, La collezionista, L'amore il pomeriggio e Il ginocchio di Claire ed è una perfetta rappresentazione dell'idea filosofica e artistica del regista francese: un Cinema fatto di spazi liberi in cui si muovono uomini e donne che cercano una punto di contatto più che una verità definitiva, attraverso un processo maieutico figlio del loro incontro e dello scambio di inclinazioni e credenze,
Jean Louis è un ingegnere poco più che trentenne che viene portato da Vidal, un vecchio amico ritrovato in un bar, a casa di Maud, una donna in carriera divorziata: viene così messo in scena un lungo dialogo, prima a tre e successivamente solo con i due protagonisti, in cui dalle relazioni amorose alla fede (con una fantastica esposizione della scommessa di Pascal da parte dell'uomo) vengono confrontate le posizioni di due generazioni e due esseri umani tanto diversi da provare alla fine un'irresistibile attrazione.
La morale e l'opportunità si incontrano e si scontrano nello sguardo dell'uomo, veicolo della visione dell'autore, che mostra allo spettatore la forza della sensazione e dell'affinità rispetto alla sola elucubrazione mentale attraverso il dilemma etico.
In questa equazione si aggiunge Françoise, giovane ventenne di cui Jean Louis è da tempo platonicamente innamorato: da un lato la purezza del sentimento, dall'altra la carica mentale e situazionale del momento porranno il protagonista davanti a un dubbio ancora più forte che solo il tempo, altro grande protagonista del Cinema rohmeriano, potrà sciogliere attraverso un nuovo incontro tra Maud e il protagonista cinque anni dopo.
Un film fondamentale nell'evoluzione del dramma intimo e dell'uso del dialogo nel Cinema che - forse - quell'Oscar l'avrebbe meritato.
Sul finire del XIX secolo Lodz sta diventando meta di una corsa all'oro pienamente industriale: vi si gettano famelici - durante l'età zarista - un polacco, un tedesco e un ebreo, che tanto rappresentano alla luce delle successive sorti della Polonia.
L'abusata formula del colossale affresco in costume (di matrice letteraria anche in questo caso: la base è un romanzo del premio Nobel Wladyslaw Reyomont) diventa occasione per Andrzej Wajda per esaminare lo scompiglio economico, sociale e morale innescato dal prepotente affermarsi della mentalità capitalista, proprio dal punto di vista dei suoi più accaniti alfieri.
Per mostrare gli esiti di un simile percorso, tutt'altro che irreversibile, il cineasta polacco adotta uno sguardo espressionista che pone il problema della distanza rispetto agli eventi rappresentati, al punto da aver determinato nel 2000 un nuovo montaggio, finalizzato a eliminare alcune scene troppo spinte.
Svincolatosi dalla rigidità filo-teatrale spesso connessa alla forma in costume, come se la ricerca stilistica anti/non-teatrale suonasse paradossalmente anacronistica, Wajda opta per un utilizzo parecchio disinibito di zoom, camera a mano, ottiche grandangolari e carrelli complessi; lo fa davanti all'opulenza di una scenografia che rende evidente come realismo e naturalismo non vadano di pari passo.
Tra una progressione narrativa ellittica e una frequente sottolineatura dell'aspetto macchinico, tra i drammoni statunitensi sulla frattura rurale/urbano e Metropolis, va diffondendosi un'atmosfera allucinata che - vista non di rado al di là della cortina di ferro - pare condurre verso i territori folli di È difficile essere un dio, film del 2013 diretto da Aleksej German con cui può condividere un discorso sull'hybris.
Più di teoremi dimostrati narrativamente, più di tòpoi consunti che possono fungere da validi punti di appoggio, è questa concezione estetica a entrare prepotentemente sottopelle come il nuovo paradigma ideologico, senza esagerazioni strumentali, senza facili trucchetti retorici.
Il capitalismo è qui presentato in tutta la sua (volontà di) potenza.
Quell'anno ai Premi Oscar vinse Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure di Akira Kurosawa.
Colpa di spugna è tratto dall’omonimo romanzo capolavoro di Jim Thompson, ma il film diretto da Bertrand Tavernier è ambientato in una colonia africana francese a differenza dell’arido Texas del libro, scelta che non stravolge l’essenza cupa e senza speranza della base di partenza originaria.
L’operazione di cambiamento è di stampo produttivo, ma rispetto a quanto accaduto con un altro adattamento di un romanzo di Jim Thompson, ovvero Getaway! di Sam Peckinpah, rendere commercialmente più fruibile un prodotto audiovisivo per il proprio pubblico di riferimento - sebbene dall’altra parte ci fosse l’esigenza di accontentare le richieste di una star del calibro di Steve McQueen - ha dato modo a Tavernier di esplorare una delle pagine più cupe del proprio Paese.
La colonia francese nella quale è ambientato Colpo di spugna diventa un teatro degli orrori e dell’assurdo dove brulicano indisturbati e disturbanti abitanti razzisti che con sprezzo abbaiano e comandano ordini alla popolazione originaria.
In questo contesto si muove lo sceriffo del paese (Philippe Noiret), uno a cui della situazione socio-culturale dei suoi cittadini non importa nulla; lo sceriffo che dovrebbe garantire l’ordine viene preso come lo scemo del villaggio da parte della popolazione bianca ma, ritornando all’essenza folle della scrittura di Jim Thompson, le cose cambiano da un giorno all’altro.
Bertrand Tavernier ritrae e mette in scena la corruzione dell’animo umano, trovando nella fisicità del suo protagonista il prototipo perfetto per la banalità del male.
Goffo e innocente, il personaggio Noiret non è razzista - una delle prime scene ce lo dice chiaramente - ma è complice impassibile del sistema marcio alla base della società in cui vive.
Che fare, quindi?
Come in un modello Travis Bickle lo sceriffo si veste da giustiziere della notte per dare un “colpo di spugna” a tutta la feccia che da sempre lo ha deriso, ma la violenza porta sempre con sé altra violenza.
Non c’è quindi nessuna celebrazione di un eroe come in Taxi Driver, ma solo un finale ambiguo, amaro, che mostra la morte di un’anima e la messa alla berlina di un intero Paese:
“Io faccio solo in modo che le persone si rivelino per quello che sono veramente”.
Candidato ai Premi Oscar 1983, quando vinse lo spagnolo Volver a empezar, di José Luis Garci.
Il Miglior Film Internazionale ai Premi Oscar 1994 fu Belle Époque di Fernando Trueba, ma dei 5 film candidati quell'anno il più ricordato dalla critica e dal pubblico - anche se forse non quanto meriterebbe - è Addio mia concubina di Chen Kaige, tratto dall'omonimo romanzo di Lilian Lee, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura.
Anche senza Oscar il film vinse comunque molti premi: trionfò come film straniero ai BAFTA e ai Golden Globe e, soprattutto, vinse la Palma d'oro al Festival del Cinema di Cannesex aequo con Lezioni di piano di Jane Campion.
Addio mia concubina narra la storia di Douzi, il figlio di una prostituta, la cui vita è destinata a povertà e privazioni; la madre decide di affidarlo alla guida del Maestro Guan alla scuola di recitazione dell'Opera di Pechino, ma la vita scolastica è tutt'altro che agiata: i metodi di insegnamento sono crudeli così come i rapporti con i compagni, ma il tutto porterà all'attore un grande successo.
Sotto il rigido sguardo degli insegnanti nasce il legame di amicizia - e un amore dai contorni indefiniti - con Shitou, che diventerà il suo compagno nella perpetua rappresentazione dell'opera teatrale Addio mia concubina, dove i due interpretano rispettivamente la concubina e il re.
L'idillio tra i due è destinato a essere spezzato dall'arrivo della bellissima prostituta Juxian, di cui Shitou si innamora.
Il teatro è l'unico spazio in cui l'efebico e sensibile Douzi riesce a esprimere a pieno se stesso; si può evidenziare ben più di un parallelismo tra il personaggio e il suo interprete, Leslie Cheung, primo cantante e attore cinese a dichiararsi bisessuale e a interpretare ruoli omosessuali. L'opera e Douzi, il Cinema e Leslie si fondono in un tutt'uno: l'arte ha il potere unico di infrangere le barriere della realtà.
I tre attori protagonisti sono delle star del Cinema cinese: il già citato Leslie Cheung, che all'epoca poteva già vantare collaborazioni conJohn Woo e Wong Kar-wai, Zhang Fengy, celebre soprattutto in patria e Gong Li, una delle attrici simbolo del Cinema internazionale - non solo orientale - degli ultimi 30 anni, resa famosa in quegli anni dal regista Zhang Yimou.
Il trio dei personaggi ripercorre anni molto tesi della Storia cinese: si passa dalla proclamazione della Repubblica all'invasione giapponese e all'ascesa del comunismo: la prospettiva moderna sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere e l'occhio imparziale sulla Storia ha spinto il governo cinese a ritirarlo dalla circolazione e a imporre successivamente delle pesanti censure.
Addio mia concubina è una storia di bellezza e tristezza, intima e struggente nonostante la fotografia e i costumi sontuosi.
Quando Ari Folman decise di raccontare il suo personale vissuto - comune per certi versi a quello di svariati soldati - sui conflitti libanesi dei primi anni ’80, aveva già ben chiaro che l’animazione sarebbe stato il mezzo più efficiente per lo scopo.
Attraverso la combinazione di tecniche animate (animazione tradizionale, rotoscopio, in Flash e 3D), il regista si inoltra nel campo poco esplorato della psiche umana durante la guerra e, di conseguenza, dei danni psicologici che essa riporta.
Il film si apre con ventisei cani famelici e rabbiosi che inseguono un uomo, immagini che rappresentano il racconto di un sogno ricorrente dell’ex soldato Boaz Rein-Buskila all’amico Ari Folman.
I due discutono tra loro sul possibile significato del sogno e Boaz afferma che per lui quanto raccontato è percepito come reale, come un accadimento del suo passato durante la guerra in Libano negli anni ’80, alla quale anche Ari aveva partecipato.
Successivamente, Ari stesso fa un sogno ricorrente: si trova nelle acque di Beruit con altri soldati, nudi nell’acqua mentre assistono a delle esplosioni in città. Ciò riporta la sua mente al massacro di Sabra e Shatila, compiuto da falangi libanesi, esercito del Libano del Sud e l’esercito israeliano nei confronti sciiti libanesi e palestinesi.
Allo stesso tempo si rende conto di aver rimosso ogni possibile memoria di quanto sia realmente successo - sogno compreso - e decide di indagare sul motivo dell’amnesia.
Valzer con Bashir incalza con una serie di immagini che restano sospese, ponendosi sempre al limite tra realtà e sogno nonostante il suo assetto documentaristico.
Come spiega nel film stesso lo psicologo Ori Sivan, non è detto che i ricordi mostrati siano veritieri, anzi: la mente può creare delle memorie falsate per compensare a mancanze di ogni tipo, fino a farle percepire come episodi realmente avvenuti.
Proprio per questo motivo Ari Folman si rende conto di quanto la guerra sia alienante: da ex soldato il ricordo degli avvenimenti risulta dispersivo, intangibile e lontano, rendendo la strage del 16-18 nel 1982 un sogno sopito, nonostante sia una verità crudele e disarmante, dolorosamente documentata, accaduta sotto i suoi occhi e quelli degli altri intervistati.
Accompagnato da una colonna sonora memorabile, il viaggio di Ari Folman nella sua coscienza diventa un punto fondamentale non solo dal punto di vista artistico - dimostrando il forte impatto che può dare l’animazione anche in storie brutali e crude - ma anche dal punto di vista umano, invitando lo spettatore a rivalutare la glorificazione dell’uomo e l’idea di “vittoria” nei conflitti armati.
Candidato al Premi Oscar del 2009, quando vinse la statuetta Departures di Yōjirō Takita.
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Alcuni film sono destinati ad assumere i contorni dell'esperienza sensoriale sin dalla propria genesi.
El abrazo de la serpiente, candidato all'Oscar nel 2016 dopo aver vinto il premio Art Cinéma della Quinzaine des Réalisateurs al Festival del Cinema di Cannes, appartiene proprio a questa categoria.
Per realizzarlo Ciro Guerra ha passato due anni e mezzo nella regione colombiana dell'Amazzonia, arrivando a perlustrare una zona incontaminata in cui girare l'opera, facendosi aiutare direttamente dalla popolazione indigena per levigare il copione, da lui scritto a quattro mani con Jacques Toulemonde Vidal. L'opera è piantata radicalmente all'interno del misticismo delle tribù amazzoniche e racconta due episodi ambientati nel 1909 e nel 1940, entrambi vissuti da Karamakate, sciamano dell'Amazzonia e ultimo sopravvissuto della sua tribù; i suoi compagni di viaggio sono Theo e Evan, il primo un etnologo tedesco e il secondo un botanico statunitense.
I due episodi si intersecano con le figure degenerate legate al culto cattolico, che vessano la comunità locale.
Anche alla luce della particolare struttura del film, Ciro Guerra è stato in difficoltà nel trovare l'attore protagonista per la sua opera, scoprendo Antonio Bolívar solo grazie a una sua comparsata di due minuti in un cortometraggio realizzato durante un workshop del Ministero della Cultura colombiano.
Guardando il film non è difficile comprendere perché la scelta fosse così complessa: si tratta di un'immersione assoluta nei luoghi, nella cultura e nelle fragilità dei popoli che abitano le zone più recondite dell'Amazzonia; la messa in scena è dominata da un bianco e nero volutamente denso per ricordare le dagherrotipie, integralmente strutturata per inglobare lo spettatore in un'esperienza totalizzante.
Le inquadrature a pelo d'acqua e la colonna sonora di Nascuy Linares nelle scene in canoa sul fiume Inírida, che si snoda tra le colline Cerros de Mavicuri, donano al film un ritmo ipnotico e non avrebbe potuto essere altrimenti. Si tratta di una trasfigurazione lisergica di quella parte del mondo, come affermato anche dall'autore che non aveva l'intento di trasmettere al pubblico le reali tradizioni del luogo.
"Ciò che vedete nell'opera è una riproduzione immaginaria dell'Amazzonia.
La vera Amazzonia è troppo grande per entrare in un film."
Una volta realizzato El abrazo de la serpiente il regista l'ha mostrato alla comunità indigena presente nell'opera, ricevendo l'immediata richiesta di un bis.
Ci voleva un film speciale per portare la Colombia per la prima volta nella cinquina finalista degli Oscar e il premio, a ben vedere, sarebbe stato meritato, anche se quell'anno a vincere fu un film di enorme spessore come Il figlio di Saul, di László Nemes.
Terry Miller
1 anno fa
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LaTati23
1 anno fa
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