Si tratta di uno dei grandi principi non scritti del Cinema: chiedete per esempio a Orson Welles che, dopo il suo spettacolare primo film Quarto potere, si è a lungo sentito rinfacciare dalla critica la propria "incapacità" di mantenere uno standard così elevato.
Ogni grande esordio comporta grandi aspettative.
Questo è un principio che vale in linea generale.
[La Fée aux choux, seppur andato perduto, è uno dei più importanti debutti della Storia del Cinema: qui potete godervi il suo remake]
Immaginate quanto il concetto possa ritenersi estremizzato per tutte le donne che nel corso degli anni si sono affacciate alla professione di regista, visto che il mondo della Settima Arte è stato lungamente - e forse è ancora - un ambiente maschilista.
La possibilità di poter ammirare le opere scritte e dirette da persone di sesso femminile, attraverso il loro sguardo e la loro sensibilità, ha incontrato a lungo delle difficoltà ambientali estreme.
Eppure, agli albori del Cinema, non era così: nel corso del primo trentennio di Storia del Cinema le donne hanno da subito ricoperto un ruolo preminente in fase produttiva, di scrittura e anche di regia.
Alice Guy-Blaché ad esempio fu una figura chiave nella Storia del Cinema: pare abbia assistito, in qualità di segretaria di Léon Gaumont, alla prima proiezione della Storia organizzata dai fratelli Lumière.
Gaumont era un ingegnere e un inventore che contribuì alla commercializzazione delle prime cineprese, fondando anche l'omonima e tuttora esistente casa di produzione.
Comprendendo da subito le potenzialità narrative della neonata Arte, Alice Guy-Blaché insistette con il suo datore di lavoro per ottenere la possibilità di dirigere e ottenere ruoli produttivi all'interno della sua impresa, contribuendo a cambiare il corso della Storia del Cinema.
Viene infatti storicamente identificata come la prima donna ad aver mai diretto un film, il perduto La Fée aux choux, anche considerato il primo film narrativo: a proposito di debutti sensazionali.
Un film di cui peraltro ha rigirato ben due versioni nel 1900 e nel 1902, ben prima che noi potessimo lamentarci dei troppi remake dei nostri giorni!
[È piccerella, forse il film più famoso di Elvira Notari, è arrivato a circa 20 e 15 anni dai suoi debutti rispettivamente come produttrice e regista]
Dopo di lei numerose sono state le pioniere della Settima Arte, diffusesi capillarmente a ogni angolo del globo: in Italia, per esempio, abbiamo avuto la leggendaria Elvira Notari, autrice di oltre 60 film in poco più di vent'anni e pionera delle produzioni nostrane.
Nel 1902 fondò, insieme a suo marito Nicola Notari, la Film Dora, divenuta poi Dora Filme nel 1906 compì uno dei debutti più importanti per il nostro Cinema, il primo di una donna: Gli arrivederci.
Effettuando una rapida panoramica, come non citare ad esempio Mabel Normand, attrice prima e poi regista di alcuni dei primissimi film di Charlie Chaplin nei panni di Charlot.
Spostandoci a Hollywood è impossibile non fare riferimento a Cleo Madison, Julia Crawford Ivers - tra le primissime registe e sceneggiatrici assunte a Hollywood negli anni '10 - o Dorothy Arzner, prima donna mai iscrittasi alla Director's Guild of America e docente, tra gli altri, di Francis Ford Coppola.
Insomma: agli albori del Cinema assistere a dei debutti al femminile non era insolito come si possa pensare.
[Meshes of the Afternoon di Maya Deren: uno dei debutti più sensazionali che potrete mai vedere]
Negli anni a venire le donne hanno continuato a essere protagoniste della Settima Arte.
Aproposito di debutti leggendari è impossibile non citare il monumentale apporto fornito da Leni Riefenstahlalla Settima Arte negli anni '30.
Un contributo tale da essere citato da Steven Spielberg nel suo ultimo lavoro, The Fabelmans.
O ancora, pensate a che folgorazione possa essere stato, negli anni '40, assistere a un capolavoro come Meshes of the Afternoon, primo film di Maya Deren, in collaborazione con suo marito Alexander Hammid.
L'impatto delle grandi pioniere della Settima Arte è pregnante anche nel Cinema di genere.
L'intero filone cinematografico sull'olocausto viene ricondotto a un'unica madre: L'ultima tappa di Wanda Jakubowska, del 1948.
O ancora, se amate i film dalle fosche atmosfere del Nord Europa sapevate che a dirigere il primo noir norvegese fu una donna, Edith Carlmar?
Anche il suo Death is a Caress (1949) deve essere annoverato con gran merito tra i debutti più rilevanti della Storia del Cinema europeo.
[Un breve ma necessario approfondimento su Edith Carlmar, attrice e prima regista norvegese alla cui carriera cui vanno attribuiti due grandi debutti: il suo come cineasta e quello di una giovanissima Liv Ullman come attrice]
A ben vedere, però, è sempre stato piuttosto raro vedere riconosciuto il valore delle registe che hanno fatto la Storia del Cinema.
Il primo festival di grande spessore vinto da una donna è stato il Festival di Berlino, solo nel 1975: a raggiungere questo storico traguardo fu Márta Mészáros con il meraviglioso Adozione, a cui fece seguito solo due anni dopo Larisa Šepit'ko con L'ascesa.
D'altronde le due erano tra i principali talenti sfornati dall'est Europa negli anni '60, decennio che segnò i debutti di grandi pioniere di un Cinema di rottura, tra le quali è impossibile non citare Věra Chytilová. Il fatto che il primo festival a premiare una donna fosse Berlino non è stato casuale.
La Germania Ovest, infatti, è stata madre di uno dei primissimi movimenti "femministi" cinematografici: dal '68 all'inizio degli anni '80 ha visto sbocciare i debutti di talenti come Ula Stöckl, Helke Sander, Helga Reidemeister, Claudia von Alemann e Margarethe von Trotta.
Dopo questi due traguardi berlinesi, la prima nomination per una donna al Premio Oscar per la Migliore Regia è arrivata nel 1977.
Venezia e Cannes hanno riservato i propri premi principali a delle autrici soltanto nel 1981 e nel 1993.
Nessuno di questi riconoscimenti è arrivato per una regista debuttante: si trattava in tutti i casi di donne con almeno un decennio di esperienza alle spalle.
[Uno dei debutti in co-regia più riusciti di sempre: la futura vincitrice del Premio Oscar Kathryn Bigelow ha esordito con The Loveless]
Non deve dunque stupire l'assunto alla base di questo articolo: i debutti sono sempre stati incredibilmente difficoltosi, ma lo sono stati di più se a esordire è una regista.
Chiedetelo alla prima vincitrice di un Leone d'oro, Margarethe von Trotta, che nel 1975 divise il suo esordio con un grande maestro come Volker Schlöndorff.
Chiedetelo anche alla prima donna capace di vincere un Premio Oscar per la Miglior Regia, Kathryn Bigelow, che circa trent'anni prima del suo trionfo per The Hurt Locker debuttò nel 1981 co-dirigendo e co-sceneggiando The Loveless con Monty Montomery.
Un po' lo stesso destino che era capitato una dozzina di prima a Marguerite Duras - che pure aveva un nome già piuttosto riconoscibile - e che si riproporrà circa 30 anni dopo a Julia Ducournau, che invece si rivelerà la seconda donna capace di vincere al Festival di Cannes.
Potrà confermarvi le difficoltà dei suoi debutti sul piccolo e grande schermo anche Jane Campion, prima vincitrice della Palma d'oro, che prima di diventare un baluardo del Cinema mondiale ha compiuto il proprio esordio con un film TV, Le due amiche, malgrado nella manifestazione francese avesse già vinto il Premio per il Miglior Cortometraggio con Peel.
Non che a lavorare per la televisione ci fosse nulla di male, come potranno confermarvi la nostra Liliana Cavani, Ann Hui eAgnieszka Holland, che pure sono riuscite negli anni a costruirsi un grande nome: ottenere un riconoscimento per il proprio lavoro, però, è importante.
[Una magnifica intervista a Liliana Cavani, che parte proprio dai suoi "scandalosi" debutti televisivi e nel mondo documentaristico, seguendo la strada che prima di lei era stata lastricata negli anni '50 dalla pioniera Cecilia Mangini]
Fortunatamente il cambiamento è arrivato: negli anni '90 Hollywood ha dapprima premiato per la prima volta un film straniero diretto da una donna, L'albero di Antonia di Marleen Gorris e poi conosciuto il talento di Sofia Coppola, che con Il giardino delle vergini suicide ha compiuto uno dei debutti statunitensi più importanti del decennio, consacrandosi come Premio Oscar e vincitrice del Leone d'oro con i suoi successivi film.
Praticamente in contemporanea il mondo conosceva la bravura di Samira Makhmalbaf, che esordì a 18 anni con La mela e nel 2000, a soli vent'anni, vinse il Premio della Giuria a Cannes con Lavagne.
Si può dire che a cavallo del nuovo millennio i debutti della famiglia Makhmalbaf smossero parecchio la critica mondiale: nel 2003, anno in cui Samira venne insignita di nuovo dello stesso premio per Alle cinque della sera, sua sorella HanaMakhmalbaf, esordì con Joy of Madness, diretto a soli 14 anni e vincitore di numerosi premi in tutto il mondo.
Oltre alle talentuose iraniane, il primo decennio del nuovo millennio ha visto sbocciare alcune delle più grandiose cineaste dei nostri tempi, come Céline Sciamma, Mia Hansen-Løve e Nadine Labaki.
La Mostra di Venezia tornò inoltre ad assegnare il Leone d'oro a una donna, premiando Mira Nair per Moonsoon Wedding.
[Tra i più premiati debutti femminili di recente memoria c'è Atlantique di Mati Diop, vincitore del Grand Prix a Cannes e disponibile su Netflix]
Il palcoscenico che più facilmente ha riconosciuto la bontà di diversi debutti al femminile è stato, coerentemente con la propria Storia, il Festival di Berlino: la kermesse berlinese è stata infatti teatro dell'esordio di Lucrecia Martel con un film di assoluto culto come La ciénaga, vincitore del Premio Alfred Bauer, e di quello di Jasmila Žbanić, che - ben prima di dirigere l'episodio 6 di The Last of Us - si portò subito a casa l'Orso d'oro per Il segreto di Esma.
Tra questi due traguardi sono da segnalare anche la dolente opera seconda di Claudia Llosa, Il canto di Paloma, e il geniale Corpo e Anima diIldikó Enyedi, premiati con lo stesso riconoscimento.
Meno nota nei festival di prima fascia, ma dal talento comparabile a quello delle autrici appena citate è Dominga Sotomayor Castillo, vincitrice del Tiger Award al Festival di Rotterdam nel 2012 con l'intimo Thursday Till Sunday e del Pardo d'argento alla miglior regia nel 2018 per il poetico e politico Too Late to Die Young.
Anche Hollywood nel decennio successivo ci ha mostrato alcuni debutti in grado di fare scalpore: Greta Gerwig con Lady Bird e Olivia Wilde con La rivincita delle sfigate (Booksmart) sono passate dietro la macchina da presa e hanno immediatamente ottenuto una posizione di primo piano all'interno del panorama mainstream.
Un posto al quale probabilmente potrà ambire anche la britannica Charlotte Wells che, complice la sensazionale ricezione critica di Aftersun, è già da segnalarsi come una delle voci emergenti più interessanti del decennio appena iniziato.
Ancor più ragguardevole è quanto fatto da Chloé Zhao che, oltre a sbancare agli Oscar 2021 con Nomadland, ha inaugurato una serie di ben tre Leoni d'oro vinti da donne, proseguita con La scelta di Anne - L'Événement di Audrey Diwan e Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras.
[In questa rassegna non possiamo che citare Blue Moon di Alina Grigore - da annoverare tra i debutti eccellenti del decennio essendo stata premiata con della Concha de Oro - e Regra 34di Júlia Murat, vincitore del Pardo d'oro nel 2022]
Questa serie di trionfi storicamente fondamentali rende ancora più evidente quanto sia difficile per una donna emergere nel mondo del Cinema.
In Italia non è mai stato assegnato un David di Donatello per la Migliore Regia a una donna e solo una volta un film con una direzione femminile ha vinto il premio per il Miglior Film: era il 1993, anno de Il grande cocomero di Francesca Archibugi, che per inciso quattro anni prima stata anche la prima a vincere un David come Miglior Regista Esordiente.
Tutto ciò malgrado debutti eccellenti e numerosi riconoscimenti ottenuti, tra le altre, daAlice Rohrwacher, Emma Dante, Federica Di Giacomo e Susanna Nicchiarelli. Peraltro, le ultime due autrici citate sono le prime (e finora uniche) donne capaci di vincere la sezione Orizzonti della Mostra di Venezia. Insomma: di strada da fare ce n'è ancora tanta.
Proprio per rimarcare l'importanza di un Cinema paritario e scevro da ogni discriminazione di genere, ripercorriamo insieme 8 sensazionali debutti di 8 grandi registe - alcune delle quali potranno essere definite senza alcun timore di smentita delle pioniere - che hanno contribuito, dagli anni '50 a oggi, a cambiare lo status quo del Cinema e a pavimentare il sentiero della Settima Arte negli anni a venire.
Ben prima che nascesse la Nouvelle Vague e circa 30 anni prima di diventare la seconda donna vincitrice del Leone d'oro, Agnès Varda era già lì, pronta a lasciare il segno sulla Storia del Cinema.
A metà degli anni '50, a soli 26 anni e senza alcuna esperienza registica, l'allora fotografa del Theatre National Populaire con un budget misero e senza alcun sostegno produttivo girò La pointe courte.
L'opera parla di una giovane coppia innominata, i cui interpreti sono Philippe Noiret e Silvia Monfort, che fa ritorno a Sète, paesino portuale in cui il protagonista è nato, per organizzare il proprio matrimonio.
Tema centrale della pellicola sono dunque i dubbi e i piccoli inconvenienti che si pareranno sul loro percorso.
Apparentemente La pointe courte è un piccolo film dalla durata di 77 minuti, ma in realtà - come affermato anche da André Bazin nel suo articolo Un film libre et pur su Le Parisien libéré il 7 gennaio 1956 - è un autentico, doppio, miracolo cinematografico: economico e artistico.
Si tratta di un'opera realizzata a causa del bisogno di una giovane artista di raccontare una storia, senza alcun intento commerciale: visto il budget praticamente inesistente, nessuno dei membri della crew venne pagato per la sua realizzazione.
Allo stesso tempo la povertà di mezzi permise la totale libertà espressiva di Agnès Varda, che affrancandosi dal peso delle esigenze produttive dimostrò uno sguardo peculiare ed estetizzante, pur nell'assoluta semplicità delle situazioni di vita rappresentate.
L'autentica genesi di un'autrice che ai tempi, come rimarcato da Bazin, costituiva un fenomeno quasi unico al cinema.
Come vedremo, da quel momento in poi tante cose sono cambiate per il meglio, anche grazie a questo delizioso debutto.
Disponibile su MUBI
Posizione 7
Lina Wertmüller
I basilischi, 1963
Lina Wertmüller non ha bussato alla porta della Settima Arte: ha deciso di sfondarla con uno dei più grandi debutti della Storia del Cinema italiano.
D'altronde, se hai la possibilità di essere su set leggendari come quelli de La dolce vita e di 8½ di Federico Fellinie riesci a girare il tuo primo film con alcune delle sue maestranze dopo oltre un decennio di esperienze di ogni genere nel mondo del Cinema, non puoi che essere in possesso di quel sacro fuoco che ti porterà a essere la prima donna di sempre candidata al Premio Oscar per la Migliore Regia.
I basilischi è la storia di tre giovani ragazzi di Minervino Murge, un piccolo paese dell'entroterra pugliese ai confini con la Basilicata, che vivono una vita del tutto conforme alle imposizioni sociali del proprio luogo d'origine, rifuggendo sistematicamente ogni possibilità di cambiare le proprie vite.
A ispirare Lina Wertmüller ci fu uno spunto molto personale: quando ebbe la possibilità di visitare Palazzo San Gervasio, luogo di nascita di suo padre, lo definì come "la scoperta di un mondo, di quella parte d’Italia tagliata fuori dalle rotte delle tante guerre e dalla Storia".
Non a caso il film si chiude con una citazione del meridionalista Giustino Fortunato:
"Siamo quelli che la razza, il clima, il luogo, la storia, hanno voluto che fossimo"
L'opera mostrò da subito la pungente ironia della propria autrice, oltre che una messa in scena mozzafiato che sfruttava le viuzze del paesino e il paesaggio murgiano per incastonare i suoi personaggi, troppo incollati a quel posto: subito arrivò la Vela d'argento al Festival di Locarno, il primo premio di una lunghissima serie.
Infine, malgrado il basso budget, bastano tre piccole notazioni a rendere questo film leggendario.
Colonna sonora di Ennio Morricone, fotografia di Gianni Di Venanzo, montaggio di Ruggiero Mastroianni: tre mostri sacri della nostra cinematografia per celebrare un esordio.
Autentica Storia del Cinema.
Disponibile sul canale CG Collection di Prime Video
Posizione 6
Chantal Akerman
Je, tu, il, elle, 1974
Ha recentemente fatto scalpore l'inserimento di Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles al primo posto come Miglior Film della Storia del Cinema secondo il team di Sight and Sound del British Film Institute.
Si tratta chiaramente di un assunto su cui è possibile discutere, sviscerando i fattori che hanno portato tanto a un tale risultato quanto a una svalutazione generale dello stesso, ma non è questa la sede adatta.
Ciò che non può essere assolutamente discusso è, però, l'impatto di Chantal Akerman sulla Settima Arte.
Dopo aver girato ben sei opere in cinque anni - tra cortometraggi e mediometraggi, diversi dei quali dall'impostazione documentaristica - la meravigliosa autrice belga debutta nel 1974 con il suo primo lungometraggio, Je, tu, il, elle di cui è regista, sceneggiatrice e protagonista.
Il suo personaggio, una donna senza nome né una direzione ben chiara, si muove attraverso situazioni di isolamento auto-imposto e incontri fugaci con un ragazzo e una ragazza che contribuiscono al meglio a delineare la condizione della protagonista.
In questo film, dal budget bassissimo e dalla struttura a dir poco ostica per il grande pubblico, il titolo rivela l'intento dell'intera opera.
Il Je è riferito proprio alla protagonista, alter-ego della giovane Akerman, il tu alla sceneggiatura - quindi alla rappresentazione fittizia del suo personaggio e degli eventi - mentre il ed elle sono i due personaggi interpretati da Niels Arestrup e da Claire Wauthion.
Se si pensa alla sua successiva opera, ovvero la tanto discussa Jeanne Dielman, è possibile immediatamente percepire sia un'evoluzione stilistica netta sia una granitica coerenza di fondo nella rappresentazione del suo personaggio femminile attraverso una poetica autoriale.
Spesso identificata come un baluardo del Cinema femminista, come se fosse possibile ricondurre simili esigenze universali a una misera sotto-categoria, Chantal Akerman è stata molto di più: un autentico monumento del Cinema, in tutte le sue sfaccettature.
Posizione 5
Claire Denis
Chocolat, 1988
Claire Denis ha vissuto una vita così piena di esperienze da risultare del tutto unica: nata a Parigi ma cresciuta per 13 anni in Africa, è tornata nella capitale francese per diplomarsi all'Institut des Hautes Études Cinématographiques.
Dopo gli studi è divenuta presenza assidua su set di Maestri come Jacques Rivette, Costa-Gavras, Jim Jarmusch e Wim Wenders, lavorando anche come direttrice del casting per Sacrificio, l'ultimo capolavoro di Andrej Tarkovskij.
Il suo debutto, arrivato nel 1988, non poteva che essere intriso dunque di tutte quelle esperienze di vita e di quel grande amore per il Cinema.
Chocolat infatti è una storia semi-autobiografica: racconta i ricordi di una giovane donna tornata in Camerun, laddove è cresciuta, a causa del lavoro di suo padre, funzionario di governo francese in quella che ai tempi del racconto era una colonia.
Il film riflette sul rapporto delle donne di casa con Protée, servo di casa interpretato da Isaach de Bankolé: di fatto una metafora della condizione servile dell'Africa rispetto ai colonizzatori europei.
Non a caso il tema centrale del film è il concetto di orizzonte, che rappresenta l'immaginaria linea di confine tra popoli, classi sociali e generi.
Il titolo, inoltre, nasconde un duplice significato: oltre ad alludere chiaramente alla pelle del protagonista, si riferisce a un termine gergale per indicare la condizione di raggiro di cui l'intero film parla.
Insomma, un film dal significato profondo e dal contenuto stratificato, perfettamente confezionato da una Claire Denis che ha subito dimostrato di possedere una mano delicata, in grado di ricondurre a una esposizione semplice anche i più complessi dei concetti: una dote che ha portato questa meravigliosa regista a essere una delle autrici più importanti e premiate dei nostri giorni.
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Posizione 4
Naomi Kawase
Moe No Suzaku, 1997
Il Cinema di Naomi Kawase è fondato su una prospettiva prettamente femminile su famiglia, lutto e ruralità.
Pilastri perfettamente condensati in un esordio a dir poco folgorante come Moe No Suzaku.
Pur essendo forse il nome meno noto al grande pubblico all'interno di questa rassegna, la regista giapponese è forse l'autrice tra quelle citate che ha mutato meno la sua cifra stilistica, lasciando che la sua filmografia evolvesse attorno ai propri concetti cardine.
La pellicola, concosciuta semplicemente anche solo come Suzaku, narra infatti la storia di una famiglia che vive nella regione montuosa di Nishiyoshino, nella prefettura di Nara: la parabola discendente della loro felicità, influenzata dalle condizioni lavorative all'interno della regione e dalla loro particolare collocazione ambientale, è il fulcro del racconto.
All'interno delle stessa si intersecano amori, perdite, e tematiche delicate quali l'incesto e l'abbandono dei luoghi natali.
Un racconto che la stessa regista ha sentito così intimo da adattarlo in un omonimo romanzo, edito successivamente all'uscita del film.
Servendosi di uno stile piuttosto secco e poco propenso al virtuosismo, la regista giapponese ha sin dal suo debutto puntato sull'autenticità delle situazioni portate in scena, attraverso anche la cura di piccoli particolari e dinamiche intimiste.
Capace di declamare la poesia del paesaggio naturale e di liricizzare la durezza del racconto, la voce di Naomi Kawase è divenuta immediatamente riconoscibile, tanto da fruttarle la Caméra d'or, il premio alla Migliore Opera Prima al Festival di Cannes, e il Premio FIPRESCI al Festival di Rotterdam, oltre a numerosi premi e nomination in tutto il mondo.
La stessa kermesse francese, meno di un decennio dopo, le conferirà il Grand Prix Speciale della Giuria per lo straziante Mogari no Mori, che di Suzaku conserva tutti gli elementi fondanti.
Posizione 3
Andrea Arnold
Red Road, 2006
Nel momento in cui ha girato il suo primo lungometraggio, Andrea Arnold poteva godere di una notorietà dinanzi a un grande pubblico del tutto unica all'interno di questa rassegna.
Il suo terzo cortometraggio, il semi-autobiografico Wasp, racconta la condizione di una donna single con quattro figli a carico alla ricerca di una relazione e fu premiato nel 2005 con il Premio Oscar.
Non poteva esserci nessuna premessa migliore, dunque, per Red Road che nel 2006 venne subito accolto dal Festival di Cannes nel concorso principale, venendo addirittura insignito del Premio della Giuria, riconoscimento che la regista britannica vincerà altre due volte - eguagliando il record di Ken Loach - nel 2009 e nel 2016 con Fish Tank e American Honey.
Niente male per un'artista arrivata a dirigere il suo primo film a 45 anni: le sue esperienze precedenti, risalenti agli anni '80, includono il lavoro come ballerina e attrice per alcuni programmi TV inglesi, grazie ai quali ha maturato la consapevolezza di preferire una collocazione dietro la macchina da presa, piuttosto che davanti.
Red Road è di conseguenza un debutto incredibilmente maturo, che racconta la storia di Jackie, donna single di mezza età, che lavora come sorvegliante a Red Road Flats, quartiere alla periferia di Glasgow nel quale arriva Clyde, un ex detenuto con il quale la protagonista svilupperà un malsano rapporto.
Collocandosi perfettamente nel filone delle opere che raccontano la tensione dello sguardo, Red Road ci ha subito mostrato la durezza dei mondi rappresentati da Andrea Arnold, che ha lasciato confluire nella sua poetica l'esperienza personale nelle periferie.
"Sono cresciuta in una famiglia della working class, immagino si possa dire che io scriva per esperienza diretta"
La stessa durezza, qualche anno dopo, è stata perfetta per permetterle un glorioso ritorno in TV, alla direzione di quella seconda stagione di Big Little Lies che tanto bene mostra le ipocrisie di una società e dei suoi costrutti attraverso una prospettiva del tutto femminile.
Posizione 2
Carla Simón
Estate 1993, 2017
Divenuta nota al grande pubblico grazie ad Alcarràs - L'ultimo raccolto, primo film in lingua catalana a vincere l'Orso d'oro, Carla Simón è uno dei nomi emergenti del Cinema europeo contemporaneo.
Ben prima del suo recente e più importante trionfo, la stessa kermesse berlinese gli aveva già tributato il prestigioso premio come Migliore Opera Prima nella sezione Generation per il suo dolcissimo debutto, Estate 1993, che già mostrava con chiarezza i punti fermi di uno stile del tutto peculiare.
Dopo una lunga esperienza come regista di cortometraggi iniziata nel 2009, il primo lungometraggio di questa talentuosa autrice catalana narra una storia dalla forte ispirazione autobiografica, come avvenuto con tante registe di questa rassegna.
Frida, la bambina protagonista del film, è in tutto e per tutto un'alter ego dell'autrice.
Il film racconta l'estate in cui ad appena 6 anni la regista si ritrovò a cambiare famiglia: i genitori morirono di AIDS e fu adottata dagli zii, con tutto il carico di frustrazioni e di novità che questo comportava.
Carla Simón riesce però a conservare uno sguardo immacolato che non scade mai nel pietismo su una storia così intima,malgrado il peso dei temi affrontati: l'elaborazione del lutto da parte dei bambini, l'adattamento ai nuovi contesti familiari e la discriminazione verso la malattia.
Il film infatti riesce ad assumere la prospettiva della giovanissima protagonista, ammorbidendo e smorzando le cattiverie del mondo circostante attraverso la purezza dei legami affettivi che circondano Frida, che malgrado tutto si ritrova a vivere un'estate indimenticabile.
A giudicare dai suoi primi lavori, l'estate è per Carla Simón un autentico stato d'animo.
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Posizione 1
Dea Kulumbegashvili
Beginning, 2020
Una selezione per il Festival di Cannes, la vittoria del Premio FIPRESCI al Festival di Toronto e il dominio sul Festival di San Sebastián con la vittoria di quattro premi, inclusa la Concha de Oro.
Elencati così, potrebbero essere dei riconoscimenti sufficienti a riconoscere la bontà di un'opera ma, nel caso del folgorante esordio di Dea Kulumbegashvili, stiamo solo grattando la superficie.
Già ben prima del suo primo lungometraggio la regista georgiana nata in Russia e formatasi a New York si è segnalata per la sua impostazione cosmopolita, per le sue collaborazioni come sceneggiatrice e produttrice, oltre che per i suoi cortometraggi: sia Invisible Spaces che Léthé sono stati proiettati a Cannes e al MoMA, che li ha resi disponibili anche sul suo player online.
Ecco perché l'unico limite per il suo Beginning è stata la pandemia: come ben saprete il Festival di Cannes 2020 non si è mai tenuto e la distribuzione globale dell'opera è stata limitata.
In condizioni diverse, con ogni probabilità, staremmo parlando di un film ancora più celebrato.
Il film segue la parabola di Yana, moglie di un leader dei Testimoni di Geova in una piccola comunità georgiana di stampo patriarcale, la cui vita viene stravolta dall'attacco di violenti estremisti.
La sua storia si interseca con quella di un detective, che sviluppa un'ossessione malsana nei suoi confronti
Una riflessione profondissima sulla condizione della donna e sulle tragedie dei nostri tempi, messa in scena con uno stile che potremmo definire slow burning: la potenza delle immagini mostrate e il controllo del mezzo cinematografico di Dea Kulumbegashvili sono tanto marcati da superare il concetto di maturità.
Ormai chiaramente identificabile come una delle opere simbolo della prolifica new wave georgiana, Beginning si candida a essere non solo uno dei più grandi debutti del decennio, ma in senso assoluto uno dei più grandi film degli anni '20.
Classe'96. Ex cestista a livello giovanile e minors ed ex Parlamentare Regionale dei giovani in Puglia, laureato prima in Giurisprudenza d'Impresa e poi in Scienze Economiche.
Pervenuto criticamente alla cinefilia, studioso di tattica sportiva, telecronista e opinionista, nutre una passione viscerale per i racconti che gravitano attorno ai campi da gioco e ai set cinematografici.
Innamorato della New Hollywood, degli attori di metodo e dei piani sequenza.
Ma non solo: attratto magneticamente da tutte le meravigliose diversità che il cinema può raccontare.
Redattore presso Cinefacts.it, curatore della rubrica Good & Bad