Quando si parla di Cinema dell'orrore spesso ci si dimentica dei cortometraggi.
Ma in realtà la forma breve si rivela spesso molto più efficace nei veicolare la paura. Vediamo come e perché.
Spaventare non è difficile.
Scatenare la fisiologica risposta dello spettatore attraverso mezzi ormai diventati spauracchi del facile orrore quali il tanto vituperato jumpscare è quanto di più automatico e agevole possa offrirci quel Cinema che della paura fa la sua missione.
Va da sé che, spalmati su una durata che va indicativamente dall’ora e venti all’ora e cinquanta, questi facili mezzi cadono presto e fastidiosamente nella ridondanza, non perdendo di efficacia fattuale (il corpo continua a rispondere a dovere), ma scadendo nei riguardi della fiducia più intellettuale che lo spettatore poteva aver riposto nel film.
[Munchausen di Ari Aster è un'esperienza veramente particolare... vi consiglio di farla]
In quali casi gli spaventi improvvisi rimangono funzionanti?
Quando l’intera costruzione della narrazione si basa su quell’unico spavento finale, sulla catarsi tensiva conclusiva, sull’apparizione che risolve l’inquietudine maturata nel resto del racconto.
E questo avviene nelle singole sequenze dei lungometraggi o, ancora meglio, e proprio per la compiutezza dell’azione, nei cortometraggi.
L’horror puro funziona meglio sulla breve durata.
Non parlo di narrazione, ma proprio di spavento.
Abbiamo una serie innumerevole di esempi che dimostrano quanto di buono e ottimo sia stato realizzato non solo a livello di lungo, ma anche seriale, nel campo dell’orrore cine-televisivo.
Ma il formato corto - e soprattutto quello molto corto, massimo 5 minuti - permette di concentrarsi maggiormente sul singolo trick finale, sullo scaricamento emotivo conclusivo, che certo ha dovuto basarsi su una graduale elaborazione della tensione precedente (quando ciò non avviene la fastidiosa gratuità dello spavento può portare lo scocciato spettatore a mandare a quel paese l’autore di turno per i – pochi – minuti sprecati).
L’abuso dei meccanismi spiccioli della paura però impallidisce di fronte alla costruzione misurata, psicologica, riflessiva o di atmosfere della paura, che non punta in toto a un exploit finale (pur presente, in quanto climax della storia) ma a un graduale sprofondamento nell’abisso dell’orrore di elezione.
[La terrificante idea di Lights Out di David F. Sandberg(che termina con un evitabile jumpscare, ma chiudiamo un occhio)]
Come spesso accade, essendo la forma del corto è quella più “facile”, più economicamente sostenibile, per muovere i primi passi nel mondo del Cinema, molti dei nomi che oggi conosciamo come i più rilevanti del panorama horror hanno iniziato in questo modo.
Troverete nella Top 8 nomi familiari come quelli di Ari Aster e Robert Eggers: senza anticiparvi ciò di cui leggerete a breve, entrambi hanno prodotto svariati cortometraggi anticipatori della loro poetica.
Vedendo Munchausen viene voglia di implorare Aster di realizzarne una versione lunga, e Beau fa semplicemente paurissima; Brothers presenta le atmosfere e la cattiveria bambinesca di The VVitch (lo stesso Eggers ha dichiarato che la natura del corto era proprio quella di showcase della sua visione cinematografica, presentato ai produttori del suo primo lungometraggio per dar loro un assaggio proprio dei medesimi elementi visivi e narrativi).
A volte il corto diventa l’embrione di un futuro lungometraggio: è il celebre caso del sorprendente Monster di Jennifer Kent, che diventerà qualche anno dopo Babadook, tassello fondamentale dell’elevated horror di nuova generazione.
Così come è il caso di Lights Out di David F. Sandberg, fallimentare, però.
Laddove la forma breve risultava funzionale all’idea narrativa, la distenzione operata in Lights Out - Terrore nel buio fa crollare tutto ciò che di buono c'era nel brevissimo cortometraggio originale.
O, rimanendo nel 2022, di Smile, lungometraggio d’esordio di Parker Finn, tratto dal suo Laura Hasn’t Slept, dove Laura è proprio il personaggio della scena iniziale del film con Sosie Bacon: la narrazione del corto diventa prologo del lungo, che acquista un nuovo personaggio centrale ma perde l’unità di spazio, tempo e azione che rendeva la sua fonte originaria claustrofobica e terrificante.
[Se avete visto Smile, questa inquadratura di Laura Hasn't Slept di Parker Finn vi sembrerà tremendamente familiare]
Esistono sezioni dedicate ai cortometraggi in praticamente qualsiasi premiazione, anche se quelli dell'orrore, come al solito, fanno fatica ad imporsi, qualora non si stia parlando di un festival dedicato al Cinema di genere (significativa eccezione il corto che troverete alla posizione 4, candidato nel 2019 ai BAFTA), e YouTube diventa la piattaforma dove la viralità o la qualità del contenuto permette la scoperta e la fruizione di molte perle, grazie anche a realtà consolidate come il canale di Alter, che fa da vetrina di interessanti produzioni (posizione 6 e posizione 2 di questa Top 8).
Ne esistono davvero per tutti i gusti, e i “tagliati fuori” da questa top sono innumerevoli.
Se vi era piaciuta l’idea narrativa di Coraline e la porta magica (Henry Selick, 2009), date una chance a The World Over (Heath C. Michaels, 2018), dove il concetto di “altro uguale a me stesso” torna, in un corto che si vorrebbe durasse molto di più.
Se preferite le narrazioni più visivo/concettuali, rivolgetevi a LVRS (Emily Bennett, 2018), un’esperienza sensoriale che vi restituisce la disperazione del sentirsi intrappolati in una relazione tossica.
Se vi manca Black Mirror, allora Iteration 1 (Jesse Lupini, 2016) potrebbe fare al caso vostro: la Katharine Isabelle di Licantropia Evolution e American Mary si risveglia in una stanza bianca, intrappolata in un loop di 60 secondi che sembra impedirle di fuggire: ma il loop è sui generis, e forse un modo per andarsene c’è…
La lista è veramente infinita, tra la scatola delle meraviglie di Face Your Fears (Neil Stevens, 2020) e Talk Show, inquietante corto di David Bruckner, regista de Il rituale e The Night House - La casa oscura.
Forse avremo tempo di esplorare ancor di più lo sterminato mare dei cortometraggi horror in una parte due di questa Top 8.
Quelli che incontrerete a breve sono tipologie di orrore molto diverse, che vi toccheranno più o meno a seconda delle direzioni in cui si sviluppa la vostra sensibilità.
Spero che possiate trovare qualcosa che vi terrorizzi a dovere, per ricordarvi quanto è bello avere paura.
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Ovvero: come inquietare lo spettatore in un solo minuto.
Tratto da una creepypasta, Tuck Me In - su cui, capite bene, non vi dirò nulla per non spoilerarvi nemmeno una briciola della narrazione dalla scarsissima durata - riesce a evitare in un racconto che eppure sembrava chiederlo a gran voce il grande tormento dei cortometraggi horror, soprattutto di quelli molto brevi: il jumpscare.
Intendiamoci: probabilmente capirete dal primo secondo dove il corto voglia andare a parare.
Ma pur andando a parare esattamente dove avete immaginato, ci arriva usando un mezzo e un contenuto narrativo che costituiscono la vera sorpresa che ha da offrirci.
Più che la reazione fisiologica di spavento, Tuck Me In riesce a instillare quel proverbiale brivido che risale lungo la spina dorsale quando, in un secondo, con una frase, le nostre certezze vengono ribaltate e la situazione si ricostruisce attorno a nuovi paletti.
Che, a loro volta, non sono poi così solidi come sembrano, lasciandoci un dubbio, una pulce nell'orecchio che lì rimane, perché il corto finisce senza darci una risposta.
L'ansia e il senso di colpa a volte si fanno... sentire più forte del previsto.
Comincio con l'inimicarmi buona parte dei lettori di questa Top 8: chi scrive non è per niente un'amante di Robert Eggers.
Ma se c'è una cosa che anche io non posso che lodare sono le atmosfere che il regista è in grado di creare.
Il celebre racconto di Edgar Allan Poe diventa nelle sue mani una sorta di pièce gotica che sembra ambientata in una casa di bambole (dell'orrore).
La lenta flemma e l'occasionale immobilità dei personaggi danno una cadenza quasi teatrale, con il ritmo placido e talvolta scattoso dei movimenti che li fa sembrare dei pupazzi meccanici che andrebbero oliati.
In contrasto, innumerevoli i particolari e i dettagli, invece, prettamente cinematografici.
Imprigionati con il protagonista in questo incubo di luci e ombre dominato da quello che sembra a tutti gli effetti un fantoccio senziente, percepiamo la claustrofobia, lo spasmo di uscire all'aria aperta, di liberarsi da questa non meglio definita costrizione.
Il ticchettio del pendolo andrà a ritmo con i battiti del vostro cuore... ma speriamo non siano assordanti come quelli di qualcun altro.
Una madre ossessionata dal pulito ha una paura irrazionale di un gruppetto di bambini che sembrano vivere nel bosco attorno alla sua casa; quando il figlio si avvicina troppo ai temibili pargoli la donna perderà definitivamente la testa.
Le simmetrie à la Wes Anderson non vi facciano credere che quella che state per affrontare sia una visione tranquilla e distesa.
Certo, la weirdness non manca, e ne è anzi tratto caratteristico, assieme a un tocco di nonsense allarmante, a partire dal titolo, una storpiatura della parola children, bambini.
I bambini diventano un bizzarro equivalente del mostro di turno, zombi o fantasmi di cui non capiamo mai il motivo per cui dovremmo averne paura, pur adeguandoci alle regole della strana donna con la quale siamo portati ad allineare il nostro punto di vista.
Ma in fin dei conti sembrano gli unici personaggi normali - insieme al postino - in questo universo di follia in cui proprio i protagonisti sembrano usciti dal sogno allucinato di un febbricitante.
L'immagine di lei intenta a passare l'aspirapolvere sull'erba rimarrà negli annali dell'assurdo.
Se pensate di aver avuto dei colloqui di lavoro particolarmente duri, dopo questo corto vi ricrederete.
Un gioco di associazioni, un test di Rorschach, un esercizio di velocità mentale: che tipo di azienda richiede metodi di colloquio così poco ortodossi, e per quale tipo di lavoro?
Sostenuto da due interpretazioni ineccepibili - con rimandi visivi a Giochi pericolosi, secondo episodio della terza stagione di Black Mirror (serie TV che ha visto protagonista anche l'intervistatore Rory Kinnear, nel suo primo indimenticabile episodio) - The Interview stordisce lo spettatore con dialoghi, cascate di domande e botta e risposta serratissimi, dal tono sadico e senza nessi logici di sorta, che ci portano a seguire con attenzione gli sviluppi narrativi con mente totalmente aperta all'improbabile.
Il corto finisce senza darci risposte, lasciandoci sospesi con il desiderio di averne ancora, di vedere di più, ma anche con la consapevolezza di aver assistito a 9 minuti di brillante scrittura cinematografica.
Quello che sembrava un normale primo giorno di lavoro diventa per Clare una stranissima caccia del gatto con il topo con una porta blu semovente, che chiede di essere chiusa... o aperta.
Scricchiolii, oggetti abbandonati a fare la polvere, stanze dimesse: The Blue Door punta tutto sulla costruzione di un ambiente sobriamente inquietante, dominato dai suoni, tranquillizzanti e quotidiani, che tanto più creano un contrasto con i risvolti narrativi che ci attendono al varco.
Il silenzio, l'assenza - finalmente - di una colonna sonora invasiva, che così spesso mina la piena efficacia dell'orrore, ci avvolge e ci catapulta lì, con Clare, tra le soffocanti pareti di una trappola.
Con lei percepiamo lo straniamento dato dal cambiamento improvviso di ciò che attorno a noi pareva familiare, la sensazione di non avere più certezze, in un crescendo di tensione in cui non si capisce bene quale sia la cosa giusta da fare.
Gemma Whelan (la Yara Greyjoy di Game of Thrones) regge l'intero corto sulle sue spalle: The Blue Door abbandona ancora una volta il jumpscare per mostrarci l'orrore che si insinua mellifluo, in noi come nell'inquadratura.
Nel 2011 terminava gli studi alla graduate school dell'American Film Institute e già cominciava a scuotere le fondamenta dell'orrore cinematografico occidentale del nuovo millennio.
In questi 29 minuti di follia - che possono sembrare, a un primo sguardo, un'assurda fusione della poetica del regista newyorkese con quella del collegaJordanPeele - si intravede già la marca tecnica che abbiamo imparato a riconoscere e amare, e il fil rouge che sembra aver tematicamente unito, fino ad ora, i suoi film: il legame familiare, distorto, maledetto, troncato, cercato.
Ci si sente un po' sporchi, a guardare questo corto.
Quando ad essere messi in scena sono dei tabù, la sensazione voyeuristica di star - forse - vedendo troppo è quanto mai acuta.
Con il tabù in questione il disagio subisce un'impennata vertiginosa e, come le sempre molto divertenti recensioni di Letterboxd si chiedono, ci porta ironicamente a domandarci cosa i genitori del nostro adorato Ari pensino del lavoro artistico del figlio.
Nigel voleva solamente fare buona impressione sulla bambina della sua compagna; l'ultima cosa che si aspettava era di venire catapultato in un mondo dove a dettar legge è un pinguino.
Come vi sentireste se tutti quelli intorno a voi cominciassero all'improssivo, come se entrati in una realtà parallela, a comportarsi come dei matti in piena regola?
A dare corda alla lamentosa farsa di una bambina?
A trattare voi come gli svitati di turno?
La sensazione che, gradualmente, Peter the Penguin riesce a suscitare nello spettatore è proprio quella di una confusione che fa sprofondare sempre di più in un nonsense dall'aura però molto pericolosa e inquietante.
Se i pianti vi faranno ridere le risate vi faranno tremare, in un sovvertimento di ciò che è normale e ciò che non lo è che fa dell'assurdo l'arma più efficace di questo corto.
Ed è una semplice frase, apparentemente innocua e che non si riesce pienamente a decifrare, a cadenzare la graduale discesa nell'illogico mondo di Peter the Penguin.
Ogni volta che la sentirete ne avrete un po' più paura.
A volte i legami familiari sono in grado di superare la morte, e il ricordo diventa feticcio riusabile all'infinito... Jake ne sa qualcosa.
La sensazione di straniamento che produce il guardare uno schermo nello schermo basterebbe a giustificare la presenza di questo corto in questa Top 8.
Ma il disturbante cortocircuito tra colui che guarda (nel cui spazio ci troviamo) e ciò che viene guardato fa schizzare Teaching Jake about the Camcorder, Jan '97 al vertice di questa galleria di orrori.
"Perturbante" è l'aggettivo che meglio descrive le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi: il familiare sapore dei filmini casalinghi viene intaccato dall'intrusione di dissonanze visive e concettuali che ti fanno gelare nel giro di un secondo, con uno sguardo, con una frase.
L'orrore si intreccia a un'immane tristezza, nel rifiuto di arrendersi ad una pacificazione interiore a cui avrebbe dovuto portare il confronto con il lutto e con il rischio di rimanere bloccati nel loop consolante ma immobilizzante del ricordo ossessivo.
Tuia
1 anno fa
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