Il Leone d'oro è uno di quei premi che riconduciamo irrimediabilmente al concetto di grande Cinema.
Si tratta del riconoscimento al Miglior Film assegnato dalla manifestazione cinematografica più antica del mondo, la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia: un alloro che, negli anni, è spettato ad autori monumentali e pellicole epocali.
La sua storia, però, non è esente da controversie e da bruschi cambi di direzione, dei quali non si può che tener conto se si intende ricostruirne con minuzia le tappe.
[Olympia di Leni Riefenstahlè stato il primo film di dimensioni epocali capace di vincere a Venezia quando ancora non esisteva il Leone d'oro]
In primo luogo, bisogna specificare che la dicitura Leone d'oro è arrivata solo nella prima Mostra post-bellica: le edizioni tenutesi prima del 1946, infatti, hanno assegnato la Coppa Mussolini, un premio che, per ovvie ragioni, è caduto in disuso al termine del conflitto.
In seconda analisi, non può essere tralasciato come, malgrado una tradizione ben più antica di qualsiasi festival al mondo, il Leone d'oro sia stato assegnato complessivamente meno volte dei suoi omologhi, la Palma d'oro e l'Orso d'oro.
Oltre alla problematica legata al nome delle edizioni precedenti alla prima guerra mondiale, infatti, deve segnalarsi come per un intero decennio, dal 1969 al 1979 la mostra di Venezia non abbia assegnato alcun premio, erodendo gradualmente il proprio prestigio.
Per le motivazioni alla base di questa scelta vi rimandiamo alla nostra minuziosa cronistoria della Mostra, in cui vi raccontiamo gli eventi salienti della Storia della manifestazione e, di conseguenza, del suo premio principale.
Per questa rassegna, dunque, prenderemo in considerazione solo i film vincitori del Leone d'oro, secondo la sua dicitura attuale.
[Il primo Leone d'oro di sempre è L'uomo del sud di Jean Renoir]
Il primo film a vincere il Leone d'oro nella sua tradizione canonica è stato nel 1945 L'uomo del sud di Jean Renoir: un grande autore francese alla direzione di un grande film statunitense, una costante per una Mostra che, per una curiosa serie di incontri astrali, premierà spesso delle produzioni di registi al fuori del proprio Paese natio.
Se nel 1948 l'Amleto di Laurence Olivier mette d'accordo per la prima volta Venezia e Hollywood, agli inizi degli anni '50, invece, ecco nascere un'altra delle grandi tendenze del kermesse veneziana: quella di essere prima di tutti i suoi omologhi una porta sull'oriente.
Nel 1951 il meteorite Akira Kurosawa si abbatte sul Cinema mondiale con la pietra miliare Rashomon, nel 1957 è il turno del più grande regista indiano di sempre, Satyajit Ray, con il suo Aparajito e l'anno successivo è ancora un giapponese, Hiroshi Inagaki, a strappare il Leone d'oro con L'uomo del riksciò.
Nel 1959 arriva il primo premio ex aequo della Storia della Mostra: il Cinema italiano si veste a festa per la vittoria simultanea di due suoi Maestri come Roberto Rossellini e Mario Monicelli, che condividono il Leone d'oro per Il generaleDella Rovere e La grande guerra, seguendo la scia del primo successo italiano arrivato nel 1954 grazie al Giulietta e Romeo di Renato Castellani.
[Anche Ordet - La parola è uno di quei film a cui il Leone d'oro ha spalancato le porte della Storia, confermando l'immortalità di Carl Theodor Dreyer]
L'anno successivo - siamo quindi nel 1960 - ecco un altro record: con Il passaggio del Reno, André Cayatte diventa il primo regista capace di vincere due volte il premio, bissando il successo di Giustizia è fatta, film vincitore un esatto decennio prima.
Si apre così quello che può essere considerato, senza timore di smentita, il decennio più prestigioso della Storia del Leone d'oro.
Negli anni '60, infatti, il premio è vinto solo da autori leggendari e da autentici capolavori.
Si impongono in quegli anni Alain Resnais, Francesco Rosi, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Gillo Pontecorvo e Luis Buñuel che rubano il cuore alle giurie con opere indimenticabili come L'anno scorso a Marienbad, Le mani sulla città, Deserto Rosso, Vaghe Stelle dell'orsa... , La battaglia di Algeri e Bella di giorno.
L'Italia e la Francia dominano il palmarès e per cinque anni di fila il Leone d'oro si veste di tricolore: c'è solo un'eccezione.
Nel 1962, infatti, accanto a Cronaca Familiare di Valerio Zurlini vince L'infanzia di Ivan, esordio di un giovane autore sovietico che prometteva di avere un discreto impatto nel mondo del Cinema: tale Andrej Tarkovskij.
L'ultimo film premiato prima della sospensione della competitività della Mostra nel controverso 1968 è Artisti sotto la tenda del circo: perplessi di Alexander Kluge.
[Città dolente è il Leone d'oro che chiude un decennio particolarissimo per la Mostra]
Al ritorno della Mostra nella sua veste competitiva, ecco rinverdirsi due tradizioni del premio: una è quella degli autori vincenti con grandi film girati fuori dai confini nazionali e l'altra è quella degli ex aequo.
Il miglior film del 1980 è, infatti, affare di Louis Malle, che si ripeterà nel 1987, e John Cassevetes: i due donano al Leone d'oro tinte noir rispettivamente con Atlantic City, U.S.A. e Una notte d'estate - Gloria.
Gli anni '80 sembrano essere per la Mostra un decennio particolare, a metà tra innovazione e riavvicinamento ai grandi autori stabilizzatisi negli anni precedenti.
Dopo Margarethe von Trotta, prima donna a imporsi a Venezia, ecco nomi affermatissimi del Cinema mondiale come Wim Wenders, Jean-Luc Godard, Krzysztof Zanussi, Agnès Varda, Éric Rohmer ed Ermanno Olmi, i quali, mentre la Mostra non era competitiva, divennero protagonisti di festival internzionali e furono premiati per opere formalmente molto audaci e sperimentali.
Nel 1989, infine, ecco riaprirsi la porta verso l'Oriente: a vincere è Città dolente, capolavoro senza tempo del taiwanese Hou Hsiao-Hsien che grazie a quest'opera si consacrerà al suo intoccabile status di Maestro.
[Così ridevano è ancora oggi l'ultimo film di finzione italiano ad aver vinto il Leone d'oro]
Come per magia negli anni '90 la finestra che guarda a Est si spalanca e porta un vento di novità: si impongono Nikita Michalkov, Zhang Yimou (due volte), Krzysztof Kieślowski, Tsai Ming-Liang, Milčo Mančevski, Tran Anh Hung e Takeshi Kitano, cambiando completamente la geografia del premio.
Nella grande varietà espressa nel corso del decennio, la sola Gran Bretagna (oltre alla Cina), ha vinto due volte il premio grazie allo sperimentale Rosencrantz e Guildernstern sono morti di Tom Stoppard e al colossale Michael Collins di Neil Jordan.
Hollywood invece si è ritagliata solo un ex-aequo grazie a Robert Altman e al suo America oggi, mentre nel 1998 l'Italia raccoglie il suo penultimo Leone d'oro grazie a Così ridevano di Gianni Amelio, ai tempi ritenuto tra i più grandi registi del panorama europeo.
[Sacro GRA, ultima opera italiana a portare a casa il Leone d'oro]
Gli anni 2000 si aprono estremizzando la tendenza del premio a lanciare nuovi nomi.
Jafar Panahi, Andrej Zvjagincev, Jia Zhang-ke e Samuel Maoz sono tra i nuovi colossi consacrati da una manifestazione cinematografica che nel frattempo trova anche modo di far pace con il Cinema hollywoodiano: tra i film vincitori del Leone d'oro vi sono anche i notiI segreti di Brokeback Mountain (2005)e The Wrestler(2008), oltre a una sopresa assoluta come Somewhere.
Ang Lee, inoltre, fu in grado di compiere un'impresa non da poco quando nel 2007, grazie al meraviglioso Lussuria - Seduzione e tradimento, diventa il più rapido di sempre a vincere due volte il premio.
Fino al 2016 la Mostra ha messo in piedi premiazioni di sconvolgente varietà, premiando tre grandi autori nel pieno della propria maturità: un documentario, un film d'esordio e consacrando definitivamente il nome di uno dei registi più peculiari dei nostri giorni.
Conoscendo la svolta successiva del premio, leggere in fila titoli come Faust,Pietà, Sacro GRA, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, Ti guardo e The Woman Who Left - La donna che se n'è andata fa quasi impressione.
[Joker ha iniziato a sconvolgere il mondo a partire proprio dalla vittoria del Leone d'oro]
Complice l'importanza sempre crescente di Netflix nell'economia della manifestazione veneziana e un orientamento sempre più marcatamente rivolto a Hollywood, i film premiati negli anni successivi risultano un poker d'assi perfetto per spiegare l'evoluzione storica del Leone d'oro: La forma dell'acqua, Roma, Joker e Nomadland.
Nel 2021 e 2022 ecco realizzarsi il doppio record finale: con la vittoria della francese Audrey Diwan grazie a La scelta di Anne - L'Événement, la Francia ha raggiunto la cima del palmarès, collezionando il proprio dodicesimo trionfo.
Per la prima volta, inoltre, il premio è stato vinto per due anni di fila da una donna.
Quest'ultimo record è stato immediatamente superato nel 2022, con la vittoria di Laura Poitras e del suo All the Beauty and the Bloodshed.
In questo modo, gli USA hanno raggiunto i transalpini con la vittoria del dodicesimo Leone d'oro, nazioni seguite sul podio dagli 11 dell'Italia.
Corsi e ricorsi storici che ci raccontano dell'importanza di un premio che, malgrado una vita travagliata, non smette di regalarci storie indimenticabili, tra le quali quelle che la redazione di CineFacts.it ha accuratamente scelto per questa selezione!
A differenza della Top 8 dedicata ai vincitori della Palma d'oro, però, le posizioni non sono state scelte sulla base dei voti complessivi della redazione ma secondo una scelta personale del redattore scrivente, al fine di restituirvi la più ampia varietà possibile di titoli vincitori del Leone d'oro.
Non è un caso - ma del resto nell’intera produzione cinematografica di Luchino Visconti nulla è accidentale - che l’ottavo lungometraggio del cineasta milanese prenda in prestito per il titolo l’incipit de Le ricordanze di Giacomo Leopardi e ne condivida anche il tema principale.
Vaghe stelle dell’Orsa... rappresenta infatti un intimista confronto tra passato e presente in cui la traduttrice Sandra Wald Luzzatti (un’espressiva e fosca Claudia Cardinale) è costretta a tornare per questioni ereditarie nella natia Volterra insieme al marito Andrew (Michael Craig).
Durante il soggiorno la protagonista dovrà confrontarsi con la tormentata famiglia e in particolare con il fratello Gianni (un non sempre convincente Jean Sorel), con il quale i rapporti appaiono fin da subito ambigui.
Visconti - aiutato in sceneggaitura dai fidati Suso Cecchi d’Amico ed Enrico Medioli - riesce ad affrontare un tema scabroso attraverso un approfondito sviluppo della psicologia dei personaggi, pur lasciando un velo enigmatico sulle relazioni che intercorrono tra di loro.
L’estrema raffinatezza formale della pellicola è il marchio che contraddistingue l’inconfondibile stile del regista: la cura meticolosa della messa in scena, l’attenzione al dettaglio nelle scenografie esterne e interne (scelte dall’immancabile collaboratore Mario Garbuglia), le inquadrature composte come opere d’arte in una sontuosa fotografia in bianco e nero (firmata dal fedele Armando Nannuzzi) che tra chiaroscuri e penombre contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più gotica.
Visconti torna dunque a raccontare un altro contrastato dramma borghese, ancora una volta attraverso toni forti ma raffinati: uno dei pochi registi italiani capaci di rendere elegante anche l’abietto. Vaghe stelle dell’Orsa... ha infatti tutte le sembianze di una classica tragedia greca, liricamente delicata e sensibile nella sua estetica decadente.
Non è un caso - di nuovo - che l’eleganza visiva e registica del suo autore gli siano valsi il primo e unico Leone d’oro (in compenso ne aveva vinti in precedenza due d’argento per Le notti bianche e Rocco e i suoi fratelli) della sua carriera nella Mostra Internazionale d’Arte cinematografica.
“Ah! Venga il tempo / In cui i cuori si innamorano!”
(verso di Arthur Rimbaud che ispira il quinto capitolo di Commedie e proverbi e che gli fa da sottotitolo)
Éric Rohmer è stato uno dei padri della Nouvelle Vague e allo stesso tempo, come detto da Serge Bozon, il "figlio diseredato" del nuovo Cinema francese; infatti, nonostante l'indiscussa grandezza e l'innegabile lascito che ha segnato intere generazioni di registi, i premi internazionali per lui hanno tardato ad arrivare, così come il riconoscimento presso il grande pubblico.
Pur essendo stato collante per il nucleo iniziale de La Gazette du cinèma con Jacques Rivette e Jean-Luc Godard (rivista che poi confluirà nei Cahiers du Cinéma), il suo percorso - a differenza di quello degli altri giovani rivoluzionari - faticò molto prima di essere apprezzato, complice un linguaggio austero, morale, pieno di naturalezza e improvvisazione.
Il primo riconoscimento arrivò nel 1967 - 8 anni dopo l'esordio de Il segno del leone - con l'Orso d'argento al Festival di Berlino per La collezionista; dopo due premi Méliès e una Conchiglia d'oro a San Sebastian, arriva finalmente il primo premio nella culla del Cinema francese, Cannes, nel 1976 con La Marchesa von....
Arrivano per Rohmer altri Méliès e un ulteriore Orso d'argento prima di raggiungere, finalmente, il primo riconoscimento al Lido con il Leone d'oro a Il raggio verde, nel 1986. Alcuni anni dopo, nel 2001, il festival italiano riconoscerà - quasi come fosse un risarcimento - a Rohmer il Leone d'oro alla carriera.
Perché Il raggio verde?
Perché il film del 1986, parte del ciclo Commedie e proverbi, è uno dei punti di arrivo del percorso stilistico e registico rohmeriano: tutta la seconda porzione della filmografia del regista, che va da La moglie dell'aviatore (1981) a L'amico della mia amica (1987), porta ancor più avanti il discorso dell'autore sulla semplicità e sulla naturalezza, sfuttando il dialogo, anche improvvisato, come vero e proprio protagonista.
“Dagli inizi degli anni '80, un'intelligenza superiore gli fa prendere anzitutto coscienza di un'urgenza assoluta: la leggerezza.
Ciò significa budget modesti, riprese in esterni, ridotto numero di collaboratori e autonomia nella produzione”
Olivier Séguret.
Il raggio verde racconta il topos rohmeriano delle ferie estive attraverso quelle di Delphine (Marie Rivière), tra piani saltati, mare, montagna e la ricerca quasi ossessiva di una stabilità e di un senso di appartenenza a un luogo e un tempo.
Delphine infatti è volubile e persa sia nella sua vita parigina sia nel cosa fare durante queste vacanze e, lungo i quattro archi temporali che scandiscono l'incedere del film, cambierà più e più volte idea; Il raggio verde andrà così a scandagliare la sua insoddisfazione amorosa, lavorativa e culturale.
Il film prende il titolo dall'omonimo romanzo di Jules Verne e dal bagliore verde che si dice essere l'ultimo raggio di sole visibile mentre il sole tramonta: attraverso questo fenomeno Rohmer mette in scena l'attesa di qualcosa di incerto, la speranza e la ricerca di qualcosa di semplicemente bello per revitalizzare un'esistenza.
Assieme a Marie Rivière, con cui ha condiviso ben otto film, Rohmer raggiunge ne Il raggio verde un ulteriore raffinamento della sua cifra stilistica e autoriale tale da portarlo a un successo di pubblico e critica assoluto.
Il raggio verde infatti riesce perfettamente a raccontare la ricerca di un attimo, la semplicità quotidiana e il dialogo come colonna sonora di una vita, risultando così un manifesto del Cinema di Éric Rohmer e di ciò che ha lasciato nelle generazioni a venire.
C’è stato un cupo periodo storico durante il quale il credo religioso veniva considerato l’unico elemento caratterizzante una persona, quello che ne definiva la bontà o la malvagità, l’innocenza o la colpevolezza.
Un momento storico che si è macchiato di alcuni tra i peggiori crimini contro la razza umana mai perpetrati, il tutto nella nera cornice della dittatura nazista.
E’ proprio durante la Seconda Guerra Mondiale che si svolgono le vicende narrate in Arrivederci Ragazzi, lungometraggio di Louis Malle che, nel 1987, valse al regista il Leone d’oro alla 44ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Gli eventi si svolgono nel gennaio del 1944, nel collegio maschile privato dei Carmelitani Scalzi di Fontainebleu, luogo poco a sud di Parigi in cui vengono mandati i bambini e i ragazzi dalle proprie famiglie, così da tenerli lontani da zone di guerra più pericolose.
Julien Quentin (Gaspard Manesse), ragazzino proveniente da un’abbiente famiglia borghese, è un ottimo studente del collegio ma, di ritorno dalle vacanze di Natale, scoprirà di avere un rivale: un nuovo misterioso studente, tanto taciturno quanto brillante nello studio.
Tra la sirena di un bombardamento e l’altro, numerosi sono i dispetti e gli episodi di bullismo contro il nuovo arrivato, Jean Bonnet (Raphaël Fejtö), che difficilmente si integra nel gruppo.
Julien, pur sapendo che dovrebbe provare per Jean solo antipatia, ne è allo stesso tempo affascinato, capisce subito che il suo nuovo compagno di classe sta nascondendo qualcosa, non solo per timidezza ma per sopravvivenza, ed è determinato a scoprire a tutti costi di cosa si tratta.
Quella tra Julien e Jean è una tenera storia di amicizia, delle più pure, un rapporto che nasce colmo d’astio per paura di ciò che non si capisce dell’altro e che, pian piano, si trasforma in sincero affetto grazie alla certezza dell’esistenza di differenze, alla comprensione delle stesse e alla loro tacita accettazione.
In Arrivederci ragazzi (titolo originale Au revoir les enfants) non si assiste mai a scene cruente, la violenza fisica non viene mai messa in scena, bensì è quella psicologica a prevalere.
Louis Malle costruisce la tensione tramite silenzi e staticità che, in questo caso, assumono una forza molto maggiore rispetto a musiche concitate e azioni dinamiche.
I momenti di sfogo per i protagonisti del film sono tali anche per lo spettatore che, insieme ai ragazzini, giocando nel cortiletto del collegio o guardando un film con protagonista Charlot, riesce a non pensare al dramma della guerra e alle deportazioni degli ebrei sempre più frequenti.
Anche i personaggi minori del film hanno ruoli importanti, densi di significato.
Uno tra tutti (tralasciando il nome per evitare spoiler) è il traditore, personaggio affascinante ed esemplificativo di una certa categoria di essere umano che frustrato, bullizzato, incapace di ottenere un certo prestigio perché intellettualmente mediocre, decide di passare alla violenza pur di sentirsi rispettato.
Ma tra rispetto e paura c’è un abisso e a non accorgersi della differenza ci sono solo gli oppressori prepotenti.
Spesso si dice che la seconda opera di un'artista, qualsiasi sia la natura della sua arte, è sempre la più difficile: nel caso del secondo film del regista vietnamita naturalizzato francese Tran Ahn Hung, il successo di Cyclo ha superato quello del lungometraggio d'esordio Il profumo della papaya verde, candidato all'Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera nel 1993.
Cyclo infatti è l'unico film vietnamita ad aver vinto il Leone d'oro alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia nel 1995 ed è considerato uno dei migliori esempi di neorealismo asiatico.
Il film sfrutta la storia di un giovane orfano a cui è stato rubato un risciò per raccontare Ho Chi Minh, la città più popolosa del Vietnam, con tutte le sue idionsincrasie e i suoi drammi. La città è vividamente ritratta sotto le luci al neon del locali notturni, immersa in un verde e blu artificiali che ricordano i colori di una palude.
Ed è proprio una palude quella in cui ci muoviamo: un territorio ostile, dove il più forte si nutre delle speranze dei più deboli e in cui è necessario mimetizzarsi con l'ambiente circostante per trovare il modo di sopravvivere, anche con il rischio di perdere se stessi.
Il protagonista, che ha assunto il nome dal proprio mestiere di ciclotaxista - lo chiamano infatti proprio Cyclo - è stato derubato del proprio mezzo da uno dei tanti racket mafiosi che dominano la città; per ripagare la padrona per cui lavora dovrà avere a che fare con il clan del Poeta, scivolando in un girone infernale sempre più alienante.
La scelta di non dare nomi ai personaggi sottolinea il dramma dell'esperienza collettiva che afflige i cittadini di Ho Chi-Min (ex Saigon).
Tran Ahn Hung alterna vari stilemi registici e narrativi con eleganza e senza mai risultare forzato: le tinte pulp del thriller - il sangue scorre a fiumi - si intersecano a un malinconico senso di disfatta e devastazione, incarnato principalmente nel personaggio del Poeta, interpretato da Tony Leung Chiu-wai, una delle più grandi star del Cinema cinese.
Prostituzione, droga, atti di coraggio più che crudeli, lunghi silenzi: Tran Ahn Hung ci prende per mano e ci accompagna tra le strade di una città in cui, nonostante la perversione e l'efferratezza, esistono ancora l'affetto e la compassione, seppur deformati per adattarsi a un contesto autodistruttivo.
Più che le parole sono i suoni della città, rumorosa e sovrappopolata, a scandire il ritmo di Cyclo, oltre alla musica: dalla voce triste di una malinconica cantante cinese a Creep dei Radiohead, trasmessa in un club notturno.
Negli anni '90 a Gianni Amelio, tra gli autori di punta del nostro Cinema, fu affibbiato lo sfuggente concetto di neo-neorealismo, nozione per alcuni segnata negativamente dal distacco dal realismo (come scriveva Natalia Aspesi in riferimento a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore), per altri tendente al documentarismo (come notava Irene Bignardi a proposito di Il ladro di bambini dello stesso Amelio).
Nel corso della sua quarantennale carriera, Amelio ha manifestato ripetutamente un debito nei confronti della programmaticità narrativa di un certo Neorealismo, sospeso tra interpretazione della realtà in essere e riorganizzazione retorica.
Tuttavia, mentre Il ladro di bambini - apogeo di questo progetto - contemplava anche sul piano formale una più chiara irruzione della realtà, Così ridevano muove da presupposti differenti per abbracciare proprio un apparente distacco dal realismo (nozione invero di non semplice definizione).
Nel Leone d'oro 1998 fa difatti ingresso obliquamente una dimensione melodrammatica distante dalle eventuali declinazioni strettamente neorealiste (l'avverbio vale soprattutto per Luchino Visconti): qui il ruolo del melò non consiste solo nello strutturare con più univocità fruizione e narrazione, ma soprattutto - e lo scarto è decisivo - nell'accogliere suggestioni riflessive e metariflessive capaci di donare profondità alla superficiale convenzionalità del lavoro discorsivo.
Come esplicitato anche in Hammamet, uno dei riferimenti in tal senso è Douglas Sirk, maestro assoluto del melodramma, di un melodramma stratificato e gentilmente distrutto al punto da dare il là (assieme al Visconti post-neorealista) agli stravolgimenti camp di Rainer Werner Fassbinder.
Amelio non imbocca certo la strada fassbinderiana, eppure sfrutta delle palesi trasfigurazioni rispetto alle classiche modalità di rappresentazione del reale tanto sul piano stilistico - in tandem con un superlativo Luca Bigazzi - quanto sul piano narrativo, per coniugare storia e Storia.
Così ridevano racconta la vicenda di due fratelli siciliani che (viscontiamente) emigrano al Nord negli anni del boom, con il regista calabrese che pone contemporaneamente il focus sui loro travagli - riproponendo il leitmotiv familiare tipico del suo Cinema - e sul loro rapporto con il contesto.
Il complesso convivere di un'emozionalità comunque diversa da quella sirkiana (amalgama di conformismo e sua esasperazione) con una scansione narrativa ambigua, specie per quanto riguarda la gestione di scene madri e segmenti apparentemente interlocutori, sostiene una discorsività che punta all'incorporazione dello studio del milieu nella singolarità delle esistenze emotivamente e fattualmente marcate di Giovanni e Pietro.
Il loro agire è sempre collocato, inquadrato in schemi più ampi, e il trattamento formale evidenzia una spinta quasi metaforizzante e/o storicizzante senza per questo togliere un briciolo di credibilità alla storia dei due: ecco allora recuperato un valore affine a quel passaggio dal Neorealismo al realismo - un realismo critico secondo il critico Guido Aristarco - che ha caratterizzato il percorso di Visconti e che, informato dal mutare dei tempi e da una differente sensibilità autoriale, ha ritagliato Così ridevano come opera tra le più significative del Cinema italiano degli ultimi decenni.
Sette anni dopo Non uno di meno di Zhang Yimou, nel 2006 Jia Zhangke riportò la vittoria del Leone d’oro in Cina.
Un dato che non serve solo a una mera statistica sui premi festivalieri, ma un fatto che fotografa un periodo storico e di conseguenza un’idea di Cinema.
Still Life è un film fondamentale perché racconta di un cambiamento che tuttora influenza il nostro mondo, mostrando i primi squarci dell’espansione economica cinese. Siamo a Fengjie, un villaggio che sta lentamente sprofondando nell’acqua a causa della costruzione della diga delle Tre gole.
In questa cornice si intrecciano le storie di Sanming e Shen Hong, due persone alla ricerca di tracce del proprio passato.
L’occhio con cui Jia Zhangke mette in scena il processo di rinnovamento edilizio della Cina guarda al Cinema neorealista, dove la decadenza delle macerie ingloba il vagabondare affranto dei protagonisti.
D’altronde il regista di The World ha realizzato anche documentari e durante la visione di Still Life questo aspetto si nota per due ragioni.
Prima di tutto Jia Zhangke riesce a captare perfettamente il quotidiano, quindi tutto ciò che non è “With the dull bits cut out”.
Attraverso poi quest’idea di racconto traspare l’antropologia dello sguardo del regista, in cui è la relazione luogo-persona a essere motivo d’interesse.
Ogni sequenza del film diventa un mondo a sé, pieno di sfumature nella quali poter perdersi per conoscere qualcosa completamente distante da noi.
Jia Zhangke sfrutta questo aspetto dilatando i tempi narrativi in modo inusuale per il Cinema occidentale dei primi anni 2000, lasciando allo spettatore la libertà di scegliere tra l’aspetto sociale di Still Life o quello della trama che coinvolge Sanming e Shen Hong.
Se in Non uno di meno quindi il processo - se vogliamo - di gentrificazione e perciò di modernità non rappresentava il nucleo centrale dell’opera, pochi anni dopo con Still Life diventa fondamentale, simbolo di una trasformazione rapidissima.
Non è un caso che il film di Zhang Yimou sia girato in pellicola mentre quello di Jia Zhangke in digitale, un cambiamento inevitabile per abbracciare il contemporaneo, per non affogare sotto i colpi del nuovo mondo come accade con Fengjie e la costruzione della diga.
Forse quello di Still Life è uno degli ultimi film vincitori del Leone d’oro a esser così simbolici del proprio periodo storico, dove la modernità è un incubo nel quale addentrarsi per scoprire se c’è ancora possibilità di vita.
Lee Kang-do si guadagna da vivere facendo l'esattore per uno strozzino: le sue vittime sono piccoli artigiani, mutilati dall'uomo quando non riescono a ripagare i propri debiti.
Ognuno di loro è infatti costretto a stipulare una polizza assicurativa contro gli infortuni sul lavoro grazie alla quale, una volta diventati invalidi, saranno in grado di restituire la somma pattuita.
L'incontro con Jang Mi-sun - che sostiene di essere la madre mai conosciuta - gli cambierà la vita, rendendogli però sempre più difficile portare a termine il proprio lavoro a causa dell’emergere di un lato umano fino a quel momento represso.
Il film vincitore della 69ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia è al tempo stesso dramma e critica sociale, il tutto ovviamente portato sul grande schermo attraverso lo stile unico di Kim Ki-duk. A farla da padrone è come sempre l'attenzione alla solitudine, non solo del protagonista ma di quella parte più povera della popolazione, completamente abbandonata a sé stessa all'interno della società capitalista.
Pur essendo uscito dieci anni fa Pietà risulta terribilmente attuale e leggibile anche al di fuori dei confini della Corea del Sud, dipingendoci un mondo nel quale si attribuisce più valore ai soldi che agli individui.
Contemporaneamente ci viene anche mostrata una costante perdita di umanità da parte delle persone, sempre più isolate e ormai quasi del tutto insensibili davanti al dolore dell’altro.
"La morte complica i risarcimenti!"
Urla il protagonista a un anziano debitore sul punto di suicidarsi.
Kang-do è carnefice (letteralmente) ma anche una vittima di questo sistema, l'ingranaggio di uno di quei macchinari sui quali il regista si sofferma più volte nel corso della narrazione.
Un'infanzia priva di affetti lo ha reso duro oltremodo preparandolo a un lavoro nel quale gli si richiede di non provare sentimenti, a cominciare dalla pietà.
La comparsa di questa figura materna fa però affiorare in lui tutta una serie di emozioni che vanno dalla rabbia e dal risentimento nei confronti di Jang Mi-sun - colpevole di averlo abbandonato - alla compassione verso i debitori, di fatto impedendogli di continuare a riscuotere.
La gioia di non essere più solo e di avere finalmente una persona a cui tenere lascia presto spazio alla paura di perderla a causa di possibili ritorsioni da parte del capo insoddisfatto o di una delle sue tante vittime.
In questo film la componente simbolica di Kim Ki-duk appare fortemente condizionata dalla tradizione cristiana, a partire dal riferimento esplicito - già nel titolo - alla Pietà di Michelangelo per poi soffermarsi su tematiche come l'espiazione, il martirio e il conflitto tra perdono e vendetta. I luoghi nei quali abitano e si muovono i personaggi sono sporchi, angusti e decadenti: le periferie in macerie di una società che sembra interessarsene solamente quando decide di raderle al suolo per costruirci sopra dei nuovi e moderni palazzi.
Kim Ki-duk ci fa da guida in questo tour di degrado fisico e morale proponendoci una visione estremamente pessimista ma al tempo stesso realista di un mondo sempre più disumanizzato e il cui conflitto non sembra più essere risolvibile.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza
di Roy Andersson, 2014
Cosa significa “vivere”?
Una domanda che può trovare risposte quanto banali tanto interessanti, alla quale molti grandi registi hanno provato a rispondere.
Anche Roy Andersson ci ha provato con la “trilogia sull’essere un essere umano” - definita così da lui stesso - composta dai film Canzoni del secondo piano, You, the Living e Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza.
Uno sguardo più approfondito e particolare va sicuramente a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, vincitore del Leone d’oro per il miglior film alla 71ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, e capitolo conclusivo della trilogia.
Il film si apre con una breve scena in cui una donna osserva un uomo che, a sua volta, osserva delle teche: in una di esse vi è proprio un piccione su un ramo.
Una didascalia informa lo spettatore che vedrà “tre incontri con la morte”: un uomo, mentre stappa una bottiglia, muore di infarto senza che sua moglie se ne accorga; tre fratelli cercano di riprendersi la borsa piena di gioielli e denaro che la madre in fin di vita all’ospedale non vuole assolutamente mollare; un cadavere giace di fronte al bancone di un ristorante mentre una dipendente domanda chi voglia l’ordine dell’uomo, ormai già pagato.
Segue la storia di Sam (Nils Westblom) e Jonathan (Holger Andersson), due venditori ambulanti, intervallata da momenti tra il realistico e il surreale.
I due, tristemente bloccati in una condizione esistenziale che non sanno definire, cercano in tutti i modi di vendere degli oggetti - assolutamente bizzarri e poco divertenti - ripetendo che lo scopo sia far ridere le persone.
Questa ripetizione costante non è l’unica nel film, anzi: da diversi personaggi viene detto “sono felice che tu stia bene”, una frase semplicissima ma che, detta costantemente, suona come un vero e proprio tormentone comico anche se non dovrebbe.
I trentanove piani sequenza del film sono fissi e frontali, donando una sensazione di simmetria caotica, nei quali István Borbás e Gergely Pálos fanno un uso molto preciso dei colori - grigi, ocra, verdi, beige e altri toni desaturati con dovute singolari eccezioni - per donare sensazioni letargiche e di distacco.
In questi spazi - bar, strade e piccole stanze claustrofobiche che ricordano i quadri fiamminghi - i personaggi si raccontano attraverso semplici gesti e pochi dialoghi, accompagnando lo spettatore nelle dinamiche grottesche e alienanti del quotidiano: smarriti tra presente e passato, si muovono inetti e ripetitivi lasciandosi inevitabilmente trasportare dagli eventi, qualsiasi essi siano.
Viene utilizzata un’ironia amara per raccontare una società che resta inerme e che ha smesso di lottare laddove anche eventi tragici divengono mero diletto per coloro che guardano.
Dunque, cosa significa “vivere”?
Roy Andersson non ci lascia risposte esplicite ma solo una serie di quadri da osservare e interiorizzare per portarci alla riflessione, proprio come quel piccione sul ramo.