“We know more about the surface of Mars than about Kevin Spacey’s life”
“Sappiamo molto di più sulla superficie di Marte che sulla vita di Kevin Spacey”
Così parlava qualche fonte anonima dello show business durante il periodo d’oro dell’attore, mentre abbondavano discutibili supposizioni circa il suo orientamento sessuale.
[La copertina di Esquire, ottobre 1997: al suo interno un articolo del giornalista Tom Junod in cui veniva data per certa l’omosessualità di Kevin Spacey]
Kevin Spaceyè in effetti un caso assolutamente singolare nel panorama cinematografico statunitense contemporaneo.
L’ordinary man di Hollywood dall’inconfondibile fossetta sulla guancia, che disprezza il gossip e protegge la propria vita privata, ha costruito la sua fama al confine tra visibilità e invisibilità, tra apparenza e gelido distacco.
Questa riservatezza, nonostante abbia da sempre insospettito l’opinione pubblica, ha contribuito a rendere l’immagine dell’attore maggiormente attraente, conferendogli una popolarità che ha finito per congelarsi in tre grandi interpretazioni: I soliti sospetti, Sevene American Beauty.
Purtroppo il presente ci racconta quanto quell’alone di mistero sia costato - e stia costando - a Kevin Spacey in termini di possibilità di carriera e visibilità.
Le accuse di molestie sessuali, iniziate nell’ottobre del 2017 nell’ambito del caso Harvey Weinstein, continuano a rinnovarsi, tanto che il 6 giugno 2023 l’attore dovrà rispondere di alcuni presunti abusi esercitati su tre uomini a Londra.
Non vale la pena spendere altre parole sulle vicende legali di Kevin Spacey.
Lungi da noi trasformare, com’è facile che accada in questi anni, un caso di estrema serietà in un affare mediatico da true crime story.
[Kevin Spacey appare per la prima volta sul grande schermo in Heartburn - Affari di cuore con un ruolo assolutamente marginale: l’attore interpreta un ladro un po’ impacciato che dopo aver fatto l'occhiolino a una Meryl Streep incinta le ruba un anello di diamanti e poi le chiede scusa, scappando col bottino]
Grazie al divario simbolico che caratterizza la sua presenza all’interno dell’industria cinematografica, Kevin Spacey si è guadagnato l’accezione di stimabile interprete.
Un prestigio che è stato nutrito anche dalla volontà di dedicarsi saltuariamente al teatro, sua più grande passione.
L’allontanamento mai totale dal set ha permesso a Spacey, esattamente all’apice del proprio successo dopo l’Oscar per American Beauty, non solo di assumersi la responsabilità di direzione di un teatro - il The Old Vic Theatre di Londra - ma anche di spaziare in categorie eterogenee di personaggi.
Questo, tuttavia, incontrando qualche inevitabile flop.
Sebbene l’attore avesse ampiamente dimostrato di poter essere uno straordinario protagonista, infatti, il pubblico non riusciva a riconoscerlo in vesti diverse dall’imperturbabile villain calcolatore.
L’eredità lasciatagli da Kaizer Söze ne I soliti sospetti e da John Doe in Seven aveva dimostrato quanto Spacey fosse in grado di scomparire a favore del personaggio; quanto la sua vita privata, così oscura e ignota, combaciasse alla perfezione con le caratteristiche del criminale perfetto, invisibile e silenziosamente presente.
[Detective... Detective... Deteeeeectiiiiive!]
Fino alla svolta decisiva a seguito della serie TV House of Cards, prodotta dalla sua società Trigger Street Productions, l’attore si è ritrovato spesso catapultato in ruoli negativi.
Non solo ha prestato la voce a Hopper, la malefica cavalletta di A Bug’s Life - Megaminimondo, ma è stato anche l’iconico Lex Luthor in Superman Returns e si è divertito nei panni del Dr. Male inAustin Powers in Goldmember, regalando al pubblico un’auto-parodia di se stesso e di quello che era convenzionalmente riconosciuto come il suo ideale territorio d’azione.
Come al solito, in mezzo ai clamorosi successi e insuccessi di un attore, esistono sempre una serie di casi che, pur non avendo avuto un grande impatto, restano comunque particolarmente interessanti.
L’obiettivo di questa Top 8 è proprio quello di riscoprire Kevin Spacey attraverso alcune delle sue interpretazioni meno note.
Un ultimo consiglio, che appare necessario a questo punto, è quello di concedersi la visione dei film - inseriti senza ordine di preferenza - rigorosamente in lingua originale.
Ciò varrebbe in generale, ma in questo specifico caso occorre ribadirlo: la voce di Kevin Spacey è infatti uno dei suoi tratti più distintivi.
Nonostante lo straordinario contributo in italiano di Roberto Pedicini, generalmente associato al volto dell’attore, abbia dato vita a uno dei match di doppiaggio più riusciti di sempre, vale la pena godere appieno dell’enorme talento dell’attore anche - e soprattutto - a partire dalla sua abilità vocale sfruttata egregiamente durante tutta la sua altalenante carriera.
Nel 1992 Kevin Spacey appare in Americani, un film all star diretto da James Foley, dove interpreta un giovane e inesperto capoufficio al fianco diJack Lemmon, Al Pacino,Ed Harris, Alec Baldwin e Alan Arkin.
Con Lemmon l’attore condivideva una profonda e longeva amicizia, iniziata simbolicamente molti anni prima.
L’incontro con l’everyman per eccellenza del Cinema hollywoodiano degli anni ‘60, avvenuto quando Spacey aveva soli 13 anni, era stato insieme a quello con Katharine Hepburn l’evento che lo convinse a inseguire il sogno di recitare a teatro.
Il film di Foley pone al centro delle vicende un gruppo di venditori in crisi, costretti a boicottarsi l’un l’altro per non essere cacciati dalla compagnia insoddisfatta del loro rendimento.
Pur restando marginale, il ruolo silenzioso, severo e remissivo di Spacey è fondamentale soprattutto considerando la natura stessa di Americani, un’opera estremamente verbale, colma di dialoghi e linguaggio scurrile, ambientata in solamente tre o quattro location.
John Williamson - il personaggio interpretato dall’attore - affronta inoltre all’interno del film un ribaltamento comportamentale molto simile a quello che caratterizzerà, alcuni anni più tardi, Lester Burnham di American Beauty.
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Posizione 7
Il prezzo di Hollywood
di George Huang, 1994
Kevin Spacey torna a fare il Boss ne Il prezzo di Hollywood, film di George Huang che lo iniziò all’universo dei cattivissimi facendogli interpretare la parte di Buddy Ackerman, esigente e avido produttore cinematografico.
Al centro delle vicende Guy (Frank Whaley), un giovane sceneggiatore che sceglie di diventare l’assistente personale dell’uomo nella speranza di dare uno slancio alla propria carriera.
Il prezzo da pagare però è molto alto: il produttore, approfittando della sua posizione di potere, si impone attraverso atti di violenza fisica e psicologica, riducendo il povero ragazzo a un concentrato di risentimento e desiderio di vendetta.
Alternando flashback a scene del presente, dove il giovane sembra aver improvvisamente indossato gli abiti di un serial killer, Il prezzo di Hollywood fa dell’essenzialità della messa in scena la sua grande forza, mostrando il lato più oscuro dell’industria cinematografica statunitense degli anni ‘90 fatto di compromessi, accordi segreti e spietato cinismo.
Nonostante la credibilità dell’intero cast - nel quale appare anche un giovane Benicio Del Toro - Kevin Spacey è certamente colui che tiene in equilibrio un film che è da considerarsi, tutto sommato, mediocre.
Nella parte di Buddy, Spacey dimostra per la prima volta quella capacità - che caratterizzerà le sue interpretazioni successive - di rappresentare tanto la disgustosa immoralità di un uomo quanto il suo più profondo lato umano.
La sua prova, praticamente sconosciuta, rientra in assoluto tra le più mirabili della sua carriera.
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Posizione 6
Mezzanotte nel giardino del bene e del male
di Clint Eastwood, 1997
Savannah, Georgia.
Il giornalista newyorkese John Kelso (John Cusack) viene incaricato della scrittura di un articolo sull’annuale party natalizio organizzato dal ricco antiquario e collezionista Jim Williams (Kevin Spacey) ma finisce per occuparsi delle indagini circa un omicidio avvenuto alla fine del ricevimento.
Clint Eastwoodfotografa l’anima di un Sud degli Stati Uniti esoterico e popolato da gente bizzarra che porta a spasso cani invisibili, gira accompagnato dalle proprie mosche domestiche con una boccetta di veleno sempre in tasca e compie riti vudù all’interno di un cimitero.
Dopo il successo ne I soliti sospetti e Seven, Kevin Spacey continua a impersonare un enigmatico e imperturbabile uomo qualunque, che sembra costantemente avere in serbo un piano infallibile di cui nessuno è a conoscenza.
Nel film l’esasperata ricerca della verità scavalca il confine tra vita e morte, tra sotterraneo e terreno, facendo luce anche su temi di grande rilevanza, considerando il contesto storico e culturale del luogo.
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Posizione 5
The Big Kahuna
di John Swanbeck, 1999
Nel Midwest, in una squallida suite di un hotel a Wichita, tre venditori di lubrificanti industriali stanno aspettando con ansia l’inizio di una convention alla quale parteciperà un importante potenziale cliente detto Big Kahuna.
John Swanbeck racconta la commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff attraverso il mezzo cinematografico avvalendosi di tre straordinari interpreti: Kevin Spacey, Danny DeVito e Peter Facinelli.
Se DeVito interpreta un nostalgico venditore, intento a rivalutare la propria vita sotto molteplici aspetti, Spacey è calato nella parte di un odioso, egocentrico e nichilista venditore di mezza età che cerca di imporre le proprie idee su un novellino timorato di Dio.
Girato con pochi mezzi, il film presenta un impianto teatrale e pochi virtuosismi registici per fare spazio, attraverso lunghe sequenze, a una narrazione logorroica protratta in tempi sorprendentemente dilatati.
Nel ruolo di Larry, Spacey riesce a fornire il ritratto di un uomo fragile nella sua aggressività, portando sullo schermo - come solo pochi attori sanno fare - l’affascinante essenza del contraddittorio.
Attorno alla frustrazione del suo personaggio si costruisce una riflessione esistenziale sul valore delle convinzioni che guidano lo stare al mondo dell’individuo.
The Big Kahuna, senza l’utilizzo di una retorica eccessivamente ottimista, esplora tre fasi della vita in cui farsi delle domande e darsi le risposte giuste diventa la sfida più difficile da vincere.
Catapultato sul pianeta Terra per motivi misteriosi, Prot (Kevin Spacey) viene da K-PAX, un luogo appartenente a un altro sistema solare in cui non esiste alcun tipo di ordinamento sociale.
Non esistono famiglie, comunità e gruppi perché gli individui sono in grado, naturalmente e in autonomia, di distinguere il Bene dal Male, conducendo le proprie vite nel rispetto assoluto degli altri.
Lo psichiatra Mark Powell (Jeff Bridges), venuto a contatto con il presunto extraterrestre, inizia a interessarsi al suo caso e cerca in tutti i modi di comprendere quale sia la reale - e terrena - origine dell’uomo e quale trauma lo abbia spinto a costruirsi un’identità aliena tanto credibile.
Quello di Prot, seppur caratterizzato da mistero e freddezza, è un ruolo piuttosto insolito per Spacey perché lo proietta in una dimensione fino a quel moomento mai sperimentata: la fantascienza.
L'attore dimostra di sapersi calare perfettamente persino nel non-umano, considerando che la parte avrebbe rischiato di risultare ridicola attraverso il contributo di un attore meno esperto.
K-PAX - Da un altro mondo in realtà ha ben poco di fantascientifico, anzi: l’elemento alieno è un pretesto per riflettere sulle conseguenze psicologiche di un trauma e sulla speranza di riprendere in mano la propria vita che chiunque merita di avere.
Nonostante si inserisca all'interno del più classico dei film statunitensi anni 2000 (con un Jeff Bridges nel ruolo del tipico papà americano distratto dal lavoro e assente in famiglia) la prova di Spacey resta estremamente credibile e ben costruita.
“Let me tell you something, Mark: you humans, most of you, subscribe to this policy of an eye for an eye, a life for a life, which is known throughout the universe for its... stupidity. [...] You humans… Sometimes it’s hard to imagine how you've made it this far”
“Le voglio dire una cosa, Mark: voi umani, la maggior parte di voi, approva questa politica dell'occhio per occhio, vita per la vita, che è conosciuta in tutto l'universo per la sua stupidità. [...] Voi umani... Talvolta è difficile capire come abbiate potuto arrivare fino a qui” .
Disponibile su Prime Video canale Full Action, su Rakuten TV con pubblicità, su Pluto TV con pubblicità
Posizione 3
The life of David Gale
di Alan Parker, 2003
Dopo American Beauty, la profezia annunciata da Kevin Spacey il giorno del suo secondo Premio Oscar (“Questo è il culmine del mio viaggio. Spero che da qui in poi non sia tutto in discesa…”) si realizza tragicamente.
The life of David Gale è solo uno dei numerosi insuccessi al botteghino nel quale Spacey compare dagli anni 2000 in poi.
Il film, che ha tutta l’aria di essere un biopic senza esserlo davvero, si focalizza sulle indagini condotte dalla giornalista Bitsey Bloom (Kate Winslet) circa la condanna a morte di un docente di Filosofia per l’omicidio di una collega attivista - come lui - in un movimento per l’abolizione delle esecuzioni di Stato.
Parker costruisce un thriller giudiziario sulla pena di morte e sul rapporto tra verità e menzogna con grande sensazionalismo, concentrando tutte la frenesia della narrazione in un finale sconvolgente e paradigmatico.
Sono Winslet e Spacey a sostenere la potenza drammatica di un film che punta apparentemente il dito al conservatorismo cattolico, utilizzando come sostegno delle proprie tesi il modello di Socrate che il personaggio di Gale promuove a più riprese.
Negli anni è stato spesso sottolineato quanto la parte di David Gale non si addicesse affatto allo stile interpretativo di Kevin Spacey.
In realtà la sua interpretazione non appare affatto fuori contesto e, anzi, contribuisce ad arricchire la caratterizzazione del personaggio con sfumature più interessanti.
Kevin Spacey riesce a portare un po’ di enigma all’interno di un personaggio che, altrimenti, sarebbe risultato piatto e senza anima.
Disponibile su Netflix
Posizione 2
Beyond the sea
di Kevin Spacey, 2004
Nel 2004 Kevin Spacey firma la sua seconda regia con un musical biografico sul cantante e attore Bobby Darin.
Si tratta di un’iniziativa del tutto personale, sostenuta dalla sua società di produzione, che coinvolge una serie di prime volte e per la quale l’attore si prepara con rigore e dedizione.
A ben vedere non è tanto il racconto di Darin a prendere vita, quanto l’esperienza dell’attore, la sua scalata al successo e il suo rapporto con la madre.
Spacey infatti rielabora i canoni del biopic tradizionale, integrando elementi autobiografici e lasciando da parte alcune vicende di Darin che non trovano coincidenza con la sua personale storia.
Il ruolo è da considerarsi il più insolito all’interno della sua carriera: l’attore è un non sempre brillante ballerino, con il volto vagamente ringiovanito e il toupee, che si abbandona a sfarzose esibizioni e a grandi performance da star del jazz.
Non solo: Spacey (come sottolinea lui stesso all’interno del film attraverso un simpatico gioco tra finzione cinematografica e realtà) ha 54 anni e si trova a dover interpretare un uomo che all’epoca della sua scomparsa ne aveva solamente 37.
Il film è un flop al botteghino e viene ricordato principalmente come un’opera autocelebrativa di una star alla fine della sua carriera.
Nonostante l’insuccesso, l’abilità canora di Spacey, già palesata nella colonna sonora di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, viene premiata con un’inaspettata nomination ai Golden Globe.
Elvis & Nixon racconta la storia di un incontro che ha dell’incredibile.
Verso la fine degli anni ‘70, Elvis Presley manifestò il desiderio di diventare un agente sotto copertura dell’FBI Sezione Narcotici, con l’obiettivo di contribuire alla lotta contro la diffusione di sostanze stupefacenti.
Per farlo il Re del Rock avrebbe dovuto ricevere l’approvazione ufficiale del Presidente degli Stati Uniti, carica all’epoca ricoperta dal repubblicano Richard Nixon.
Quell’assurdo meeting, documentato solamente da una foto, viene raccontato da Liza Johnson attraverso una commedia grottesca che, pur avvicinandosi al genere del biopic, riesce a riportare l’episodio lasciando da parte ogni approfondimento del caso.
A indossare le maschere di due degli uomini più importanti della Storia statunitense sono Kevin Spacey e Michael Shannon.
Da un lato Shannon fa delle sue abilità interpretative lo strumento per superare l’evidente dissomiglianza con Presley, dall’altro Spacey si diverte a scimmiottare il controverso presidente statunitense, fornendo il ritratto clownesco di un uomo egocentrico, conservatore, ridicolo nelle sue insicurezze e facilmente condizionabile.
Un uomo che, solamente quattro anni dopo l’incontro, sarebbe stato costretto a dimettersi dalla carica a seguito delle sue attività illecite legate allo scandalo Watergate.
Elvis & Nixon si fa beffe di quell'incontro, portando in scena l'entrata in sintonia di due personaggi apparentemente lontani, ma in realtà promotori degli stessi discutibili valori tradizionali, radicati nell'odio nei confronti di Woodstock, delle droghe, del comunismo e soprattutto della musica dei The Beatles.
Laureata in Storia e critica dello spettacolo con una tesi sull'evoluzione dell'immagine (anti)divistica di Tomas Milian.
Senza generi preferiti perché mi piace lasciarmi sorprendere. Certo, dovendo scegliere prediligo il thriller ma in realtà uno dei miei registi preferiti è G. Iñárritu.
Mi piace molto spiegare le cose, venero Elio Germano, non amo le certezze e gli estremismi, ho la sindrome dell'impostore e ne vado molto fiera.