Il Cinema di animazione è ed è sempre stato un mezzo attraverso il quale affrontare tanti tipi di esperienze visive quasi senza limiti.
Ciò è reso possibile principalmente dalla facile applicazione delle varie tecniche animate, soprattutto per la capacità di potersi adattare a tanti tipi di narrazione, che vanno dal reale al fantastico.
Tra queste risalta in particolar modo la stop-motion (o tecnica a passo uno) per alcune peculiarità.
[InFétichedi Wladyslaw Starewicz (1933) alcune basi delle marionette erano fatte con fil di ferro e ossa di gallina]
La stop-motion è una tecnica di animazione che consiste nel manipolare i modellini dal vivo e fotografarli ad ogni cambiamento, creando così dei fotogrammi che visti in successione daranno la sensazione di movimento.
L’origine di questo singolare approccio risale già ai primi anni del Cinema: si pensa che il primo film animato con questa tecnica sia un cortometraggio intitolatoThe Humpty Dumpty Circus, datato fra il 1897 e il 1898, corto di cui non si conserva né l’originale né le copie: ciò che sappiamo è che nel film si potevano ammirare delle bambole snodabili simulare i movimenti degli acrobati del circo.
L’utilizzo della stop-motion, all’epoca, si divideva principalmente in due modalità: le produzioni che la utilizzavano per creare veri e propri effetti speciali in film live action e quelle che sfruttavano il "passo uno" nella forma più pura possibile.
Non dimentichiamo poi chi faceva entrambe le cose, come nel caso diArthur Melbourne-Cooper, considerato un pioniere della tecnica.
[Lotte Reiniger divenne famosa per l'uso della tecnica silhouette, una particolare stop-motion cutout dove i ritagli neri dei personaggi risaltano su sfondi colorati]
Nella prima casistica produttiva si può citare l’esempio di Fun in a Bakerydel 1902 - una delle prime, pochissime pellicole sopravvissute realizzate con quella tecnica - o di diversi registi che utilizzarono effetti speciali in stop-motion, tra i quali risalta sicuramenteGeorges Méliès.
Parlando di chi usava la stop-motion per creare effetti speciali, invece, è notevole il tesoro culturale lasciatoci daLadislas Starevich (o Wladyslaw Starewicz), che sperimentava creando scheletri in fil di ferro e altri materiali, tra i più disparati.
Uno dei più famosi lavori dell'animatore e regista russo è sicuramente La lotta dei cervi volantidel 1910, dove la base dei personaggi veniva ricoperta dall’esoscheletro dei coleotteri; per ottenere il movimento desiderato dei soggetti si staccavano e riattaccavano mandibole e zampe con la cera.
Il primo lungometraggio animato completamente in stop-motion (più precisamente in "animazione cutout"), purtroppo perduto per sempre, è El Apóstoldel 1917 diQuirino Cristiani: l’unica copia fu distrutta in un incendio negli archivi di Federico Valle.
Il primo lungometraggio animato con la stessa tecnica ancora esistente (nonché primo nella Storia dell’Animazione in generale) è Achmed, il principe fantastico (1925) di Lotte Reiniger e Carl Koch.
[Galline in Fuga è un esempio di claymation, stop-motion fatta animando la plastilina e simili, molto in voga tra gli anni '70 e '80]
La tecnica mista che unisce live-action e stop-motion fa sempre più strada: nel 1925 arriva Il mondo perduto di Harry Hoyt, basato sul romanzo Arthur Conan Doyle.
Il film presenta i dinosauri animati realizzati da Willis O’Brien che lo porteranno a lavorare anche inKing Kongdel 1933 - ovviamente per la creazione dell’enorme gorilla - e Il re dell’Africa del 1949, vincitore del PremioOscar 1950 per i Migliori Effetti Speciali.
Mentre negli Stati Uniti continuava l’utilizzo della stop-motion principalmente per gli effetti speciali, in altre parti del mondo si faceva sempre più spazio l’idea di un’Arte unica e rappresentativa da costruire attraverso la tecnica passo uno.
Nell'allora Cecoslovacchia, ad esempio, Jiří Trnka riuscì ad attirare sempre più artisti del posto come nei casi di Karel Zeman, Bretislav Pojar e Hermina Tyrlova, dedicandosi principalmente all’innovazione della stop-motion nel campo delle marionette (anche dette "pupazzi") attraverso il memorabile The Czech Year (1947) e a tantissime altre pellicole negli anni a seguire.
[Un film in stop-motion prevede anche la creazione delle scenografie, spesso ricreate concretamente e non in computer grafica, come nel caso de Lasposa cadavere]
Le cose rimasero stabili sino agli anni ’80, periodo nel quale ci fu una vera esplosione creativa dove l’animazione a passo uno si poteva trovare nelle serie TV, nelle pubblicità e nei brevi intermezzi televisivi.
Attualmente la stop-motion gode di un buon panorama, anche se sicuramente non attivo come un tempo, che va da piccole produzioni europee a studi d’animazione particolarmente rinomati e famosi nel mondo.
Due tra i più noti sono senza dubbio Aardman Animations - realtà fondata nel 1972 che lavora principalmente con la claymation e ha prodotto film come Walllace & Gromit, Shaun - Vita da pecora e Robin Robin, il cortometraggio candidato agli Oscar 2022 - eLaika, che dal 2005 fa un ampio uso di tecnica mista tra marionette e CGI e alla quale dobbiamo la produzione di Coraline e la porta magica, ParaNorman, Boxtrolls - Le scatole magiche, Kubo e la spada magica e Mister Link.
[Una serie di volti utilizzati per l'ultimo lavoro della Laika misto stop-motion, claymation e CGI: Mister Link]
Con la stop-motion l'opportunità di creare sempre qualcosa di innovativo, sia per il piccolo sia per il grande schermo, è sicuramente dovuta alla potenzialità infinita dei materiali utilizzabili, che possono essere ferro, vetro, feltro, lana, legno, carta, plastilina: è anche grazie alle diverse soluzioni scelte in fase di produzione che gli spettatori possono riconoscere i vari registi e le case di produzione, attraverso lo stile unico che li va a definire.
Per conoscere meglio questo tipo di animazione, come richiestoci dai nostri sostenitori de Gli Amici di CineFacts.it perquestatredicesima Top 8 Patreon, ecco otto memorabili titoli in stop-motion in rigoroso ordine cronologico!
Grottesco, ermetico, surreale: se dovessi scegliere tre aggettivi per descrivere Alice, primo lungometraggio di Jan Švankmajera lungo inedito in Italia, sarebbero proprio questi tre.
Il regista cecoslovacco utilizza una tecnica mista tra live action e stop-motion per rileggere Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol in chiave surrealista; il risultato è un lungometraggio angosciante, una spirale tanto seducente quanto cupa nella tana del Bianconiglio.
Alice è l'unico essere vivente in carne e ossa, il coniglio è un vecchio animale impagliato che perde segatura e che si rammenda da solo con una spilla da balia, le altre creature sono assemblate con crani, stracci e altri oggetti di scena. Il bruco ad esempio è letteralmente un calzino con la dentiera.
Riassumere Alice risulterebbe tanto inutile quanto controproducente, in quanto l'opera frammentata è uno sguardo sulla dimensione onirica.
La deformazione del corpo e la sensazione di straniamento restituita dalla tecnica in stop-motion accompagnano noi e la piccola Alice in questo mondo da incubo, dove i dialoghi sono ridotti all'osso e sostituiti da rumori distorti.
La colonna sonora stessa dell'opera infatti è costituita principalmente da stridii, crepitii, accartocciamenti, gocciolii, ticchettii.
La mente è un labirinto di difficile comprensione e lettura, ogni svolta nasconde un trauma inespresso, l'inconscio decostruisce e ricompone gli impulsi nei modi più disparati.
In tal senso risulta emblematico l'invito di Alice proprio all'inizio dell'opera, che suggerisce agli spettatori "Dovete chiudere gli occhi, altrimenti non vedrete niente".
Jan Švankmajer è un regista poco conosciuto al grande pubblico - anche a causa della censura subita durante il regime totalitario cecoslovacco - ma che è stato citato come ispirazione da registi molto popolari come Tim Burton e Terry Gilliam.
Per descrivere il suo stile in modo semplice ed efficace possiamo utilizzare le parole di Miloš Forman: "Un incrocio tra Luis Buñuel e Walt Disney".
Nello spettrale Paese di Halloween lo scheletro Jack non è felice: in quella disgustosa terra la preoccupazione più grande è spaventare la gente, mentre Jack Skeletron (Skellington in originale) sogna qualcosa di meglio.
Dietro a una porta incantata e segreta Jack trova un mondo molto diverso da quello buio e tetro a cui è abituato, una realtà scintillante piena di luci e di colori, dove i bambini cantano, ballano, giocano e si lanciano palle di neve al posto dei teschi: è il mondo del Natale.
Folgorato dalla visione Jack ritorna a Halloween per raccontarlo a tutti, ma nessuno lo capisce: a che serve infiocchettare doni che non siano arti mozzati?
Anche se il villaggio non comprende le sue motivazioni profonde, ciò non impedirà a Jack di portare un po’ di spirito natalizio in quel fetido mondo popolato da fantasmi, demoni, zucche e zombi.
Solo chi ha visto il film sa quanto questi due differenti mondi abbiano davvero molto poco a che spartire… o forse no?
Nella versione originale le canzoni sono firmate ed eseguite da Danny Elfman (ottimamente sostituito in italiano da Renato Zero anche nei dialoghi): il film è impostato in modo che i brani siano fondamentali e facciano proseguire lo sviluppo narrativo come nei musical d’epoca.
Nightmare Before Christmas è probabilmente uno dei titoli più noti del regista Henry Selick, nonostante venga spesso erroneamente attribuito a Tim Burton: pur apportando un contributo sostanziale al film specialmente in termini visivi, Burton ha ufficialmente firmato soltanto il soggetto, creato i personaggi e ne è stato il produttore.
13 animatori, 19 set diversi, 230 scenografie e 227 personaggi, oltre a più di 400 teste per il solo volto di Jack rendono Nightmare Before Christmas uno dei film in stop-motion più noti al pubblico.
Un titolo che non poteva mancare in questa Top 8!
Una sola cosa, però, in tutti questi anni non è ancora stata chiarita… Nightmare Before Christmas va visto a Halloween o a Natale?
La community di CineFacts.it si è già espresso in merito; chi scrive invece pensa che entrambe le occasioni siano buone per godere di questo gioiello dell’animazione prodotto nel 1993 dalla Touchstone Pictures.
Matericità e invisibilità: sul filo della relazione, talvolta al limite del paradossale, tra questi due termini si gioca la riuscita di Mary and Max, pellicola d'animazione del 2009.
Mary e Max, protagonisti di plastilina, sono personaggi allontanati dalle proprie coordinate anagrafiche (e cromatiche) - bambina australiana lei, uomo di mezz'età newyorkese lui - ma, al contempo e senza saperlo, avvicinati dalle difficoltà delle rispettive esistenze.
Proprio queste conducono, fortuitamente, alla nascita di un'ultradecennale scambio epistolare tra i due, all'incerto sorgere di un'amicizia tanto essenziale per entrambi quanto fondata, in maniera inevitabile, sull'assenza.
Nonostante la riproduzione tecnica cerchi di sopperire, questi due esseri invisibili al resto del mondo - ma è l'invisibilità fasulla dello sguardo prima giudicante poi distolto, del rimosso - tentano sì di ritagliarsi uno spazio altro, uno spazio emotivo che riesca a forzare, soprattutto nel caso dell'autistico Max, i confini di un'individualità totalizzante; tuttavia, entrambi si ritrovano, giocoforza, a dover affrontare una vita illuminata solo parzialmente dalla corrispondenza e dominata dalla solitudine.
Due percorsi, con differenze sostanziali, di accettazione di sé passano insomma sia per il rapporto con l'altro (perno concettuale anche della parabola secondaria del vicino di Mary) sia per un necessario movimento introspettivo, senza che questo comporti un adeguamento ai canoni di una supposta normalità: in tal senso, l'amicizia epistolare si pone come complesso tassello del fascio di relazioni io/mondo, con l'introspezione ad implicare intanto anche un confronto con la dimensione materico-corporea.
Proprio l'argilla impiegata da Adam Elliot è difatti fondamentale, visto lo stile adottato, per la valorizzazione del nodale concetto - esplicitato - di imperfezione: espressività delle soluzioni materiche e connesse sottolineature registiche disegnano due mondi per niente affini all'idealità ben perseguibile dall'animazione, calandoci in microcosmi anti-idillici, e non è certo casuale la centralità del livello fisico (e corporeo, ad esempio nel momento clou delle lacrime) nella corrispondenza tra Mary e Max.
Le possibilità della claymation sono allora sfruttate al massimo alla luce della dialettica instaurata con quella delicatezza dei sentimenti che, poggiata com'è sull'incorporeo e sulla socialità, funge da calibratissimo contrappunto, permettendo di affrontare una sequela di temi autobiografici assai spinosi con un'insperata brillantezza.
Vi siete appena trasferiti in una nuova casa, lontano dai luoghi che conoscete bene e dagli affetti a cui siete più legati, i vostri genitori non vi danno le attenzioni che vorreste perché presi dal trasloco o immersi nel lavoro che ormai ha spento l’ultimo guizzo di vitalità nei loro occhi.
Vi sentite soli, incompresi e un mondo grigio vi circonda.
Neanche il nuovo vicinato sembra essere troppo entusiasmante: un paio di vecchine ex teatranti e Wybie, un ragazzetto petulante che non smette mai di parlare.
Fortuna che nei paraggi c’è il circo del signor Bobinsky: strambo artista russo dall’eroico passato (come suggerisce la medaglia da liquidatore di Chernobyl appuntata sul petto) che propone spettacoli con i suoi topi ballerini.
Gli stessi con cui assicura di riuscire a comunicare.
In questo tanto desolante quanto assurdo panorama, chi non desidererebbe trovarsi altrove?
Coraline Jones, protagonista del film diretto da Henry Selick (Nightmare before Christmas), vorrebbe di meglio.
Tramite una porta nascosta, scoperta sotto la carta da parati all’interno di casa, Coraline riesce a raggiungere un’altra dimensione, ritrovandosi in un’abitazione simile a quella di partenza ma più colorata e accogliente.
Anche gli abitanti sono esteticamente somiglianti a quelli della sua dimensione d’origine ma, in realtà, sono tutte versioni migliorate di quest'ultimi (con due iconici bottoni al posto degli occhi).
C’è l’Altra Madre che la rimpinza di manicaretti e le concede di fare qualunque cosa desideri.
L’Altro Padre è una mente creativa che dedica alla sua bambina canzoni suonate al pianoforte e composizioni floreali realizzate in un fantastico giardino curato in ogni dettaglio; anche tutto il vicinato è come Coraline l’avrebbe sempre sognato.
Ma la bambina imparerà a sue spese quanto possa avere ripercussioni spiacevoli fuggire da una dimensione in cui ci si sente stretti piuttosto che affrontare la realtà, provando a cambiarla un po’ alla volta.
L’abitudine a rifugiarci in un mondo fantastico potrebbe farci rimanere intrappolati in una realtà che, alla lunga, può finire per trasformarsi in incubo.
Nel film prodotto da Laika Entertainment la stop-motion è funzionale per trasmettere quella costante sensazione di disagio crescente con l’evoluzione della storia.
Inquietudine e turbamento vengono esaltati anche grazie al contrasto tra i colori brillanti e accesi che caratterizzano l’altra dimensione e i tratti fisionomici dei personaggi che lo popolano, progressivamente sempre più duri e spigolosi.
Wes Anderson è tra i registi contemporanei largamente conosciuti e apprezzati dal grande pubblico, visto anche il suo stile più che riconoscibile anche per un occhio non esperto.
Questo ha fatto sì che si parlasse dell'autore americano come di un manierista interessato solo all’estetica e alla forma, nonostante molto nel suo Cinema sia veicolato più dalla scrittura che dalla sola resa visiva, pur essendo quest’ultima così debordante nei suoi film.
In Fantastic Mr. Fox, film co-sceneggiato con Noah Baumbach, questo pensiero diventa lampante: l’importanza della scrittura e la vicinanza tra due autori con stili visivi così differenti si palesa in tutta la sua forza, smascherando così il Wes Anderson nascosto dietro al suo impianto visivo.
In un contesto completamente differente da quello del Cinema di finzione, in cui costi e incastri produttivi pesano sensibilmente meno, si nota quanto il modo di immaginare un racconto di Wes Anderson sia una scelta totalmente naturale e non un vezzo artificioso e modaiolo.
Qui la staticità e l’importanza di ciò che si colloca più vicino alla macchina da presa, il massiccio utilizzo di stilizzazioni visive e cromatiche e tante altre sfaccettature del linguaggio di Anderson sono figlie del mezzo e non solo della volontà autoriale.
È come se il regista deI Tenenbaum vedesse anche le storie con attori in carne e ossa in stop-motion.
Il racconto di Fantastic Mr. Fox è poi l’emblema dei temi del Cinema dell’autore texano: il sentirsi inadatto e non abbastanza di Ash - vero motore della vicenda - è un topos caratteristico, così come l’utilizzo di un ritratto familiare (e dei figli in particolare) come elemento di conflitto per Mr. Fox, castrato tra una carriera abbandonata e una gravidanza inaspettata.
L’incapacità di comunicare, altro tratto fondamentale del Cinema di entrambi gli autori, in un mondo di finzione popolato da animali antropomorfi e parlanti è presente e protagonista su tutti i livelli: dal piano familiare tra i coniugi a quello sociale tra Ash e Kristofferson, da quello narrativo con gli agricoltori a quello finale e simbolico con il lupo.
Il lavoro svolto sull’animazione risulta ancora incredibile a tredici anni di distanza, capace di mantenere la dualità tipica del Cinema andersoniano tra stilizzazione visiva e realtà degli attori traslandola su tessuti e materiali.
Un film che, nonostante arrivi da un regista non esclusivamente d'animazione, difficilmente si può escludere da qualsiasi selezione di film in stop-motion e che nonostante il mezzo è sempre annoverato tra i migliori di Wes Anderson, a riprova della secondarietà del mezzo rispetto al grande lavoro autoriale.
Nato dall’inedito incontro tra la poetica esistenziale diCharlie Kaufmane l’attenzione maniacale dell’animatore Duke Johnson,Anomalisa è un’attenta analisi dell’uomo postmoderno, costretto a vivere nella disperata solitudine mentre il mondo fuori lo invita a sorridere e a godersi la vita.
Il pretesto per indagare l’animo umano è la storia di Michael Stone, un uomo sulla cinquantina, leader motivazionale nel settore dell’assistenza clienti, che deve recarsi a Cincinnati per tenere un'illuminante conferenza.
Il film si lega a numerose chiavi di lettura, arricchendosi di segnali più o meno evidenti che lo spettatore può divertirsi a captare e interpretare.
Come in tutto il suo Cinema, Kaufman si diverte ad inserire allusioni e metafore, a partire dal nome dell’hotel - Fregoli - in cui soggiorna il protagonista, che riprende l’omonima sindrome caratterizzata da delirio di trasformazione somatica.
Michael infatti conduce un’esistenza noiosa e monotona, non percepisce diversità intorno a lui e ogni persona con la quale si relaziona ha sempre lo stesso volto e la stessa voce.
L’incontro fortuito con Lisa, la cui voce sembra finalmente distaccarsi dal fastidioso basso continuo della quotidianità, diventa immediatamente un’occasione per fuggire, ritrovando una felicità perduta e contaminata da rimorsi e rancori.
Un’anomalia del sistema, appunto, che sembra tanto preziosa quanto fragile e destinata a risolversi con un rapido ripristino.
Anomalisa non solo si pone continuamente interrogativi, ma riflette anche sul sentimento di delusione e sulle contraddizioni narcisistiche dell’essere umano.
Michael non è affatto in grado di ascoltare, sa solo parlare di sé, nel dialogo con gli altri percepisce esclusivamente la propria voce e, per questo, trasforma la necessità di evasione in una missione del tutto personale, egoistica e tesa esclusivamente alla risoluzione fallace della sua crisi depressiva.
Il film è esso stesso anomalo all’interno del panorama delle produzioni animate in stop-motion.
La regia utilizza dolly, piani sequenza, campi lunghi e molteplici primi piani rischiando di mettere in luce tutte le imperfezioni e i movimenti imprecisi dei pupazzi.
Il risultato è una stop-motion iperrealistica che, paradossalmente, si unisce al surrealismo del contenuto, facendo dimenticare allo spettatore di trovarsi di fronte a marionette di plastilina.
Le imperfezioni, nella fisicità dei pupazzi e nelle voci che li animano (David Thewlis, Jennifer Jason Leigh e Tom Noonan), sono allora punti di forza: Kaufman e Johnson si focalizzano su sospiri e balbettii, mostrano senza filtri né censure i protagonisti del film e mettono in scena dialoghi e sequenze molto esplicite.
Disponibile in Home video e a noleggio su Chili e Apple TV
La mia vita da Zucchina, al momento unico lungometraggio dello svizzero Claude Barras, rappresenta per chi scrive uno dei migliori film di animazione dell'ultimo decennio.
Realizzato con la tecnica stop-motion o, per maggior precisione, in claymation, l'opera di Barras è incentrata sulla figura di Zucchina, bambino di nove anni portato in orfanotrofio dopo la morte della madre da lui accidentalmente provocata.
Sarà questo l'inizio di una nuova vita, anche grazie all'incontro con Camille, bambina dal passato altrettanto traumatico.
La mia vita da Zucchina è un film destinato a un pubblico trasversale, composto sia dai più piccoli sia dagli adulti: i primi resteranno sicuramente affascinati dall'estetica del film, infantile e colorata ma non per questo banale; i secondi invece rifletteranno sulla società contemporanea che purtroppo presenta innumerevoli casi come quelli di Zucchina, Camille e dei loro compagni d'avventura.
Ribaltando la logica cinematografica che spesso vuole orfanotrofi e istituti per minori come luoghi dall'esistenza difficile, la struttura in cui si ritrova Zucchina dopo la perdita del genitore è invece accogliente e foriera di elettrizzanti novità, una palestra di vita in cui poter sperimentare per la prima volta legami d'amicizia e sentimenti d'amore.
Questo lungometraggio dalla durata contenuta (appena 66 minuti) è anche l’occasione per ricordare una verità che in alcuni contesti culturali non è ancora data per scontata: genitore non è chi semplicemente mette al mondo un figlio, ma chi lo cresce e gli presta attenzioni.
Il legame biologico non sempre corrisponde al legame affettivo e i bambini protagonisti del film lo imparano a proprie spese.
Il merito per la buona riuscita del film è anche la sceneggiatura alla quale ha principalmente contribuito Céline Sciamma, conosciuta per la regia del film Ritratto della giovane in fiamme, uscito in sala tre anni dopo La mia vita da Zucchina.
Sciamma ha saputo bilanciare con maestria dramma e commedia: se in alcuni momenti si sorride davanti ad alcune simpatiche gag (come i gavettoni al poliziotto Raymond progettati da Ahmed), in altre scene i toni della storia diventano seri e malinconici al punto che non commuoversi potrebbe rivelarsi alquanto difficile.
Presentato al Festival di Cannes 2016 con successo, candidato ai Premi Oscar 2017 senza tuttavia vincere la statuetta, La mia vita da Zucchina è un delicato racconto di formazione che a mio avviso andrebbe proiettato anche nelle scuole.
L’animazione spesso viene utilizzata come mezzo per raccontare il fantastico, l’assurdo, qualcosa di intangibile per l’uomo, ma può essere anche un enorme strumento di denuncia, attraverso il quale mostrare una realtà particolarmente cruda e terribile.
Su questo concetto si poggia la base che spinse i due artisti Cristóbal Leóne Joaquín Cociña a girare The Wolf House (titolo internazionale di La Casa Lobo), presentato alla 68ª edizione della Berlinale.
Il film si apre con un finto documentario girato in live action con toni allegrissimi che mostra un luogo idilliaco, una colonia cilena guidata da un leader giusto, in cui i pochi abitanti tedeschi e autoctoni vivono in armonia tra loro.
Successivamente parte un racconto animato in tecnica tradizionale in cui viene spiegata la storia della protagonista Maria, una giovane ragazza che fugge da un grande pericolo: un lupo.
Maria si rifugia in una casa nel bosco - luogo dove la rappresentazioe comincia a dividersi tra disegno animato e prevalenza di stop-motion - venendo accolta da due maiali, di cui si prenderà cura così amorevolmente da farli trasformare in bambini.
Maria sarà comunque costretta a vivere il resto della sua vita tormentata dal lupo, godendo raramente di brevi attimi di serenità.
Per quanto la storia possa sembrare una breve fiaba dark, il soggetto è limpidamente tratto da un caso storico specifico, anche se la cosa non viene in alcun modo esplicitata.
È la fine della Seconda Guerra Mondiale e al sud del Cile nasce La Colonia Dignidad, adesso nota come Villa Baviera, un insediamento sotto il controllo del leader tedesco Paul Schäfer.
Quello che sembra un luogo utopico e perfetto è solo un incubo: oltre allo sfruttamento per il sostentamento, venivano attuate brutali torture e abusi anche su minori.
Nessuno poteva uscire ed entrare liberamente dalla colonia: i bambini venivano strappati dalle loro famiglie e persone di ogni età sottostavano a divieti sempre più pressanti.
La pellicola non è, come già accennato, una ricostruzione storica perché l’obiettivo non è mostrare l’orrore in modo diretto.
La stop-motion qui è il mezzo per evidenziare una realtà psicologica dolorosa, in cui Maria racconta la sua vita con voce rotta e, attraverso l’uso di tanti materiali diversi, si disgrega e si riunisce con la casa e i suoi altri abitanti in riprese sempre più anguste, momenti orrorifici e visioni claustrofobiche, seguite dall’angosciante voce del lupo.