Qualsiasi bravo storyteller è consapevole di come l’uomo abbia a disposizione una manciata di storie da strutturare, destrutturare e inquadrare e di come sia la Storia dell’essere umano sia la sua evoluzione lungo essa possa dare origine agli umori che generano nuovi temi.
La preziosa eredità drammaturgica di William Shakespeare è base e oggetto di rivisitazione per molti autori ancora oggi, ma sono piuttosto sicuro che l’epoca e il talento del Bardo non gli avrebbero mai permesso di scrivere una storia come quella raccontata da Leidi Spike Jonze o di Se mi lasci ti cancellodi Charlie Kaufman.
Quando nel 1897 H.G. Welles comincia la pubblicazione di La guerra dei mondi, più avanti recitato alla radio da quel geniaccio di Orson Welles, usa l’alieno, forma estrema dello straniero e dell’invasore, come metafora per raccontare l’oppressione dell’imperialismo britannico.
Tuttavia, sarà verso gli anni ‘50 che la science-fiction fatta di dischi volanti avrà una sua esplosione diventando fenomeno di massa, e saranno una serie di avvenimenti a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale a trovare in questo tema un nuovo filone.
Proprio durante il conflitto alcuni piloti alleati e dell’asse hanno lasciato testimonianze di “palle di luce infuocate” nei cieli sopra l’Europa, attirando l’attenzione di Winston Churchill, conscio però di come l’uomo non avesse bisogno di altri orrori a cui pensare.
L'incidente di Roswell del 1947 coincide con i primi vagiti della Guerra Fredda e del conflitto ideologico che avrebbe portato Stati Uniti e Russia a combattere per la conquista di una nuova frontiera: lo Spazio.
Ultimatum alla Terra del 1951 di Robert Wise e L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, tratto dal romanzo di Jack Finney, nascono proprio dalle suggestioni della Seconda Guerra Mondiale, della bomba atomica e del conflitto ideologico con la Russia.
“Planet Earth is blue and there’s nothing I can do”, avrebbe cantato David Bowie in Space Oddity - singolo rilasciato nel 1969, stesso anno dell’allunaggio - generando poi con Ziggy Stardust un alter ego figlio di una certa poetica.
Vedere il Pianeta Terra dallo spazio ha dato al genere umano una nuova prospettiva riguardo la sua Storia e la sua permanenza su questo pianeta (quando si dice guardare le cose da una certa distanza), ma il mito dell’alieno è divenuto fenomeno pop e lo spazio come ultima frontiera arriva in televisione come nel Cinema; seppur privo di alieni, sembra giusto citare 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.
L’alieno è poi diventato velocemente un mostro di puro intrattenimento, inseguendo le febbrili suggestioni di Roswell, della Battaglia di Los Angeles del 1942, del rapimento di Betty e Barney Hill del 1961, come di altri eventi mediatici di enorme risonanza: vedi l'abduction di Travis Walton del 1975, che nel 1993 avrebbe ispirato il film Bagliori nel buio.
[Il rapimento di Travis Walton non ha solo generato un bel film sul tema ma è stato prima di tutto un fatto di cronaca piuttosto rumoroso]
Il catastrofico Plan 9 from Outer Space di Ed Wood, poi divenuto film cult, ne è esempio.
Tanto quanto il Mars Attacks! di Tim Burton, commedia nera basata sulle carte collezionabili diventate famose negli anni ‘60 e parte dell’infanzia del regista californiano.
Burton è anche lo stesso che si dedicò al biopic Ed Wood, dedicato al regista e alla produzione di Plan 9 from Outer Space.
In circa una decina di anni, tra “fatti” e mito, si sono mosse le origini della poetica dedicata a UFO e alieni, offrendo un trampolino di lancio a registi ora divenuti miti viventi.
Steven Spielberg nel 1977 porta al cinema Incontri ravvicinati del terzo tipo e racconta l’alieno come nessuno aveva mai fatto prima, affascinando persino François Truffaut, coinvolto nella produzione come interprete.
Il tema è cambiato, i tempi e la Storia dell’Umanità si sono spostati e anche il rapporto con gli omini verdi è diventato più romantico e meno conflittuale.
Esiste però anche la poesia del terrore e nel 1979 Ridley Scott e Dan O’Bannon con Alien facevano dell’alieno una figura terrificante, associando alle profondità dello spazio una vuota giungla fredda e ostile nella quale è inutile urlare.
E.T. l’extra-terrestre, del 1982, bis di una certa rilevanza del buon Steven Spielberg, crea invece una favola per tutti, facendo dell’alieno un personaggio quasi disneyano.
Le penne della fantascienza hanno trovato nell’alieno un nuovo mostro utile all’intrattenimento come affascinante strumento per veicolare paure, pregi e incertezze dell’animo umano.
Su indicazione degli Amici di CineFacts.it, che hanno votato il tema della Top 8 di questo mese, ci siamo avventurati verso lo spazio, l’ultima frontiera, per cercare 8 alieni protagonisti di 8 interpretazioni particolari sul grande schermo.
L'adattamento dell’omonimo romanzo di Walter Tevis divenne un cult grazie alle scelte di messa in scena del regista Nicolas Roeg, surreali e spesso tendenti al lisergico e sempre più diffuse nel Cinema di quell'epoca, ma soprattutto grazie alla prima apparizione come protagonista di David Bowie.
Dal 1963 di Space Odissey al 1972 di Ziggy Stardust, Bowie aveva portato a coronamento parte del suo lavoro artistico riguardo l’evoluzione della sua personalità scenica.
Ziggy Stardust era una rockstar aliena dai tratti androgini, venuta sulla Terra dopo un disastro che aveva colpito la sua civiltà, portando un messaggio di pace e speranza.
Nel 1972 uscì infatti il singolo Starman, nel quale Bowie canta “There's a Starman waiting in the sky / He'd like to come and meet us / But he thinks he'd blow our minds” e così per certi versi è stato, quando nel 1976 arrivò nei cinema L’uomo che cadde sulla Terra.
L’umanità ha visto la Terra dallo spazio e l’alieno ha smesso di essere un mostro, divenendo figura pop che, esattamente come Bowie e il protagonista da lui interpretato, diventa oggetto seducente e di desiderio sessuale, considerando molte fantasiose testimonianze di incontri ravvicinati.
L’androgino Ziggy si sovrappone perfettamente al Thomas Jerome Newton protagonista del film, caduto dal cielo del New Mexico per ammaliare il mondo con le sue avveniristiche visioni tecnologiche, misterioso Englishman tanto delicato e schivo quanto puro nei suoi intenti e nella sua curiosità verso la razza umana.
Sostanzialmente è un ennesimo doppio di Bowie.
È un alieno affascinante, ambiguo, portatore di una profonda umanità così simile alla nostra da lasciarlo inerme e privo di rancore quando l’essere umano lo attacca con le ataviche suggestioni da uomo delle caverne spaventato dal fuoco.
L’alieno non è propriamente candore, ma quasi specchio di come l’Età Umana sia capace di corrompere ogni animo, anche quello di un viaggiatore in missione per salvare la propria casa e la propria famiglia.
Nei primi minuti di Starman il regista presenta al pubblico la protagonista Jenny impegnata nel guardare un filmino familiare sul defunto marito Scott: nel farlo, per comporre un'inquadratura assai significativa Carpenter non dimentica di includere il proiettore, quell'aggeggio in grado riattualizzare il passato e di infondervi, per qualche istante, nuova vita.
Non la stessa vita, però, anche alla luce dell'inevitabile limitatezza dell'illusione filmica.
In un soggiorno ormai sgombro giunge poi un alieno che interagisce col proiettore, ma che sfoglia anche un album fotografico, sprovvisto di movimento e dunque sprovvisto di vita.
Più che al movimento di cui è già dotato, l'essere che non ha corpo - come le ombre cinematografiche - e che viene dalle stelle provviste di luce propria, si interessa a uno dei tratti comuni, oltre proprio al ruolo della luce, tra Cinema e fotografia: la possibilità di catturare e riprodurre i contorni percettibili delle cose.
Così, sotto gli occhi di un'incredula Jenny, si tramuta in Scott o, meglio, ne copia/clona solo l'esteriorità.
Pare Scott ma non è Scott, alterità (dell'alieno) ribadita di continuo lungo tutto l'arco del film, dalle stranezze comportamentali di questo doppelgänger convocato sul suolo terrestre proprio dagli umani.
Il percorso di elaborazione del lutto della giovane donna, oltre ad intrecciarsi a quel percorso da road movie che costituisce invece una della altre sfumature "di genere" di Starman, si gioca allora sia in relazione alla svolta sentimentale della pellicola sia sul filo dei rapporti - interpretabili in diverse maniere e, in ogni caso, estremamente importanti per il mezzo Cinema - tra interiorità ed esteriorità.
Con degli esiti, come quasi sempre nel caso di John Carpenter, non liquidabili con eccessiva fretta.
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Immaginate di essere seduti al bar e di incontrare un alieno in grado di bere, fumare e comunicare con voi, impartendovi delle istruzioni.
David Cronenberg, ispirato dal romanzo di William S. Burroughs, ha portato in scena questa esatta situazione ne Il pasto nudo, uno dei suoi lavori più folli e complessi.
Bill Lee, il protagonista del film interpretato da Peter Weller - che altro non è che un alter ego fittizio dello stesso Burroughs - si imbatte in questa assurda dinamica poco dopo che il film ha cominciato a intraprendere la propria contorta strada verso l'assurdo.
La peculiarità della scelta, ovverosia quella di immergere un alieno in un contesto pienamente naturale come un bar, umanizzandolo e rendendolo invisibile a tutti i presenti, ci permette di comprendere subito dove si stia dirigendo la narrazione: non siamo in un contesto fantascientifico, ma in un limbo della mente del protagonista, ormai subissata dalla propria pazzia.
Questo alieno parlante - solo una delle tante creature deformi e ripugnanti che comunicano con il personaggio principale lungo lo svolgimento della sgangherata trama del film - trova la propria forza straniante non solo nella rappresentazione graficamente naïf e nei tratti eccessivamente umani di cui è ammantato, ma anche nel contrastante senso di calma con cui parla della miseriosa Interzona al nostro protagonista.
Un vero e proprio agente segreto all'interno di un film di spionaggio. Peccato si tratti di un alieno e che la missione in questione parta da presupposti tanto lisergici quanto sanguinosi, che vi lascio scoprire guardando il film, senza svelarvi nulla.
In fondo, in quest'opera, l'alieno messo in scena altro non è che il preludio della nascita di un altro alieno: il protagonista, sempre più estraneo rispetto al mondo.
Se cercavate una creatura in grado di incarnare la completa alienazione dell'essere umano rispetto al proprio contesto di riferimento, l'avete trovata.
A portarla in scena non poteva che essere il genio di David Cronenberg.
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È il 1962 e la Topps decide di inserire nei pacchetti di gomme da masticare una serie di figurine, in omaggio al tema fantascientifico-catastrofico, raffiguranti grottesche e spietate invasioni aliene.
Circa 30 anni dopo Tim Burton, affascinato dai disegni di Norman Saunders, sceglie di portare sul grande schermo la fisionomia di quelle creature, commissionando la loro realizzazione digitale alla Industrial Light & Magic di George Lucas.
I marziani di Mars Attacks! sono i protagonisti di una commedia nera che, vivendo all’ombra del titano Independence Day uscito lo stesso anno, si definisce anzitutto come un’irriverente parodia disfattista.
Attingono ai B-movie fantascientifici anni ‘50 - già omaggiati da Burton in Ed Wood, biopic sul celebre regista responsabile di una serie di anti-cult come l’anarchico Plan 9 from Outer Space - ma rappresentano più che altro un gigantesco fuck off verso la concezione di blockbuster di successo.
Gli alieni burtoniani sono infatti in grado di disintegrare senza alcuna remora le più grandi star di Hollywood, seminando caos nel modo più divertente possibile e bullizzando non solo il concetto di potere, insediato nelle più alte istituzioni nazionali, ma anche le aspettative di un pubblico esaltato davanti a un cast tanto autorevole.
Queste subdole creature sequestrano esseri umani per esperimenti nonsense solo per il gusto di riderci sopra, si intrufolano nelle Casa Bianca sotto forma di femme fatale, masticando chewing-gum al sapore di azoto, riscolpiscono al laser in volti marziani le effigi dei presidenti sul Monte Rushmore e sbeffeggiano l’intera Storia dell’Uomo, abbattendo tutti i suoi imprescindibili punti di riferimento.
Lo scenario è quello di un consumismo imperante e di una specie convinta che la diplomazia sia un atto di reale solidarietà e non un modo più gentile di imporre il proprio dominio.
L’alieno di Mars Attacks! è dunque l’occasione per deridere il genere umano che, issando con orgoglio la propria bandiera, si è convinto di potersi avvalere del diritto di proprietà sul Pianeta Terra.
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Nato in laboratorio come Esperimento 626 per mano del professor Jumba Jookiba, Stitch è un alieno creato per distruggere: non rispetta le regole, non riconosce alcuna autorità e, per questo, viene condannato a essere esiliato dal suo pianeta di origine e spedito verso un asteroide deserto.
Le cose però vanno diversamente e, dopo una serie di peripezie, Stitch atterra sul pianeta Terra, in una piccola isoletta dell’arcipelago hawaiano.
Stitch non è esattamente ciò che di più comune si possa trovare nel mondo naturale terrestre: pelle bluastra, due gambe e quattro braccia, antenne, occhioni neri e orecchie enormi, artigli per arrampicarsi ovunque e, soprattutto, forza e resistenza spaventose.
Per scappare dalle grinfie di Jumba e dell’agente Pleakley, incaricati di catturarlo per riportarlo nel desolante luogo dell'esilio, Stitch muta forma così che possa essere scambiato per un normale cane terrestre.
È così che nel canile del villaggio avviene l’incontro con la dolce Lilo, bimba tanto desiderosa di avere un amico con cui trascorrere le proprie giornate che, alla fine, decide di adottare Stitch.
Esteticamente e culturalmente lontani anni luce, Lilo e Stitch sono in realtà due animi affini: per tragica fatalità, o per genetica, entrambi soffrono la mancanza dei genitori, vengono considerati dei diversi, scherniti e cacciati dai loro simili come fossero brutti anatroccoli.
Hanno imparato a sopravvivere alla solitudine ma, con il tempo, dopo liti, dispetti e incomprensioni, scopriranno quanto sia importante per entrambi la presenza dell’altro nella propria vita.
L’istinto distruttore di Stitch viene col tempo subissato dall’affezione per Lilo e dalla voglia di far parte della sua ohana (famiglia) ma, in quanto alieno, l’esserino dovrà dimostrare quanto anche un esperimento come lui possa essere capace di amare e, in fondo, come non sia così diverso da chi ha solo due braccia e la pelle di un colore diverso dal suo.
Si può attraversare lo spazio e il tempo senza muoversi di un passo?
Questo film indipendente di Richard Schenkmanfa parte di quelle produzioni che si consumano interamente in una stanza, con una manciata di attori e con un forte concept a sostegno della sceneggiatura.
Questo è riassumibile in "una conversazione fra intellettuali"; l'argomento trattato: "Se supponessimo che un uomo dal Paleolitico fosse sopravvissuto fino ai giorni nostri e potesse parlarci, come potrebbe dimostrare di essere davvero chi dice di essere?
Cosa potrebbe raccontare? Quali punti oscuri della Storia potrebbe confutare? Come dovrebbe sentirsi ad aver vissuto così a lungo e ad aver visto così tanto mondo?".
A discutere: un biologo, una teologa, un archeologo, un antropologo, un medico e una studentessa.
Un film affascinante per le speculazioni storico/scientifiche/religiose che solleva con un linguaggio chiaro e asciutto.
Piccolo, inevitabile spoiler: l'uomo del Paleolitico di cui il gruppo di amici discute si chiama John Oldman, ed è con loro in quella stanza.
Ebbene sì: è proprio quando il protagonista rivela la sorprendente realtà della sua condizione che le reazioni dei colleghi accademici si fanno fredde e quasi scandalizzate, anche quando poco prima sembravano porsi in maniera divertita rispetto all'esperimento mentale proposto dall'amico e collega.
John viene quindi subito ostracizzato e si percepisce repentinamente un'immensa distanza con il resto del gruppo.
Il film ci consente di capire che per essere alieni non occorre provenire necessariamente da un altro pianeta e che, spesso, sottintendiamo che basti provenire da una regione dello spazio (o del tempo!) molto diversa dalla nostra per percepire una distanza, è il caso di dirlo, siderale, con chi abbiamo di fronte.
Le fattezze di John Oldman (nomen omen) non hanno nulla che apparentemente lo possano distinguere da un uomo del 2000, acculturato e degnamente inserito nella società contemporanea.
Nel suo sguardo si percepisce però quella vena di tristezza di chi sa di provenire da altrove e di non poter condividere pienamente se stesso: una vena malinconica che accomuna molte delle rappresentazioni di alieni lungo tutta la Storia del Cinema e che ci apre senza dubbio al timoroso e critico sguardo su di loro, ma al contempo anche a una tiepida empatia che travalica le specie.
Tra gli alieni più famosi e intriganti degli ultimi anni di Cinema ritroviamo sicuramente i Na’vi, protagonisti di Avatar.
Il film è uno dei progetti più complessi e particolari di James Cameron, che ha cercato di non tralasciare i dettagli, ove probabilmente non ne esce vincitrice la narrazione quanto la creazione di un character design e di un world building indimenticabile.
I Na’vi sono degli elegantissimi esseri umanoidi dal corpo longilineo e blu, alti circa tre metri, con una lunghissima coda che permette loro una connessione spirituale diretta con il proprio pianeta, Pandora.
Sorvolando sulla raffinatezza delle scelte di design affidate a Stan Winston, sono diverse le cose che subito risaltano durante la visione del film.
È interessante lo studio e la ricerca svolti per dare a questi esseri, sotto ogni punto di vista, un tipo di considerazione molto vicina a quella antropocentrica.
Considerando principalmente gli aspetti politici, culturali, sociali e religiosi, quel che ne risulta è una società avanzata per quanto concerne gli aspetti legati principalmente allo sviluppo cognitivo e, allo stesso tempo, quasi paleolitica nei comportamenti e nello stile di vita.
Il rapporto tra di loro è simile a quello delle tribù o dei clan, nei quali vi è un capo al comando e centinaia di sottoposti, che si coalizzano o si combattono a seconda del momento storico.
Questi gruppi disseminati su tutto il pianeta abitabile sono guidati da Eywa, un essere intangibile che permea spiritualmente il suolo di Pandora, che sembra avere una connessione con i propri abitanti e il cui obiettivo è mantenere ogni cosa perfettamente bilanciata.
Degna di nota anche la lingua artificiale sviluppata da Paul Frommer, un professore americano con un dottorato in linguistica, che ne ha creato la grammatica basandosi sugli elementi del linguaggio verbale umano, sviluppando oltre mille parole.
E se arrivasse un alieno, cosa penserebbe di tutto ciò?
Tanti ragionamenti partono dalla stessa premessa di Under the Skin, film del 2013 ispirato al romanzo omonimo di Michel Faber.
Il terzo lungometraggio di Jonathan Glazer è un oggetto criptico, figlio di un autore chiaramente abituato a forme mediali più visive, estetizzanti e irrazionali come i videoclip e gli spot pubblicitari che hanno segnato gran parte della sua carriera.
Tutta l'abitudine del regista inglese a linguaggi audiovisivi vicini, ma non sovrapponibili, al Cinema narrativo si nota perfettamente nelle pieghe di Under the Skin: l'intero comparto visivo è fortemente ispirato a quell'universo estetico e crea un connubio unico, nel film presentato alla Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Il film racconta il vagare di un'aliena nella periferia scozzese, tra le violenze e le scoperte di un mondo nuovo.
Scarlett Johansson, che interpreta l'extraterrestre protagonista di questo viaggio, è un'osservatrice esterna, un oggetto avulso dal contesto che vaga all'interno di un mondo non suo cercando di comprenderne la più intima composizione e di insinuarsi nelle sue pieghe.
Tutto questo mentre impara a conoscere la maschera da essere umano che sta indossando: una pelle rubata alla vittima di un incidente.
L'attrice statunitense, in uno dei progetti più interessanti e atipici della sua carriera, si troverà a vagare tra momenti di fiction e di realtà: alcune delle scene di interazione con la gente per strada sono infatti reali.
Durante questa ricerca l'aliena indagherà anche la natura degli esseri che abitano questa pianeta a lei sconosciuto e proprio mentre - in maniera estremamente simbolica - scoprirà l'universo della sessualità, si ritroverà a fare i conti con la più intima pulsione dell'essere umano: la violenza.
In un film in cui percezioni e immagini prendono il sopravvento sulla narrazione, Glazer riesce a costruire perfettamente uno sguardo esterno e glaciale sulla bestialità umana.
Il tutto mentre offre allo spettatore un'interpretazione fatta di simboli, immagini e suggestioni del mondo circostante: tutto attraverso il filtro degli occhi di un alieno.
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