Partire per un viaggio senza conoscere la meta, da soli o con dei compagni che magari conosciamo appena, il motivo può essere qualsiasi oppure nessuno: certamente sappiamo che non torneremo più quelli di prima.
Da un punto di vista cinematografico i viaggi on the road si prestano benissimo a narrare vicende che ci riguardano da vicino, sebbene i protagonisti dei film in questione abbiano una vita diametralmente opposta alla nostra; questo perché quasi chiunque di noi può essere in grado di mettersi uno zaino sulle spalle e iniziare a camminare.
A chi non è venuta voglia, dopo aver finito di vedereI sogni segreti di Walter Mitty, di partire per l’Islanda e vedere con i propri occhi le meraviglie di quella terra?
O magari di viaggiare per colmare un vuoto interiore e ritrovare una serenità che ci mancava da tempo, come accade al protagonista de Il cammino per Santiago?
[CineFacts su I sogni segreti di Walter Mitty direttamente dall'Islanda]
Il road movie può anche rivelarsi un atto di ribellione nei confronti di qualcosa o di qualcuno, quel che è certo è che spesso alla base di una fuga vi è sempre un movente.
Il viaggio allora assume anche una connotazione politica e sociale per fotografare - in senso figurato e non - la nostra società, mettendo a nudo ogni ipocrisia dell’epoca in cui il film è ambientato.
Tre viaggi a loro modo invidiabili, colmi di tappe e personaggi indimenticabili, ma che alla base trasmettono una ribellione interiore trascinante, specchio e anima di un modo di vivere che ci opprime costantemente.
[Geena Davis eSusan Surandon nei panni di due icone generazionali]
La Storia del Cinema ci ha insegnato a vivere delle avventure inimmaginabili, assaporando profumi di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza o ammirando paesaggi che ci hanno fatto pensare almeno una volta
“Nella mia prossima vacanza voglio assolutamente visitare quel posto.”
Tramite questa Top 8 scelta dagli Amici di CineFacts.itla nostra redazione vuole aiutarvi a mettere nuove X sulla vostra mappa dei viaggi futuri.
Percorrendo assieme a voi la strada che ha reso imperdibili questi 8 stupendi Road Movie.
Qui su CineFacts.it offriamo ogni giorno approfondimenti, contenuti di qualità, news sempre verificate e curiosità.
Vuoi aiutarci nella nostra battaglia?
Questa Top 8 è stata scelta dai nostri Patreon! Vuoi partecipare alla prossima decisione? Vuoi ricevere tanti contenuti esclusivi oltre ad entrare nel già mitico Gruppo Telegram?
Jacques Tati ha dedicato la maggior parte della propria carriera cinematografica, quantitativamente scarsa ma qualitativamente superlativa, alla problematizzazione - in senso sia astratto che concreto - del concetto di modernità, troppo spesso inteso alla stregua di quelle "magnifiche sorti e progressive" già dileggiate da Giacomo Leopardi.
Olivier Assayas, nell'evidenziare con efficacia che "la curva che conduce daGiorno di festa[primo lungometraggio di Tati, ndr]aPlaytime[penultimo lungo per il Cinema, ndr]è quella che conduce il mondo antico al mondo moderno", accantona volutamente Monsieur Hulot nel caos del traffico, opera del 1971 che risulta infatti essere una sorta di passo indietro, almeno per certi versi, rispetto alla precedente.
È soprattutto il drastico calo del budget determinato dall'insuccesso al botteghino di Tempo di divertimento a frenare le ambizioni di Tati, autore (incoronato anche dai Cahiers du Cinéma) ben in grado di tradurre su pellicola la propria visione estetica e la propria Weltanschauung.
In grado inoltre, per nostra fortuna, di trasformare le inevitabili ristrettezze economiche in premesse per un film sì meno scintillante dal punto di vista tecnico, ma al contempo più personale, in ogni caso inserito alla perfezione nel proprio percorso cinematografico e filosofico.
Il mito dell'efficienza anziendalistica di matrice statunitense bersagliato in Giorno di festa, mito che cominciava a insinuarsi nelle pieghe (mentali) della società occidentale, viene sostituito - citando Il Morandini - dal "mito dell'automobile", così come l'automobile stessa rimpiazza la bicicletta, riproponendo in scala minore il crescente e criticabile processo di urbanizzazione.
Monsieur Hulot, personaggio evoluzione di Buster Keaton, viene difatti incaricato dalla casa automobilistica Altra di progettare una macchina iper-moderna e iper-accessoriata per campeggiatori, in vista di un'esposizione ad Amsterdam.
Realizzato il prototipo, un camion e due vetture lasciano Parigi alla volta della mostra, imbarcandosi in un viaggio che sarà funestato da un'interminabile, comica, surreale (e obliquamente autoriflessiva) sequela di imprevisti.
Il film si trasforma così in un road movie che definire atipico sarebbe eufemistico, e che spicca grazie alla sua ambigua compattezza estetica, nel senso di interazione tra forma e contenuto: il protagonista come di consueto non è drammaturgicamente convenzionale, lo è persino meno rispetto al passato e le singole gag e linee narrative/stradali sono ricondotte con chiarezza - una chiarezza legata a quella che François Truffaut chiama "unica, assoluta autorità" creativa da parte di Tati - a un disegno più ampio, per nulla schematico.
In tal maniera si sostanzia la definizione del non-protagonista Hulot da parte di André Bazin, che lo ha bollato come essere dell'esistenza (di celluloide) solo parziale, come "velleità ambulante", una velleità mai così tanto immersa nel caos - in termini diretti e indiretti - in vent'anni di vita filmica, immersa nel caos del traffico.
È il 1957 quando Charles Starkweather e Caril Ann Fugate - rispettivamente di 19 e 14 anni - uccidono 11 persone durante una fuga attraverso gli stati del Nebraska e del Wyoming.
Terrence Malick decide di ispirarsi a questa storia di feroce e (apparentemente) immotivata violenza per il suo primo lungometraggio La rabbia giovane (1973), di cui è regista, sceneggiatore e produttore.
Attraverso i volti degli allora sconosciuti Martin Sheen (Kit) e Sissy Spacek (Holly), Malick ci consegna dei novelli Bonnie e Clyde privandoli, però, sia della componente romantica che di quella sociale.
C’è senza dubbio un atto di ribellione alla base del film e del genere del road movie in generale: basti pensare all’uccisione del padre di Holly e all’incendio della casa, simbolo del rifiuto della tradizione rappresentata dalla famiglia, dall’etica lavorativa e dalla stabilità economica della classe media.
Tuttavia, la serie di omicidi che scandiscono la loro fuga attraverso le Badlands - terre ostili situate tra il South Dakota e il Montana - non sono tanto uno strumento di critica sociale, quanto delle azioni meccaniche dettate dal paesaggio “cattivo” che li circonda.
È interessante notare come la traduzione italiana del titolo del film La rabbia giovane ponga l’accento sull’atto di ribellione mentre l’originale Badlands sottolinei l’importanza del paesaggio, esaltato dalla fotografia mozzafiato di Tak Fujimoto, Stevan Larner e Brian Probyn.
Negli illustri precedenti della pellicola – a partire dal celeberrimo romanzo di Jack Kerouac Sulla strada (1955) fino a Easy Rider di Dennis Hopper (1969) – il viaggio rappresenta il rifiuto delle convenzioni sociali e, inoltre, si porta dietro gli strascichi della letteratura western e di frontiera americana, in cui la natura selvaggia simboleggiava i dissidi interiori dell’animo umano e la via per ritrovare se stessi.
Ne La rabbia giovane è possibile individuare questi elementi, ma è essenziale notare il nichilismo alla base delle azioni dei protagonisti, riflesso nel voice over piatto e indifferente di Holly e nella serie di omicidi che si susseguono in maniera automatica e casuale, guidati da un determinismo che porterà inevitabilmente a un destino già segnato in cui si ristabilirà la supremazia della società conservatrice.
Secondo David Laderman - autore di Driving Visions: Exploring the Road Movie (2002) - La rabbia giovane è un film di transizione, che delinea il cambiamento culturale dal romanticismo all’ironia, da una visione moderna a una postmoderna.
Il film, dunque, non articola le motivazioni dei personaggi, né il contesto sociale – ad eccezione della disoccupazione di Kit – e preferisce focalizzarsi sull’immagine invece che sull’aspetto politico; una scelta che si riflette anche nei pochi e vacui dialoghi tra i protagonisti, vere e proprie parodie di James Dean e di una ragazza delle praterie, vuoti burattini manovrati dalla Natura, perfida e meravigliosa.
Disponibile su Chili, Apple TV+, Google Play Store e Amazon Prime Video.
Talvolta, nel corso della nostra vita, siamo costretti a effettuare una scelta in tempi strettissimi sospinti dai nostri valori, scendendo in strada alla ricerca di qualcosa che neanche conosciamo.
È questo il concetto alla base di Dov'è la casa del mio amico?, terzo film del maestro iraniano Abbas Kiarostami, ispirato alla poesia di Sohrab Sepehri "Dov’è la Dimora dell’Amico".
Ed è proprio quel che succede al giovanissimo Ahmed che, a 8 anni, si ritrova a intraprendere inconsapevolmente uno dei viaggi che lo formeranno come essere umano.
Dopo una giornata a scuola, nel corso della quale il maestro ha minacciato di espellere il suo compagno di scuola Mohamed Reza Nematzadeh a causa delle troppe inosservanze, Ahmed torna a casa e trova nella cartella il quaderno del suo amico.
Per evitare che Mohamed Reza subisca la gravosa punizione Ahmed deve riportaglielo, ma non sa dove abiti l'amichetto: l'unica informazione a sua disposizione è che la casa si trova nel villaggio accanto al suo.
Dopo aver provato a parlarne con i genitori e alcuni adulti, tutti completamente sordi alle sue richieste, il giovane protagonista decide di incamminarsi a piedi alla volta del villaggio confinante.
Il giovanissimo protagonista del film si ritrova così a compiere un viaggio On the Road apparentemente ristretto nei tempi e negli spazi, ma in realtà sconfinato dal punto di vista morale.
Colmando ben due volte a piedi la distanza che separa i due villaggi, percorrendone i sentieri scoscesi e orientandosi tra quelle viuzze, Ahmed ha modo di scoprire le varie stagioni della vita.
A soli 8 anni deve scontrarsi con l'ottusità degli adulti per cui l'infanzia è sacrificabile sull'altare degli obblighi e del lavoro, confrontarsi con i volti talvolta burberi e talaltri bonari dell'anzianità, fronteggiare la necessità di orientarsi man mano che la notte si avvicina.
Dietro la scelta del bambino vi è solo purezza, il sacrificio del proprio tempo e della propria possibilità di svolgere comodamente i propri compiti a casa in nome dell'amicizia. Compiendo la prima scelta autonoma ella sua brevissima vita Ahmed compie il più invidiabile dei viaggi on the road, quello alla ricerca dei valori
Dov'è la casa del mio amico? rappresenta un momento di svolta nel Cinema di Kiarostami, che da questo momento in poi sarà sempre più caratterizzato da gesti all'apparenza semplici e viaggi alla ricerca di risposte morali.
Come spesso avverrà infatti, anche in opere ben più note di questa dell'autore iraniano, il percorso di Ahmed disegna curve che assecondano il profilo delle colline iraniane e simboleggiano le traiettore tutt'altro che lineari dell'esistenza.
Un'esistenza sulle cui strade Ahmed si è, ormai, fieramente incamminato.
Pensateci: qual è l’opera artistica più famosa e - se vogliamo - importante che narra il viaggio da un punto A ad un punto B di più persone?
Esatto: l’Odissea di Omero, un poema letterario che nel tempo è diventato un aggettivo, di certo non una cosa da tutti i giorni.
Siamo ancora lontani dai classici road movie cinematografici di cui parliamo in questa Top 8, ma l’Odissea - che non ha avuto fortuna per quanto riguardi gli adattamenti cinematografici - è servita da ispirazione a due registi che della rielaborazione hanno fatto uno dei loro marchi di fabbrica: i Fratelli Coen.
In un’atmosfera grottesca di inizio anni '30, tre prigionieri (George Clooney, John Turturro, Tim Blake Nelson) sono evasi dai lavori forzati per cercare un fantomatico tesoro, un miraggio per risolvere così tutti i loro problemi derivati dalla Grande Depressione.
Il loro viaggio attraverso le lande rurali degli Stati Uniti si popolerà delle più strane e ambigue figure, tutte perfettamente in linea con lo stile coeniano.
Il poema di Omero viene così preso, sviscerato e demitizzato, trasformando quelli che erano dei personaggi iconici - pensiamo banalmente a Ulisse - in comunissimi perdenti, anche piuttosto ingenui.
La Guerra di Troia si riconduce così alle luride galere del Mississippi, mentre l’Odissea si trasforma in una banale caccia al tesoro, dove le insidie si potrebbero risolvere in un batter d’occhio se solo i protagonisti della vicenda non fossero dei completi idioti.
Ai Fratelli Coen interessa quindi tratteggiare, attraverso le dinamiche classiche del road movie, un ritratto psicologico e irriverente di un Paese pieno di contraddizioni religiose ed etiche. I nostri loser se la vedranno con alcuni membri del Ku Klux Klan - intenti a fare una processione simil-Nascita di una Nazione - o con il famigerato gangster George 'Baby Face' Nelson, il tutto reso straniante, grottesco e imprevedibile.
In Fratello, dove sei? ogni cosa è sopra le righe, un mix fantastico tra commedia e musical in cui la ricostruzione assolutamente credibile degli anni ‘30 statunitensi si scontra con l’assurdità dei personaggi creati dalla penna dei Coen (John Goodman come Polifemo vale assolutamente la visione).
A donare ancora più eccentricità al film ci pensa inoltre la fotografia tendente al seppia di Roger Deakins, che dona al racconto un’anima pittorica, dal sapore retrò.
Durante la visione di Fratello, dove sei? si ha spesso la sensazione d’incanto, complice la scelta da parte dei registi de Il grande Lebowski di spezzare più volte il ritmo del film con dei gustosissimi intermezzi musicali - la colonna sonora è stata premiata ai Grammy Award - che preannunciano la nascita del mondo moderno delle comunicazioni di massa.
Oltre al viaggio - dove ci si diverte assolutamente - c’è anche il tempo per riflettere sull’importanza che hanno avuto i mass media (Radio, Cinema) nel seguire e manipolare i gusti e le idee del popolo.
Il problema è che nella realtà non ci sono stati i Soggy Bottom Boys a salvarci, ma è anche questo il bello del Cinema.
Per chi scrive, intraprendere un viaggio significa muoversi oltre i limiti della propria conoscenza e del naturale conforto dato da stabilità e routine per divenire scopritori di altre frontiere, culture, modi di dire, mangiare, amare, odiare, pensare, vedere, ascoltare e parlare al fine di cambiare quanto basta per rispettare il proprio io, ma con la consapevolezza di migliorarlo.
Poi ci sono quelli che vanno in vacanza ogni anno in Sardegna a rubare la sabbia, sognando la pensione e blaterando di cose che sono sicuro provochino brutti mali.
Se appartenete alla prima categoria, per quanto mi riguarda e compete, amate la vita, la rispettate, la celebrate e siete divoratori di Cinema e di storie votate alla scoperta di nuove frontiere.
Il viaggio è dentro di noi e oltre noi e può essere spirituale, mentale, emotivo, carnale, viscerale e molte altre cose.
Ci sposterà in punti di arrivo sistemati su di una mappa sprovvista di una legenda universale, trovandovi a ogni nuovo viaggio dentro un vasto quadrante dal quale potrete solo proseguire oltre, mentre il resto galleggia nello spazio vuoto per sistemarsi nei bidoni differenziati di ricordi, errori, cose utili ed inutili.
Interstate 60, contrariamente a molto altro Cinema legato al tema del viaggio, incarna questo principio e utilizzando l’assurdo, il fantastico, l’ideale fumettistico di fantasticherie incredibili ma vissute da protagonisti vicini a noi, ci porta oltre.
Siamo con Neal (James Marsden) a guidare una bella cabriolet rosso fuoco che non è proprio il nostro genere ma che ci porta su una strada interstatale metafisica, spinti a tale avventura da un dottore che sfida la nostra percezione del reale rispetto a cosa vediamo e perché ci aspettiamo di vederlo (Christopher Lloyd), confusi da un folletto ben vestito e con una strana pipa (Gary Oldman) e ossessionati da una ragazza che vive tra il sogno e la realtà (Lynn Linden).
Un viaggio banale per chi ruba la sabbia e blatera crogiolandosi nell’effetto Dunning-Kruger a intrappolarli nell'irritante idea di aver capito tutto, mentre utilizzano la fuga psicogena per districarsi dal presente a monumentale testimonianza di quanto si sbaglino.
Un film leggero, opera zen che non insegna a mantenere la motocicletta o la vostra Fiat Panda, ma che vuole farci capire come sia importante badare bene a cosa significhino davvero i nostri desideri e aspirazioni, perché resi possibili dallo stesso povero diavolo che li concepisce e che nel realizzarli rischia di deturpare spiacevoli, quanto importanti, dettagli.
Interstate 60 è un viaggio On the Road ascoltando “You Can’t Always Get What You Want” a tutto volume, mentre veniamo mesmerizzati dall’incredibile e dallo scoprire quello di cui abbiamo bisogno nella realtà.
“I nostri sono film mainstream che sembrano indipendenti”
Mark Duplass
Il movimento Mumblecore - se così si può chiamare, ma non tratteremo qui la diatriba sulla sua esistenza o sul significato del termine - è stato un momento segnante del Cinema indipendente americano; i più rigorosi lo datano nel primo decennio degli anni 2000.
The Puffy Chair è annoverato tra gli esempi più emblematici del mood culturale che ha pervaso la scena indie statunitense e i suoi due autori Mark e Jay Duplass sono tra le figure di riferimento per tutta la produzione mumblecore, post-mumblecore e indipendente in generale.
Quest'opera prima racconta il viaggio che Josh compie per recuperare una sedia vinta all’asta su eBay - elemento generazionale emblematico - e per portarla insieme al fratello Rhett e alla fidanzata Emily da suo padre che ne possedeva una uguale quando erano bambini.
Un tragitto in cui più che l’impresa diventano fondamentali le interazioni e le evoluzioni di due coppie: i due fidanzati da un lato, i due fratelli dall’altro.
La componente on the road, da sempre emblema del cambiamento interiore, più che come semplice Coming of Age (elemento comunque caratterizzante di molto Cinema Mumblecore) viene sfruttata per la costruzione di uno spazio chiuso e senza tempo: se nell'incipit Emily fugge da una discussione, qui il confronto è inevitabile obbligato dalle quattro pareti del van.
The Puffy Chair chiarisce sin dalla prima scena alcuni topoi classici di questo Cinema: due fidanzati borbottano (mumble in inglese) durante la loro quotidianità e palesano la loro incapacità di relazionarsi con responsabilità e decisioni.
Nella messa in scena si notano subito alcuni stilemi: la camera digitale incollata ai loro volti, il costante movimento a mano che svela la presenza dell’operatore, come gli zoom o l'aggiustamento tardivo della messa a fuoco.
Questa messa in scena, che può ricordare dei filmini amatoriali, in realtà racchiude tutto il proprio impatto nella sua finta inconsapevolezza: raccontandoci sin da subito le sensazioni più piccole e intime dei personaggi attraverso le imprecisioni e la presenza della macchina da presa e l’instabilità perenne che pervade le vite dei tre protagonisti, attraverso il movimento nervoso e costante.
“L'amatore è condannato al sincronismo, ed è condannato a restare appeso alla sensazione immediata.”
Pepita Hesselberth parlando di Handheld Aesthetics (estetica della macchina a mano)
Uno stile immediato che, grazie alla sua semplicità, ci catapulta subito all'interno del viaggio interiore di un giovane sulla soglia dell’età adulta, a metà tra il sogno di suonare per vivere e la quasi-solidità di un lavoro dall’altra parte del palco.
Attraverso l’improvvisazione, il dialogo vuoto e le liti i due autori di New Orleans dipingono tutte le differenze, le immaturità e la difficoltà di crescere e prendersi responsabilità dei tre protagonisti con una semplicità e un’immediatezza tipiche di questo Cinema, che ha rivoluzionato due generazioni di filmmaker statunitensi.
Il classico viaggio in cui è più importante il percorso della meta.
Questo film belga-francese del 2012 scritto da Maarten Loix, Jean-Benoît Ugeux e Pirot stesso, presentato al Locarno Film Festival nel 2012, ha una storia molto semplice e lineare.
Simon (Arthur Dupont) ha circa trent'anni, è a un punto morto della sua vita, non ha più un lavoro, la sua relazione è giunta al termine e si ritrova a tornare al suo paese natio dove risiedono i suoi genitori: di fatto il punto di partenza, non solo metaforicamente parlando.
Lì ritrova anche il suo migliore amico, Julien (Guillaume Gouix), un ragazzo suo coetaneo che vive con il padre malato facendogli sostanzialmente da caretaker dopo un lungo e debilitante malanno dal quale è uscito per miracolo.
I due si ritrovano un giorno a campeggiare in mezzo alla natura parlando del più e del meno davanti al fuoco - facendo un po’ il punto sulle loro esistenze - e rispolverano un’idea che era rimasta seppellita nella loro adolescenza: viaggiare e vivere On the Road.
Cominciano quindi a elaborare un piano, che più prende forma più sembra a prova di bomba: come trovare il budget iniziale, come ridurre al minimo le spese e tagliare quelle non essenziali, l’accontentarsi di un qualsiasi lavoro in un qualsiasi posto per procacciarsi il denaro in caso di bisogno...
Anche la scelta del mezzo, ovviamente, è saggia e ponderata, pensando inizialmente a un furgoncino in cui dormire e basta, ma “misteriosamente” i due si ritrovano a comprare un enorme motorhome e dilapidare gran parte del budget iniziale ancor prima di partire.
Di nuovo però i due si confrontano e - sempre in modo lucido e intelligente - vedono già molte soluzioni all’orizzonte.
Tutto bene quindi, giusto? Più o meno, ma non si può dire altro senza dire troppo.
Il film è principalmente una commedia, ma molte situazioni sono quasi insostenibili per la loro durezza, grazie all'inevitabile immedesimazione nei due protagonisti: è indubbio che la maggior parte degli esseri umani abbiano avuto un'idea simile almeno per un quarto d’ora della loro esistenza.
L’universalità è forse uno dei pregi principali del film: non è importante se un viaggio del genere lo abbiate solo progettato nella fantasia di un momento o effettivamente intrapreso, né tanto meno se lo abbiate interrotto o portato a termine.
Destrutturando Mobile Home il “road trip” può essere persino considerato un mero pretesto per pensare alle nostre scelte di vita in generale e quanto i nostri piani - futuri, presenti o passati - siano effettivamente tali o solo effimeri.
Detto ciò, anche se ora sarà dura convincervi, il film è tutt’altro che pesante o deprimente, l’equilibrio tra commedia e drama è quasi perfetto, ma nessuno dei due generi è in dosi eccessive, assicurando sorrisi e riflessioni in parti uguali, facendo al tempo stesso invidiare e biasimare i protagonisti.
Quando si pensa ai film di animazione è facile immaginare svariati titoli che presentino avventure On the Road, sia da parte di grosse case di animazione che da piccole, sia da produzioni occidentali che orientali e via dicendo, spesso con l’idea del viaggio come evoluzione e crescita personale.
Leggermente diverso è il caso di Buñuel - Nel labirinto delle tartarughe, che sicuramente presenta questo schema sopracitato ma aggiunge il bisogno di narrare un vissuto estremamente complesso, che vede come protagonista uno dei più importanti registi in assoluto nonché del Cinema surrealista: Luis Buñuel.
La pellicola, tratta dall’omonimo graphic novel di Fermín Solís Campos, si apre raccontando l’isolamento di Buñuel dopo essere stato allontanato dal mondo cinematografico a causa del suo secondo film, L'âge d'or, ritenuto blasfemo ed estremamente critico nei confronti della borghesia.
Nonostante il divieto di proiezione del film e la conseguente frustrazione, il regista decide di non fermarsi e, grazie all’aiuto economico del suo carissimo amico Ramón Acín, porta avanti un nuovo progetto che avrà conclusione nel 1932: Terra senza Pane, documentario in cui viene mostrata la miseria di Las Hurdes, una regione spagnola confinante col Portogallo ove le condizioni igieniche sono esigue, le malattie sono sempre più inevitabili e diffuse a causa dell’assenza di medicinali adeguati e l’arretratezza strutturale cittadina permette a stento di soddisfare i bisogni primari della popolazione.
Salvador Simó con il suo primo lavoro alla regia mostra sin da subito ottime capacità, utilizzando un tipo di narrazione molto interessante e inusuale per l’animazione, sicuramente da tenere d’occhio.
Lo stile semplice del disegno e le immagini pulitissime si frappongono assiduamente a frammenti del filmato originale in bianco e nero di Buñuel, creando una situazione in cui lo spettatore riesce non solo a immaginare, ma proprio a capire nel dettaglio i vari momenti del cammino e le motivazioni che hanno spinto il celebre regista nella realizzazione del documentario.
Attraverso un racconto biografico la personalità e l’animo di Buñuel sono messi alla luce anche nei piccoli dettagli, con riferimenti disseminati ovunque, che vanno dal rapporto conflittuale con la Chiesa al suo bisogno di evidenziare problematiche sociali, fino ad arrivare alle sue più recondite ossessioni in modo crudo.
Essere “sulla strada”, dunque, è sicuramente una chiave di lettura fondamentale: è sia qualcosa di fisico e tangibile, un cammino vero e proprio in una landa dimenticata dal mondo e vissuta nel dolore di pochi uomini, sia qualcosa di spirituale e distruttivo, un bisogno di affrontare il dolore, la tristezza e la morte, creando un luogo in cui il reale sfocia con violenza nel surreale.