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#top8

8 straordinari perdenti all'Oscar per il Miglior Film

Sarebbero tantissimi: la scelta non è stata facile

I Premi Oscar: noti a tutti, criticati puntualmente da chiunque ogni anno, fraintesi dai più e conosciuti a dovere da pochi.  

 

Per introdurre questa classifica dei Migliori Film perdenti è necessario innanzitutto fare un passo indietro di quasi un secolo: l'Academy è nata infatti nel 1927 e come scrivono sul sito ufficiale la loro mission è quella di "Riconoscere e sostenere l'eccellenza nelle arti e nelle scienze cinematografiche, ispirare l'immaginazione e connettere il mondo attraverso il mezzo cinematografico."

 

Tutto nacque da una cena a casa di Louis B. Mayer, allora capo della MGM: lui e i suoi ospiti parlarono della creazione di un gruppo organizzato a beneficio dell'industria cinematografica hollywoodiana. 

 

Una settimana dopo 36 invitati provenienti da tutti i rami creativi dell'industria cenarono all'Ambassador Hotel di Los Angeles per ascoltare la proposta di fondare l'Accademia Internazionale delle Arti e delle Scienze cinematografiche. 

 

Furono presentati gli articoli costitutivi e vennero eletti i responsabili, con Douglas Fairbanks come presidente. 

 

 



La prima cerimonia degli Academy Awards - che vedete qui sopra immortalata - fu un semplice banchetto che si tenne il 16 maggio 1929 presso la Blossom Room del Roosevelt Hotel, con 270 partecipanti. 

 

I destinatari dei Riconoscimenti al Merito in 12 categorie erano già stati annunciati tre mesi prima; l'anno successivo l'Academy mantenne segreti i risultati, ma fornì un elenco ai giornali in modo che potessero andare in stampa entro le 23:00 per avere l'edizione del quotidiano aggiornata in uscita il giorno dopo. 

 

La cosa andò avanti così fino al 1940, quando il Los Angeles Times pubblicò i vincitori nell'edizione serale, rendendoli pubblici anche a tutti coloro che si stavano recando alla cerimonia. 

Da quel momento si decise per il sistema di buste sigillate, in uso ancora oggi. 

 

Su queste pagine ho già ampiamente trattato l'argomento Academy, spiegando quali siano i requisiti per entrarvi e quanti siano i membri - al 2021 hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 9362 - illustrando le regole di ammissione per i film e descrivendo il metodo usato per le nomination e il complicato sistema utilizzato per il voto finale. 

 

A parte un paio di edizioni perse nel mezzo degli anni 2000 personalmente seguo la cerimonia dei Premi Oscar fin dal 1992, quando Il silenzio degli innocenti si portò a casa i famosi Big 5 (Film, Regia, Attrice Protagonista, Attore Protagonista, Sceneggiatura) fino ad allora vinti solo da Accadde una notte nel 1935 e da Qualcuno volò sul nido del cuculo nel 1976 e da quel momento in poi mai più assegnati. 

 

 

 

In quasi trent'anni ho dunque imparato a conoscere le dinamiche dell'Academy, le scelte dietro a determinate nomination e statuette e tutto il furibondo marketing messo in moto dai produttori e dagli Studios che accompagna i film nella loro cavalcata verso la gloriosa Notte degli Oscar. 

 

Non sono ovviamente mancate le sorprese, che in maniera diversa e più o meno accentuata si presentano comunque ogni anno, ma sono ormai almeno vent'anni che non mi scandalizzo davanti a certe premiazioni, perché conosco la differenza fondamentale che gran parte del pubblico tende a dimenticare quando si lancia in invettive nei confronti di quello o quell'altro premio: gli Oscar non sono un festival cinematografico. 

 

I festival del Cinema sono un'altra cosa.

 

Parlando di quelli importanti e prestigiosi, come possono essere il Festival di Cannes o la Mostra di Venezia, in questi appuntamenti esistono gli organizzatori che ogni anno scelgono un Presidente di Giuria e i giurati che valuteranno i film, esiste una selezione dei film che vengono accettati per concorrere e spesso - se non sempre - i film in concorso vengono presentati in anteprima mondiale proprio in quelle situazioni, prima che tutto il mondo possa vederli. 

 

Le kermesse durano da una settimana a una decina di giorni e ci sono proiezioni, eventi, conferenze stampa, serate speciali.

I festival sono dunque molto vicini al significato etimologico del termine latino medievale festivalis, diventato poi festival in francese e in seguito in inglese, infine arrivato in italiano senza modificarsi verso la metà del XIX secolo: una festa. 

 

Gli Academy Awards noti come Premi Oscar sono molto lontani da un festival.  

Non esiste una giuria che cambia ogni anno - al massimo vengono invitati nuovi membri a far parte dell'Academy, che si aggiungono ai già presenti - non esiste a monte una selezione di film perché sono gli studios a proporre all'Academy le proprie opere nelle varie categorie, quindi virtualmente qualsiasi film potrebbe ottenere una nomination, ma soprattutto i film arrivano alla cerimonia quando sono ben noti e conosciuti in quanto già distribuiti nelle sale l'anno precedente.

 

Gli Oscar nascono per celebrare soprattutto l'industria hollywoodiana e per veicolare uno o più messaggi, a seconda di quali siano le intenzioni dell'Academy. 

 

Sono "importanti" non tanto da un punto di vista meritocratico, artistico o di contenuto, bensì da quello promozionale ed economico: la cosa vale tanto per chi lo vince quanto per chi si trova a lavorarci in seguito.

 

Chiunque vinca un Oscar avrà per qualche anno un credito importante all'interno dell'industria, troverà molte più porte spalancate rispetto a prima perché diventa un nome facilmente spendibile e di richiamo per il pubblico, se parliamo di attori e professionalità note al pubblico come i registi o i produttori: sono sicuro che chiunque legga queste righe avrà visto almeno una volta in un trailer o su un cartellone pubblicitario la dicitura "Con l'attore Premio Oscar" o "Dal regista 2 volte Premio Oscar"

 

 

 

È ben nota la capacità di fare spettacolo e di autopromuoversi propria degli statunitensi: gli Oscar sono una delle dimostrazioni più palesi in tal senso. 

 

L'Academy è riuscita in poche edizioni a far credere al mondo che il proprio premio fosse quello più importante di tutti, quello più prestigioso, più ambito, più autorevole. 

 

La conseguenza di questo traguardo, però, è da ritrovarsi non solo nella promozione della serata stessa e dei film che vedono partecipi i vincitori degli Oscar, ma nella percezione che il grande pubblico ha di questi premi e soprattutto nei confronti di chi li vince o di chi, ed è il caso di questa classifica, non li vince. 

 

L'elenco degli illustri non vincitori degli Oscar sarebbe lungo e noioso, vi basti pensare che tra i registi snobbati dall'Academy nonostante abbiano reso grande la Settima Arte, e che spesso l'hanno elevata al punto di toglierle il numero ordinale che le si pone davanti, ci sono nomi come Charles Chaplin, Ingmar Bergman, Orson Welles, Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Akira Kurosawa, Sergio Leone, Howard Hawks.

 

A Chaplin assegnarono due Oscar onorari, nel 1929 e nel 1972, e un Oscar per la Miglior Colonna Sonora nel 1973 per Luci della ribalta, film di ventun'anni prima bloccato in patria ai tempi del maccartismo. 

 

Tempi moderni? Non pervenuto.

Il grande dittatore? 5 nomination, nessuna statuetta. 

 

A Bergman andò anche peggio: per lui 9 nomination tra il 1960 e il 1984, per il Miglior Film, la Migliore Regia e la Migliore Sceneggiatura Originale. 

Nel 1971 gli assegnarono l'Oscar alla Memoria Irving G. Thalberg, ma lui non andò nemmeno a ritirarlo. 

 

Orson Welles è un altro di quelli che ha letteralmente modificato il modo di fare Cinema, quando aveva appena 25 anni: andò in nomination come regista, attore e sceneggiatore di Quarto potere, vincendo la statuetta per quest'ultima categoria assieme all'oggi famoso Herman J. Mankiewicz, per gli amici Mank.

 

Poi più niente per nessun film, nemmeno una nomination fino all'Oscar onorario del 1971, che esattamente come Bergman non si presentò a ritirare, preferendo mandare un video di ringraziamento dove diceva di essere in Spagna a lavorare. 

 

In realtà era a Los Angeles, a pochi chilometri dal Dorothy Chandler Pavilion dove si stava svolgendo la cerimonia: questo dovrebbe chiarire che tipo di rapporti c'erano in corso tra Welles e Hollywood. 

 

 

 

Stanley Kubrick? 

13 nomination per 5 opere nelle categorie Miglior Film, Regia, Sceneggiatura e... Effetti Visivi, che fu l'unico che vinse grazie a 2001: Odissea nello spazio. 

 

Alfred Hitchcock? 5 nomination, zero statuette.

Un solo Oscar vinto nel 1968, ma stiamo ancora parlando del Premio alla Memoria Irving G. Thalberg. 

Curiosità: lui andò a ritirarlo ma fece il discorso di ringraziamento all'epoca più breve di sempre, dato che una volta sul palco disse soltanto "Grazie"

 

Hawks? Una sola nomination: come Miglior Regia per Il sergente York nel 1942. 

Kurosawa? Una sola nomination: come Miglior Regia per Ran nel 1986. 

 

Ovviamente anche loro hanno vinto un Oscar: quello onorario. 

Howard Hawks nel 1975, a 79 anni di età e dopo 47 film, Akira Kurosawa nel 1990, a 80 anni di età e dopo 34 film. 

 

Chiudiamo questo triste elenco - che avevo detto sarebbe stato lungo e noioso - con il nostro Sergio Leone, uno che il Cinema lo ha insegnato anche agli statunitensi che ancora oggi provano a imitarlo. 

Per lui niente: zero statuette, zero nomination e nemmeno un Irving G. Thalberg o un onorario come per gli altri. 

Nulla. 

Mai. 

 

Se vi siete arrabbiati leggendo queste righe vi chiedo di riflettere su quanto scritto poco prima. 

Questi nomi elencati quanto secondo voi rappresentano l'idea di Cinema cara a Hollywood e, dunque, all'Academy? 

 

Il punto è squisitamente tutto lì. 

 

 
 


 

Nonostante negli ultimi anni ci sia stata un'importante apertura nei confronti delle minoranze l'Academy è formata per la stragrande maggioranza da professionisti di Hollywood. 

 

Che nominano i film di Hollywood e premiano i film di Hollywood. 

Che sanno perfettamente che il giorno dopo La Notte degli Oscar tutto il mondo ne parlerà e che i titoli di giornali e TV verteranno soprattutto su chi ha vinto l'Oscar per il Miglior Film. 

 

Ed è in questa ottica che gli Oscar vanno vissuti, valutati e discussi. 

 

Per quanto splendido sia, Com'era verde la mia valle di John Ford vinse come Miglior Film l'anno di Quarto potere

Ma quale tra i due è ricordato, studiato e venerato ancora oggi? 

L'Academy però ai tempi preferì premiare un film che tratta dei problemi del lavoro, dei sindacati e delle morti bianche, piuttosto che un poco velato attacco frontale nei confronti del più potente editore dell'epoca. 

 

Quando nel 1981 l'Oscar al Miglior Film venne assegnato a Gente comune di Robert Redford in nomination c'erano anche Toro scatenato di Martin Scorsese e The elephant man di David Lynch. 

Il film di Redford è senza dubbio toccante e fortemente concentrato sulla recitazione e le emozioni, ma tra i tre citati è davvero quello che ha lasciato il segno? 

 

Mel Brooks, produttore del film di Lynch, lo aveva già preventivato ai tempi quando sbottò dichiarando "Tra dieci anni 'Gente comune' sarà la risposta a una domanda di Trivial Pursuit, mentre il pubblico continuerà a guardare The elephant man". 

 

Anche dopo quaranta, Mel, te lo assicuro. 

 

 

 

Gli esempi sono tantissimi e ce ne sono anche di più recenti: immagino vi ricordiate tutti dell'epic fail agli Oscar 2017, quando La La Land fu dichiarato vincitore dell'Oscar per il Miglior Film che però spettava a Moonlight

 

Provate ad andare oltre la mera questione artistica o di gusto personale e chiedetevi di cosa parlino i due film. 

 

O ancora: l'anno prima arrivarono lanciatissimi alla Notte degli Oscar Revenant - Redivivo con 12 nomination e Mad Max: Fury Road con 10: il primo ne vinse 3, Regia, Attore Protagonista con finalmente Leonardo DiCaprio e fotografia, il secondo ne portò a casa 6. 

 

Chi vinse l'Oscar per il Miglior Film? Il caso Spotlight. 

Anche in questo caso provate a ricordarvi di cosa trattino i film in questione. 

 

Quell'anno l'Academy non aveva interesse nel far parlare il mondo intero del film di Alejandro G. Iñárritu o di quello di George Miller, perché tanto se ne stava parlando da mesi e avremmo tutti continuato a parlarne, come infatti facciamo ancora oggi. 

C'era però un gran bel film che metteva al centro una vera inchiesta giornalistica sulle implicazioni tra la Chiesa cattolica e la pedofilia. 

 

Era quello secondo l'Academy il film da mettere in luce, premiandolo e veicolandolo in tutto il pianeta nel caso in cui qualcuno non se ne fosse accorto al momento della sua distribuzione.  

 

 

 

Discorso diverso, che apro e chiudo velocemente, andrebbe invece fatto per le nomination che sono forse più importanti degli Oscar stessi.

 

Se decine di truccatori pensano che un truccatore abbia fatto un gran lavoro, se centinaia di direttori della fotografia valutano che un loro collega sia stato eccezionale e letteralmente migliaia di attrici e attori - è la professione più rappresentata nell'Academy - applaudono un'interpretazione... difficilmente si stanno sbagliando e senza dubbio sono tra le persone al mondo meglio in grado di giudicare quel lavoro. 

Perché è ciò che fanno anche loro. 

Una volta decise le nomination, però, tutti quanti votano per tutte le categorie, quindi il punto sulla capacità di valutazione cade un po'. 

 

Tornando in topic: non sto ovviamente dicendo che i membri ragionino sempre pensando al messaggio o alle intenzioni. 

 

Il voto è segreto ed è ridicolo pensare che 9000 persone possano mettersi d'accordo per premiare uno stesso film dopo aver stabilito quale messaggio abbiano intenzione di far passare. 

Ma una volta che fai parte dell'Academy, magari da molti anni, sai perfettamente quale sia il suo scopo e il tuo voto inevitabilmente va a seguire quel tipo di dinamica. 

 

L'Oscar al Miglior Film è da intendersi quindi da un lato come "Miglior Produzione" - da ricordare che a ritirarlo sono i produttori, non il regista né lo sceneggiatore, non quindi chi lo ha creato e realizzato bensì chi è stato in grado di far sì che si realizzasse - e dall'altro come "Film che meglio esprime il concetto di Cinema che Hollywood vuole far conoscere quest'anno o che meglio rappresenta un messaggio da mandare al resto del mondo". 

 

Le ragioni possono essere di carattere sociale o politico. 

In piena Guerra del Vietnam e sotto la Presidenza Nixon nel 1971 vinse 7 Premi Oscar Patton, generale d'acciaio (compresi Miglior Film, Regia, Sceneggiatura e Attore Protagonista), un ritratto del generale George S. Patton fortemente anti-interventista, che dipinge il protagonista in maniera tutt'altro che positiva. 

 

Più o meno lo stesso discorso si ripresentò l'anno dopo: Il braccio violento della legge di William Friedkin ottiene 5 Premi Oscar (compresi Miglior Film, Regia, Sceneggiatura e Attore Protagonista, again) per un film che mostra la violenza delle forze dell'ordine che fondamentalmente non porta a niente di valido. 

 

[Il discorso di Michael Moore contro George W. Bush nel 2003]

 

 

Le prime due edizioni dei Premi Oscar sotto la Presidenza di George H. W. Bush assegnarono premi importanti a film come Balla coi lupi, Nato il quattro luglio, A spasso con Daisy, Il mio piede sinistro, Glory - Uomini di gloria: film antimilitaristi, inclusivi, con un occhio alle minoranze. 

 

Da decenni più progressista che conservatrice, Hollywood mandava un messaggio forte e chiaro a quella politica statunitense che decise di iniziare nel gennaio 1991 la famigerata Guerra del Golfo. 

 

Quasi lo stesso copione si sarebbe ripetuto sotto la presidenza di Donald Trump, a partire dal già citato Moonlight e da Oscar importanti dati a Barriere, La forma dell'acqua, Tre manifesti a Ebbing Missouri, Roma, BlacKkKlansman, Green Book, Se la strada potesse parlare: tutti film che portano con sé un messaggio antitetico a quello propinato dal reazionario tycoon con il vizio di twittare in caps lock.

 

C'è inoltre da sottolineare una cosa importante, fonte di fraintendimenti soprattutto negli ultimi anni e da quando ha cominciato a circolare la barzelletta di una fantomatica "dittatura del politicamente corretto": se oggi gli Oscar vedono candidati e vincitori multietnici, se gli Academy Awards ci sembrano più inclusivi rispetto ai decenni passati è semplicemente perché tra i membri c'è stato un grande innesto di rappresentanti delle minoranze, di donne, di etnie diverse. 

È dunque una conseguenza perfettamente logica, oltre che cercata e costruita nel tempo. 

 

Se per votare a un concorso coinvolgo solo una determinata categoria di persone che hanno una mentalità di un certo tipo non posso aspettarmi che la maggioranza di loro si riconosca in storie che non li rappresentano, candidandole ai premi e facendole vincere. 

Nel momento in cui allargo il coinvolgimento e mi apro a molta più diversità, il risultato sarà quello di avere più votanti che si sentono toccati e coinvolti da storie che non pongono al centro sempre e solo il maschio bianco eterosessuale come è successo per davvero tantissimo tempo. 

 

Ecco quindi che gli Oscar assegnati negli ultimi anni si spiegano al contrario rispetto a quanto vorrebbe farci credere una narrazione vicina all'Alt Right statunitense: i premi non seguono una corrente, ma rappresentano i membri votanti. 

È praticamente sempre stato così e continua ad esserlo, la differenza di oggi rispetto al passato sta nel fatto che i membri votanti sono molto più rappresentativi della popolazione: c'è più diversità tra i membri che votano, c'è quindi più diversità tra i film che vengono premiati. 

 

Si dovrebbe anche pensare che la società cresce, matura, evolve da quando l'Homo sapiens sapiens ha mosso i primi passi sul pianeta. 

Ciò che era normale nel XVII secolo non lo era più un secolo dopo. 

Gli atteggiamenti e i comportamenti della società civile del 1860 oggi non sarebbero più tollerati. 

La schiavitù, il voto negato alle donne, i mezzi pubblici e i bagni divisi per etnia, la discriminazione delle minoranze: tutte cose che fino a pochi decenni fa erano parte del vivere comune non sono più "normali" (per quanto le si potesse definire in tal modo anche allora) e non sono più accettate. 

 

Il mondo dello spettacolo non solo segue la società ma spesso la anticipa, rivoluzionando certi atteggiamenti e cambiando il sentire comune, facendo luce su problemi che magari non ricevono la giusta attenzione e rappresentando situazioni che necessitano un cambiamento. 

Pur con tutte le brutture che fanno parte della società USA che ben conosciamo, Hollywood è consapevole di tutto ciò e sa che i Premi Oscar sono l'appuntamento in cui tutto il mondo ha gli occhi puntati su quel palco. 

 

Se vince un film piuttosto che un altro, dunque, non meravigliatevi perché secondo voi il film perdente "era molto più bello": il Miglior Film agli Oscar significa tantissime cose e non si limita alla qualità tecnica o artistica. 

 

Questa classifica in rigoroso ordine cronologico infatti non nasce per criticare le scelte dell'Academy né per sostenere che "avrebbe dovuto vincere quello al posto dell'altro" - sono entrambe posizioni insensate a nostro avviso - quanto per ricordare 8 film che non dovreste perdervi anche se ai tempi non hanno vinto il riconoscimento più famoso del mondo. 

 

I redattori ne hanno scelto uno per decennio a partire dagli anni '40 e in ogni posizione troverete indicato su quale piattaforma poter recuperare il film. 

 

Buona lettura e buone visioni! 

 

P.S.: Alla cerimonia dei Premi Oscar dell'anno prossimo magari ricordatevi di quanto avete appena letto, prima di correre sui social network a scrivere che "Avrebbe dovuto vincere quell'altro!"

Può darsi che avrebbe dovuto, certo. 

Ma il giochino è in mano all'Academy e decidono loro; arrabbiarsi per un Oscar mancato non farà cambiare idea a nessuno. 

 

Non siete convinti? Provate a chiedere a Glenn Close, che ha collezionato 8 nomination senza mai vincerlo. 

 

Se non si arrabbia lei... 

 

[introduzione a cura di Teo Youssoufian]

 

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Posizione 8

Scarpette rosse

di Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1948

 

Diretto da Michael Powell ed Emeric PressburgerScarpette rosse è forse l'apogeo del rinomato sodalizio fra questi due registi, candidato ai Premi Oscar del 1949 non solo nella categoria Miglior Film.

 

La trama della pellicola è imperniata su un triangolo amoroso nel mondo della danza: la ballerina Victoria Page è infatti contesa dal giovane compositore Julian Craster e da Boris Lermontov, altero impresario di una compagnia teatrale.

 

Sarà Julian a conquistare il cuore di Victoria; tuttavia Lermontov non si darà per vinto e provocherà, facendo leva sulla passione di Victoria per il balletto, drammatiche conseguenze.

 

Sarebbe dunque riduttivo definire Scarpette rosse un melodramma; la storia d’amore fra i protagonisti non è l’unico tema sviscerato nelle sue  due ore abbondanti di racconto.

Pari importanza, se non addirittura maggiore, hanno anche l’arte e la riflessione circa il suo ruolo nella vita delle persone.

 

Come ebbe a dire la critica Emanuela Martini parlando del film, di arte si può addirittura morire.

 

Victoria (Moira Shearer, ballerina scozzese prestata al mondo del Cinema) è infatti divisa fra l’amore per Julian (Marius Goring) e il desiderio di danzare. Quest’ultima è una bruciante passione che le impedisce di vivere a pieno in sua assenza.

 

Lo sa bene il rivale Lermontov, ruolo interpretato con grande maestria da Anton Wallbrook: l’attore austriaco recita in maniera misurata, pur lasciando talvolta emergere dai suoi sguardi e dalle sue pose una forte irrequietezza interiore.

Accecato dall’amore per la ragazza, sembra quasi assecondare la sua discesa agli inferi non curandosi del potenziale esito nefasto; per lui, l’arte viene prima di ogni altra cosa. 

 

Scarpette rosse perciò indaga con forza nelle pieghe oscure dell’animo umano, regalandoci un potente affresco psicologico, rappresentato da Powell e Pressburger in maniera impeccabile, con raffinata eleganza formale.

 

Colpiscono le scenografie curate nei minimi particolari e la bellezza dei costumi; i colori sono vividi tanto quanto i turbamenti vissuti dai personaggi in scena, grazie alla fotografia in Technicolor curata da Jack Cardiff.

Potenti primi piani (indimenticabile quello di Victoria coi suoi occhi spiritati, precedente la tragedia) si alternano a dinamici movimenti di macchina, soprattutto nelle scene di danza.

 

Fiore all'occhiello del film è indubbiamente la fantasmagorica sequenza - di oltre un quarto d’ora - in cui Victoria dà sfoggio della sua bravura nel balletto ispirato alla fiaba del danese Hans Christian Andersen, il quale narrò di quelle scarpette rosse che costringono chi le indossa a danzare incessantemente.

 

Senza posa dunque gli spettatori vedono la protagonista muoversi con innata grazia sul palcoscenico, in una coreografia in brillante sintonia con le musiche scritte da Brian Easdale, che aveva già collaborato col duo di registi per il precedente Narciso Nero (1947).

 

La colonna sonora di Easdale può a buon diritto considerarsi come una delle migliori di tutti i tempi, e fu giustamente premiata con l’Oscar: si trattò del primo trionfo di un compositore britannico in tale categoria.

 

Per le scenografie il lungometraggio si aggiudicò la sua seconda statuetta su cinque candidature: nella categoria Miglior Film fu invece superato dall’Amleto di Laurence Olivier, altra produzione britannica.

 

Anche senza tale riconoscimento, Scarpette rosse resta tuttavia un’opera di importanza capitale per il Cinema mondiale, capace ancora oggi di emozionare col suo intensissimo pathos.

 

Disponibile su YouTube e in home video.

 

[A cura di Marco Batelli]

 

Posizione 7

Mezzogiorno di fuoco

di Fred Zinnemann, 1952

 

I casi in cui una pellicola diventa particolarmente rappresentativa di un genere pur non possedendone tutte le caratteristiche canoniche sono molto rari, ma Mezzogiorno di fuoco è uno di quelli. 

 

Il film è un western atipico nei temi, nell’impianto della sceneggiatura e nella regia, ed è proprio per questo che è diventato così iconico. Per quanto riguarda i primi, l’opera è una chiara allegoria del conformismo e della codardia della società americana di quei tempi, facilmente associabile al vergognoso periodo del Maccartismo e delle liste nere di Hollywood

 

Lo sceneggiatore Carl Foreman, infatti, durante la produzione fu “casualmente” convocato a testimoniare davanti all’allora Commissione per le Attività Antiamericane in quanto ex iscritto al Partito Comunista Americano:: rifiutatosi di menzionare nomi di altri membri dell’epoca, fu inserito in una blacklist e fuggì in esilio nel Regno Unito.

Molti amici colleghi non mossero un dito per lui: chi per paura, chi per convenienza. 

 

Fu la commistione tra la scrittura di Foreman e la regia di Fred Zinnemann a rendere Mezzogiorno di fuoco memorabile e oserei dire avanti coi tempi per l’epoca in cui uscì. L’opera è sviluppata in un’unica unità di tempo: il tempo dell’azione e quello della proiezione coincidono quasi completamente, 85 minuti che iniziano alle 10:30 circa e si concludono poco dopo il fatidico mezzogiorno del titolo. 

 

Tutta la narrazione viene infatti costruita in funzione di un determinato evento previsto per quell’orario, cioè l’arrivo in treno del temibile criminale Frank Miller per vendicarsi dello sceriffo William Kane (Gary Cooper), colpevole di averlo arrestato anni prima.

Con l’avvicinarsi dell’insidia, Kane viene gradualmente abbandonato - per paura, per morale o per rancore - da quelle stesse persone che fino a poco tempo prima aveva difeso e si professavano sue amiche, lasciandolo completamente solo davanti al pericolo imminente.

L’allegoria è alquanto evidente. 

 

Il regista - con l’aiuto dell’incalzante montaggio di Elmo Williams (Oscar per il Miglior Montaggio) - riesce a cucire attorno all’attesa una spasmodica suspense utilizzando svariate inquadrature di orologi, dettando quindi una specie di conto alla rovescia per l’atteso finale. 

 

Zinnemann dirige ottimamente gli attori e, grazie anche a una quasi claustrofobica fotografia in bianco e nero di Floyd Crosby, risalta l’ossessione temporale del protagonista attraverso l’alternanza di primi piani, lente carrellate indietro e campi lunghi, enfatizzando la solitudine dello sceriffo. 

 

A supporto di tutto questo un sagace utilizzo del sonoro: le variazioni del brano Do Not Forsake Me, O My darlin' e il resto della colonna sonora di Dimitri Tiomkin (Oscar per la Migliore Colonna Sonora e la Miglior Canzone) modellano gli stacchi di montaggio e accompagnano tutte le scene del film in un crescendo, fino a dipanare nella bellissima scena pre-finale del fischio del treno tutta la tensione accumulata fino a quel momento.

 

Nonostante la sua produzione fosse costellata da premesse all’epoca considerate atipiche o negative come le tematiche politiche scottanti (specialmente per via del finale), un regista austriaco che si cimentava in uno dei generi sacri del Cinema hollywoodiano, un protagonista considerato troppo anziano per il ruolo e per di più in declino (ma che conquisterà meritatamente la statuetta), una co-protagonista allora sconosciuta (Grace Kelly), Mezzogiorno di fuoco è diventato comunque un punto di riferimento per il Cinema in generale e per il genere western in particolare per la sua perfezione stilistica e narrativa.

 

All’edizione degli Oscar del 1953, nonostante i quattro premi vinti menzionati prima, non riesce a concretizzare le altre tre nomination: Sceneggiatura non Originale, Migliore Regia e soprattutto Miglior Film, assegnato a Il più grande spettacolo del mondo, di Cecil B. DeMille.

 

Le motivazioni (non prive di polemiche) possono essere svariate, ma non importa: il Cinema è pieno di pellicole perdenti che posseggono e riescono a mantenere un'essenza e un fascino immortali.

 

E forse è questo il riconoscimento più prestigioso. 

 

Disponibile su Google Play e Apple TV.

 

[A cura di Jacopo Troise

 

Posizione 6

Gangster Story

di Arthur Penn, 1967

 

Gangster Story è un film che si colloca all’interno di un periodo storico fondamentale per la Settima Arte e l’industria cinematografica.

 

 

Candidato a 10 Premi Oscar - vincendone poi solo 2, nell'anno in cui La calda notte dell'ispettore Tibbs di Norman Jewison ne vinse 5 tra cui Miglior Film - la pellicola diretta da Arthur Penn è stata una sorta di spartiacque definitivo tra i residui del Cinema classico statunitense e la nascita di quella che sarà poi chiamata New Hollywood

 

Gli anni ‘60 e tutti i successivi anni ‘70 erano caratterizzati da una libertà creativa data al regista inimmaginabile durante la Golden Age del Cinema, una condizione dettata dalla crisi più che per un vero e proprio amore per il Cinema inteso come arte.

 

È in questa strana cornice che Arthur Penn ha realizzato un film fuori dagli schemi, sanguinolento, di rottura e dalla dubbia moralità come i suoi protagonisti.

 

Prendendo ispirazione da Tirate sul pianista e Jules e Jim, Gangster Story è stato scritto da David Newman e Robert Benton per essere diretto proprio da François Truffaut, che per una serie di problemi ha declinato la sceneggiatura fino a quando non è arrivata all’attore Warren Beatty e successivamente ad Arthur Penn.

 

La storia segue da vicino la vita dei due banditi Bonnie (Faye Dunaway) e Clyde (Warren Beatty), diventati vere e proprie celebrità durante gli anni ‘30 grazie alle cronache della stampa locale. Siamo negli anni della Grande Depressione e le banche sono viste come il male assoluto, complici e carnefici di una crisi che non sembra lasciare scampo a nessuno.

 

Bonnie e Clyde e la loro banda scelgono come oggetto per le loro rapine proprio gli istituti bancari, diventando agli occhi del pubblico quasi degli eroi.

 

Arthur Penn però da questo punto di vista - sebbene il fascino dei due protagonisti rimanga innegabile - mostra senza timore la violenza e gli strascichi di morte che le scorribande di questi criminali portano con loro, un mondo cupo, composto più da sogni infranti che da promesse mantenute come profetizza glacialmente la madre di Bonnie.

 

Gangster Story - come molti altri film della poetica di Penn - ha due peculiarità: la prima è la presenza costante del tema del doppio, qui portato alla sua massima espressione attraverso la coppia al limite della bipolarità di Bonnie e Clyde; mentre la seconda riguarda i giovani e il loro disagio causato dalle colpe dei padri, con la conseguente voglia di rivalsa e libertà che sembra preannunciare quello che diventerà poi l’opera filmica simbolo di questi temi: Easy Rider di Dennis Hopper.

 

 

Il film diretto da Penn è stato a suo modo rivoluzionario, segnato da una continua variazione di registri stilistici diversi - Gangster Story si muove sempre in una zona grigia tra la commedia e il dramma, tra realismo e romanticismo impensabile per quegli anni - rinnovando e facendo più feroce la critica nei confronti della società americana generatrice di mostri e che condanna alla morte le generazioni future (in questo caso sia il finale di Gangster Story che di Easy Rider sono esemplificativi).

 

Arthur Penn dirige una pellicola che guarda da vicino il Cinema francese, liberandosi dei dogmi industriali dell'industria cinematografica americana - le 10 candidature ottenute e il successo al box office sono stati di vitale importanza per i produttori - confezionando un’opera realista e socialmente impegnata ma allo stesso tempo pregna di divismo, romantica e cinefila.

 

Disponibile su Chili, Apple iTunes, Google Play.

 

[A cura di Emanuele Antolini

 

Posizione 5

Chinatown

di Roman Polanski, 1974

 

Roman Polanski rilegge il noir hollywoodiano dei decenni passati e la letteratura hard boiled di Raymond Chandler, e tocca una delle più alte vette del neo-noir: Chinatown.

 

Il suo non è però un semplice tributo cinefilo, ma una traslazione di quegli stilemi formali e contenutistici verso un nuovo, personalissimo modo di sentire (e fare) il Cinema: come scrive Enrico Ghezzi, il regista "usa l'armamentario retrò come se fosse l'unico […] per fare un film contemporaneo" alla sua maniera.

 

Scompaiono definitivamente quelle rappresentazioni manichee che già sopravvivevano solo nelle espressioni minori del genere e si impongono con forza personaggi complessi e, soprattutto, ambigui.

Il terzetto su cui poggia la vicenda è composto da figure indimenticabili, nate dall'acuta penna di Robert Towne - premiato dall'Academy - e splendidamente interpretate: Jack Nicholson è un iconico antieroe della stessa risma di Philip Marlowe, Faye Dunaway una sfaccettata femme fatale, John Huston uno stratificato villain.

 

Le varie peripezie, incastrate con esattezza naturalistica, delineano il quadro (clinico) di una mitologia, filmica e letteraria, ormai definitivamente svuotata, ammantata da una disillusione di fondo davvero inscalfibile.

 

Disillusione che lascia talvolta trasparire qualche crepuscolare vagito eroico o romantico, puntualmente però soffocato in chiave anti-vitalistica - in un contesto permeato dalla dialettica eros-thanatos - e non senza un pizzico di amara (e metalinguistica) ironia.

 

Da ciò, a conti fatti, emerge comunque una visione complessiva non cinica, perlomeno non sadica, ma sempre e incontrovertibilmente ultra-pessimistica.

 

La parabola del protagonista, il detective Jake Gittes, non è neppure degna di essere chiamata tale: in termini sia matematici sia narrativamente fattuali, si tratta più di una spezzata zigzagante destinata a seguire lo stesso pattern all'infinito, come fosse una retta sballottata di volta in volta dal grattacapo di turno.

 

In aggiunta, la componente sociopolitica connessa a questa parabola (pardon: spezzata) rincara ulteriormente la dose, specie scorgendo il senso universale di traversie che, anche tenendo conto dell'operazione di rilettura filmico-letteraria effettuata da Polanski, non possono certe essere confinate nel dominio della particolarità.

 

Jake, con cui è quasi impossibile non identificarsi viste le scelte registiche, rappresenta semplicemente il singolo destinato a soccombere dinanzi al sistema, un sistema (negativo) talmente inteso in senso astorico e ideale da fondare le proprie macchinazioni su un elemento primario, primordiale: l'acqua.

 

Polanski riprende un discorso simbolico già avviato nei precedenti lavori, ma non si limita a esporre le stesse tesi, bensì le aggiorna: come nota Stefano Rulli nel Castoro dedicato al regista, ora l'acqua "non presenta soltanto la connotazione esistenziale dell'illusione di serenità tramutata in tragedia, ma anche quella politica del mito sociale del benessere che si risolve invece in strumento di potere e di oppressione".

 

Si costruisce così nel complesso un'opera che, come tutte le grandi opere, risulta essere contemporanea tanto nel 1974 quanto oggi, nonostante sia ambientata nella Los Angeles del 1937.

 

Un'opera caratterizzata anche - così, quasi incidentalmente - da un comparto stilistico mozzafiato (regia di Polanski e fotografia di John A. Alonzo in primis), che riesce nel difficilissimo compito di risultare originale e memorabile in virtù di una riproposizione non-pedissequa e non-nostalgica delle forme del noir classico.

 

Disponibile su Rakuten TV, Chili, Google Play e Apple TV.

 

[A cura di Mattia Gritti]  

 

Posizione 4

Missing - Scomparso

di Costa-Gavras, 1982

 

Giunti a questo punto del nostro approfondimento si fa strada la necessità di individuare quelle pellicole che hanno ricoperto un ruolo fondamentale nell’avvicinare la concezione tradizionale della statuetta con quella più moderna e sfaccettata venutasi a delineare nel corso degli ultimi anni.

 

Missing - Scomparso di Costa-Gavras è uno degli esempi più fulgidi di questa dinamica evolutiva: si tratta, infatti, di una delle opere di maggior impatto mai prodotte da un regista non statunitense sul suolo americano e si inserisce, di diritto, nel novero delle opere che hanno contribuito agli ultimi bagliori della New Hollywood, tanto a livello di logica produttiva che di spessore artistico.

 

Costa-Gavras – ennesimo grande nome del Cinema europeo approdato a Hollywood in quel periodo - ricevette la possibilità di dirigere e adattare per lo schermo uno dei casi letterari di quegli anni, il libro The Execution of Charles Horman: an American Sacrifice, scritto nel 1978 da Thomas Hauser, e di farlo avendo al suo servizio un cast stellare, guidato da Jack Lemmon e Sissy Spacek.

 

L’opera narra la vicenda del giornalista statunitense Charles Horman, scomparso in Cile nel settembre 1973 durante il golpe guidato dal generale Augusto Pinochet e, attraverso la stessa, riflette sul coinvolgimento degli Stati Uniti nell’evento.

 

Il vero protagonista del film è però Ed Horman, padre del giornalista scomparso, personaggio in grado di incarnare ciascuna delle due anime tematiche del film: la riflessione politica e l’introspezione intimista. Mentre i dubbi dell’anziano uomo sulle colpe degli Stati Uniti si infittiscono, il suo approccio con le azioni del figlio muta e si addolcisce, portando il personaggio a una maturazione tardiva e al completamento della propria prospettiva di padre.

 

Jack Lemmon, che in quest’opera fornisce una delle prove più complesse della sua carriera, è perfettamente in grado di dar vita a un personaggio dolente ma risoluto, che rappresenta al meglio come un cambio di prospettiva sia sempre possibile in ogni stagione della vita, specie se lo si accoglie con l’animo predisposto alla comprensione e attraverso l’esperienza diretta.

 

Il clima di fervore politico fu già avvertibile nella fase di stesura dello script: lo stesso Costa-Gavras ebbe aspri confronti con uno degli altri sceneggiatori, Donald E. Stewart, tanto riguardo la caratterizzazione dell’indole di Horman quanto sulla quantificazione delle colpe addebitabili direttamente al governo statunitense.

Una produzione tutt’altro che semplice, quindi, a cui si aggiunse una complessa fase promozionale: lo studio di produzione Universal non distribuì materiale pubblicitario né comunicati stampa a riguardo e si vocifera che stessero evitando l'esposizione dell’opera per la delicatezza dei temi che trattava.

 

Alla presentazione al Festival del Cinema di Cannes, però, ci furono pochissimi dubbi sulla sua magnificenza: il film vinse la Palma d’oro all’unanimità (ex aequo con un’altra enorme opera impegnata come Yol di Şerif Gören e Yilmaz Güney) e anche il Prix d'interprétation masculine per il commovente Jack Lemmon.

 

Le nomination per gli Oscar del 1983 furono quattro: quella, vinta, per la Miglior Sceneggiatura non Originale, le due per entrambi i protagonisti Lemmon e Spacek e quella per il Miglior Film, vinta da Gandhi di Richard Attenborough.


Missing - Scomparso ha contribuito, dunque, ad aprire un varco ancora più grande per le grandi produzioni statunitensi rette da registi internazionali, a certificare il rapporto tra Hollywood e le cosiddette "opere impegnate", eliminando le etichettature indistinte e le presunzioni di diversità tra le “opere da festival” e “i film da Oscar”.

 

Tutto ciò rispettivamente 35, 37 e 38 anni prima dei successi de La forma dell’acqua, di Parasite e di Nomadland.

 

 Una pietra miliare che non può mancare in una rassegna come questa e nel bagaglio culturale di chiunque ami la Settima Arte.

 

Disponibile su SkyGo, NOW, Chili.

 

[A cura di Jacopo Gramegna

 

Posizione 3

La bella e la bestia

di Gary Trousdale e Kirk Wise, 1991

 

Quando si parla di Premi Oscar è complesso affrontare un discorso completamente dedicato ai film di animazione.

 

Sebbene vi fossero svariati film animati meritevoli, non erano comunque considerati abbastanza, in termini numerici, da creare una categoria interamente dedicata, formatasi poi nel 2001.

Prima di quest’ultima, uno solo di essi è riuscito a gareggiare per la categoria di Miglior Film, vinta quell'anno da Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.


Sto parlando del 30° classico della Walt Disney Feature Animation (ora Walt Disney Animation Studios), diretto da Gary Trousdale e Kirk Wise: La bella e la bestia.

 

Walt Disney in persona, innamorato di numerosi racconti e fiabe, vide la bellezza anche nella storia della Bella e la Bestia, che fu ripescata dalla sua immensa scatola di progetti dai suoi successori solo anni e anni dopo la sua scomparsa.

 

La pellicola ebbe non poche difficoltà in partenza, un lavoro immenso di cui nessuno riusciva davvero a occuparsi: prima di tutto, il progetto iniziale fu passato a più registi, anche ad alcuni già molto facoltosi nella Disney stessa, ricevendo tantissimi rifiuti prima di arrivare a Gary Trousdale e Kirk Wise.


Lo storyboard, intanto, si trasformò in un altro grandissimo problema: bobine su bobine furono riviste, rassettate ed eliminate più e più volte; mentre alcune scene, anche molto interessanti, non vennero mai animate, per altre vennero riutilizzate vecchie animazioni (tra gli esempi più rilevanti sicuramente la scena del ballo finale ripresa dal ballo de La bella addormentata nel bosco).

 

“Riciclare” animazioni non era insolito, al contrario, ma è comunque incredibile considerando la mole di studio, il tempo dedicato e il materiale scartato per la realizzazione.

 

L’armonia creatasi in ogni singolo ambiente fece in modo che il lungometraggio funzionasse alla perfezione e superasse quel paletto che era sempre stato posto tra un film animato e uno live action.

 

Un paletto sicuramente abbattuto da due maestri della tecnica tradizionale: James Baxter e Glen Keane, che animarono rispettivamente, con l’ausilio e il supporto di altri animatori, Belle (Paige O'Hara/Laura Boccanera) e La Bestia (Robby Benson/Massimo Corvo).

 

I due, mossi dal grande amore per il disegno, riuscirono a trarre espressioni, sentimenti e movimenti eleganti e armonici, fermamente umani, seguendo sempre uno studio minuzioso e accurato; è proprio questa grande attenzione che li portò a curare ogni minimo dettaglio.

 

Altro punto cardine fondamentale della Disney erano, soprattutto all’epoca, le canzoni e le musiche, considerate parte integrante della narrazione, motore col quale sviluppare il racconto stesso. Non a caso vennero affidate al paroliere Howard Ashman e al compositore Alan Menken, che riuscirono a portare a casa la statuetta per la Miglior Canzone e per la Miglior Colonna Sonora.

 

Già vincitori degli stessi due premi con La sirenetta, la loro dedizione li rese dal primo incontro una coppia evidentemente affiatatissima ed eccezionale, sotto ogni aspetto. Purtroppo, però, le sorti di Howard Ashman furono tristi e, in quel momento storico, inevitabili: malato di AIDS, morì prima di vedere il suo lavoro integrato perfettamente con la pellicola finale.

 

La paura di presentare un’opera sporca, incompleta e dozzinale, alla fine di quest’incredibile lavorazione, era persistente.

 

Nonostante ciò, La bella e la bestia ricevette sin da subito plausi e lodi, divenendo così uno dei film di animazione tutt’ora più famosi e amati di sempre.

 

Disponibile su Disney+.

 

[A cura di Eris Celentano]

 

Posizione 2

La tigre e il dragone

di Ang Lee, 2000

 

Non si può dire che la carriera del regista taiwanese Ang Lee non sia stata costellata da successi internazionali. 

 

Già con Il banchetto di nozze (1993), suo secondo film, vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e si fa notare dall’Academy con il successivo Mangiare bere uomo donna (1994). 

 

Il suo quarto film sarà Ragione e sentimento (1995), adattamento dell’omonimo romanzo di Jane Austen, che gli varrà la nomination a ben sette statuette e nuovamente l’Orso d’Oro. 

 

Da quel momento in poi la carriera di Ang Lee si divide tra le pulsioni orientali e le suggestioni occidentali.

Famoso al grande pubblico soprattutto per I segreti di Brokeback Mountain (2005) la sua variopinta carriera passerà dal cinecomic Hulk (2003) allo splendido dramma ambientato a Shanghai Lussuria - Seduzione e tradimento (2007), per cui vinse il Leone d’oro alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia

 

Vince l’Oscar per la Miglior Regia ben due volte: per il già sopracitato I segreti di Brokeback Mountain e per Vita di Pi nel 2012.

 

Perché questo preambolo?

 

Un anno dopo la sorprendente vittoria di Parasite agli Oscar il mondo occidentale, non solo quello dei cinefili irriducibili e dei grandi festival europei ma anche quello distributivo e commerciale, ha aperto qualche porticina in più al Cinema orientale. 

Si può parlare a lungo del minore riconoscimento artistico del Premio Oscar rispetto ai festival del Vecchio Continente, ma è indiscutibile il valore sociale che la vittoria o una candidatura a una o più statuette apportano. 

 

Sicuramente Ang Lee ha contribuito a sdoganare agli occhi dell’Academy il fantastico e ampissimo mondo dei Cinema con gli occhi a mandorla, in particolare con il film in questione: La tigre e il dragone (2000).

 

Nel 2000 il mondo intero fece la conoscenza del wuxia, genere identificativo delle opere che raccontano le gesta degli artisti marziali.

La tigre e il dragone vinse quattro Premi Oscar, come Miglior Film in Lingua Straniera e per la Fotografia, la Scenografia e la Colonna Sonora, oltre ad essere candidato nella cinquina dei Miglior Film.

La statuetta per il premio più prestigioso finì però nelle mani de Il Gladiatore.

 

Il film è tratto dal quarto libro della Crane-Iron Pentalogy di Wang Dulu e parla di Li Mu Bai, grande maestro di arti marziali che vuole smettere di combattere e affida alla sua compagna e grande guerriera una spada forgiata con metallo indistruttibile.

Quando quest’arma viene derubata i due innamorati intraprendono una grande avventura per recuperarla. 

 

Il film, seppur intriso di confucianesimo e taoismo, è modellato su un melodramma senza confini territoriali e su una storia d’amore atemporale.

La trama stilizzata lascia spazio alle coreografie di Yuen Woo-ping, lo stesso che lavorò per Matrix, acrobazie per aria con movimenti fluidi come in una danza, balzi e duelli surreali come nella più gloriosa tradizione del genere. 

L’arte marziale è quindi poesia del corpo.

 

Nel cast ci sono grandi star del cinema cinese come Zhang Ziyi e Chow Yun-fat

 

La tigre e il dragone è un film fiabesco che fa un uso saggio delle tecnologie digitali occidentali per mostrare al mondo intero, perlopiù ignaro dei maestri del wuxia come Chang Cheh e Tsui Hark, il mondo silenzioso e il codice d’onore di eroi e - soprattutto - eroine del mito. 

 

Il film, costato 15 milioni di dollari, ne ha incassati quasi 130 solo negli Stati Uniti, dove diventò il film straniero ad aver incassato di più fino a quel momento. 

 

Disponibile su Rakuten TV e Google Play

 

[A cura di Lorenza Guerra

 

Posizione 1

Amour

di Michael Haneke, 2012 

 

La scelta di questo titolo fra la lunga sequela di pellicole del panorama del decennio da poco conclusosi arriva da un intento preciso: quello di domandarmi quanto conti una singola, intima idea nel processo produttivo di un film.

Può la più personale delle ricerche individuali coinvolgere il mondo intero e sfiorare l’apice del riconoscimento nel suo settore artistico di riferimento? 

 

Amour è, in questo, un fulgido esempio di piccola produzione transnazionale (Francia, Germania e Austria) che fra il 2012 e il 2013 ha racimolato premi di ogni sorta - dall’Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera alla Palma d’oro a Cannes - sfiorando il Premio Oscar per il Miglior Film.

 

Amour trovò la sua gestazione da un dilemma caro al suo ideatore e creatore, Michael Haneke: “Come è possibile gestire le sofferenze di una persona cara?”

 

Il film è la vita stessa ridotta all’osso: due anziani insegnanti di pianoforte in pensione, la loro vecchiaia, la loro casa. 

Haneke è magistrale nell’elencare gli spazi arredati abitati da decenni tramite diapositive in inquadrature fisse, tipiche della sua poetica. Un taglio registico sottilmente voyeuristico ci consente di spingere il nostro sguardo ai margini della vita e dell’amore. 

Fra le due, il dolore. 

 

Un ictus improvviso di Anne spezza la sottile, placida esistenza dei due coniugi.

George si prende coraggiosamente cura di lei, ma farà presto i conti proprio con l’intollerabile domanda postagli dal regista: “Come sopportare il dolore di chi si ama, quando esso si porta alle estreme conseguenze?”

 

Film come Amour sono in grado di misurarsi con i temi umanamente perenni. Non esiste confine geografico o epocale che non si senta interpellato da essi. 

È forse questo il segreto che ha portato l’esperienza familiare privata di Michael Haneke a divenire un piccolo film da qualche milione di dollari di budget che viene nominato agli Oscar 2012 come Miglior Film. 


Questa sua portata incontenibile è probabilmente ciò che lo ha allontanato dalla statuetta più prestigiosa, che quell’anno fu assegnata ad Argo, di Ben Affleck; un film artisticamente valido, ma al contempo una produzione che mescola sapientemente l’autocelebrazione della linea politica statunitense - dei suoi valori e delle sue imprese - con la spettacolarità dei mezzi espressivi del Cinema hollywoodiano.

 

Un’accoppiata troppo ghiotta perché potesse sfuggire ai tradizionali criteri di selezione dell’Academy per celebrare la miglior produzione dell’anno.

 

Giunti al termine di questa selezione di film, a formare una catena di gioielli lungo una buona fetta di Storia del Cinema, risulterà chiaro a chi legge quanto esistano molteplici ragioni, probabilmente tutte a loro modo valide, per stabilire chi debba primeggiare in questa categoria.

È giusto che ogni Festival e organizzazione più o meno cinefila si impegni ad argomentare le proprie e a riconoscere quelle altrui, per poterle intepretarle più correttamente. 

 

Film come Amour ci ricordano tutti gli anni (non per ultimo nell’edizione appena trascorsa, con The Father) che talvolta sono le pellicole che sanno narrare i sentimenti umani più indigesti come il dolore, il rancore, l’invidia e l’indolenza quelle che uniscono gli spettatori di tutto il mondo in un unico ammirato gesto di riconoscimento artistico.

 

Recente esempio è stato senza dubbio il successo mondiale di Parasite - in questo caso tanto a Cannes quando al Dolby Theatre – dove Bong Joon-ho ci ha dimostrato come si possa partire dal cuore di un seminterrato di periferia coreano e raggiungere i nostri, di cuori.

 

Per un anno e più e, forse, per sempre.

 

Disponibile su Prime Video. 


[A cura di Sebastiano Miotti

 



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1 commento

Lorenza Guerra

3 anni fa

Grazie a te per darci sempre supporto 🥰

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