L'horror italiano nel suo periodo di massimo splendore - idealmente tra i primi anni '60 e metà anni '80 - veniva puntualmente snobbato, sminuito e ignorato dalla critica nostrana, per classismo più che per demeriti.
A quei tempi il bel paese poteva vantare una schiera di autori figli del periodo neorealista e sfociati nella corrente delle commedie all'italiana, passando da Federico Fellini fino a Mario Monicelli, con tutto ciò che stava nel mezzo.
Era soprattutto su di loro che si concentrava la critica, tanto che tutto ciò che andava oltre i limiti della commedia o del dramma veniva bollato come una sterile scimmiottatura d'importazione extra-europea.
All'epoca, forse, gli unici ad accorgersi dell'importanza, del valore e dell'innovazione del Cinema di genere italiano erano quelli che 20 o 30 anni dopo finirono col diventare elementi di spicco dell'industria cinematografica mondiale: da John Landis a Tim Burton, da Sam Raimi a Joe Dante, oltre a tutti i registi di film basati sul finto found-footage (The Blair Witch Project su tutti), l'influenza del Cinema horror italiano è tanto evidente quanto, ormai, sdoganata.
Lo stesso Quentin Tarantino, non uno con la puzza sotto il naso ma certo neanche un mestierante generico, ha affermato che Mario Bava è "nel pugno dei suoi registi preferiti" e "il suo primo eroe".
Il circuito produttivo (di tutto l'underground cinematografico italiano, che conta anche i gialli, i poliziotteschi e i film erotici) di cui parliamo era incredibilmente prolifico: i registi a cui venivano affidati i film di genere - nati e pensati per piacere al pubblico, si ricorda - dirigevano spesse volte più di un film all'anno, con mezzi minimi e con l'impellente necessità di rivolgersi anche ai mercati esteri.
Paradossalmente però l'idea di utilizzare degli pseudonimi dal sapore esotico risponde più all'esigenza di vendere il proprio prodotto sul suolo italico, e non all'estero: così Mario Bava divenne John Old perchè il pubblico italiano, così affamato di pellicole e stili anglosassoni, ne era più attirato; così anche Antonio Margheriti divenne Anthony M. Dawson, e molti altri dopo di loro.
La produzione bulimica di quegli anni ha prodotto decine di film horror mediocri, spesse volte perchè affidati a registi di bassa lega o per colpa delle ingerenze dei produttori; un caso eclatante è quello dell'abominevole La casa dell'esorcismo, diretto da Bava ma rimontato - e in parte rigirato - dal produttore Alfredo Leone per dargli un aspetto simile a quello dell'Esorcista di William Friedkin (esiste comunque una versione "director's cut" chiamata Lisa e il diavolo, decisamente superiore sotto ogni punto di vista).
Tuttavia quella macchina produttiva ha dato la possibilità a tre generazioni di registi di confrontarsi con il Cinema commerciale mettendo in mostra estro e autorialità che all'estero erano difficili da trovare. Il caso dell'horror gotico è esemplare in tal senso.
Praticamente tutti i registi di genere italiani degli anni '60 si sono confrontati con questa particolare corrente orrorifica.
[Il trailer de I vampiri, di Riccardo Freda]
Il primo fu Riccardo Freda col suo film I vampiri (fotografato e co-diretto dall'onnipresente Bava), che benché fosse ambientato in epoca contemporanea in un paese occidentale come la Francia - e quindi lontano dalle inquietanti location inglesi o slave di fine settecento, tipiche del genere - vedeva parte dell'intreccio svolgersi dentro un castello decadente che pareva sospeso nel tempo.
Passaggi segreti, riti misteriosi e una particolare attenzione verso il sangue sono alcuni degli elementi che si vedranno più spesso nei film a seguire.
Tra questi si citano L'amante del vampiro di Renato Polselli, Danza Macabra di Margheriti, Il mulino delle donne di pietra di Giorgio Ferroni, L'orribile segreto del dottor Hichcock di Freda, La maschera del demonio, grandioso film d'esordio di Bava, le cui atmosfere sono state enorme fonte di ispirazione per Tim Burton, che gli rende omaggio nel suo giallo gotico Il mistero di Sleepy Hollow.
Il gotico in Bava si può trovare anche nel sadico La frusta e il corpo, nell'inquietantissimo Operazione paura, e nel capolavoro I tre volti della paura, che si inserisce nella tradizione degli horror a episodi che faranno la fortuna di registi come Roger Corman e George Romero.
Gli anni '60 videro inoltre buona parte dei registi di genere impegnati in lavori che inserivano degli elementi horror in storie che, almeno a parole, cercavano di non essere estreme nè dal punto di vista visivo nè concettuale.
È il caso del peplum-horror, in cui tali elementi soprannaturali - dagli zombi ai fantasmi - venivano uniti ai sandaloni.
I più noti sono senza dubbio Ercole al centro della terra di Bava, Ursus nella terra di fuoco di Giorgio Simonelli, e soprattutto Maciste all'inferno di Freda, degno di particolare merito per alcune sequenze di proto-splatter e per il memorabile prologo, citato dal grande Roger Corman nel suo La città dei mostri.
Lo stesso Cinema giallo in quel periodo inizia a contaminarsi con l'horror, introducendo l'eccesso visivo nella rappresentazione dei delitti e l'attenzione morbosa verso gli stessi.
Se l'apripista in tal senso può essere considerato Sei donne per l'assassino di Bava del 1964, è indubbio tuttavia che il picco artistico di tale commistione di generi si abbia negli anni '70, durante i quali altri due grandissimi del Cinema di genere italiano si fecero strada, uno con una sconfinata produzione di film low budget e l'altro invece con grandi mezzi capaci di regalargli fama e successo.
Si tratta di Lucio Fulci e Dario Argento, i cui maggiori risultati in tal senso sono sicuramente Non si sevizia un paperino e Sette note in nero per il primo e L'uccello dalle piume di cristallo e Profondo rosso per il secondo.
I lavori appartenenti a questo filone iniziarono a concentrarsi in particolare sugli aspetti psicologici della figura dell'assassino e sui risvolti erotici dell'intreccio; in tal senso Una lucertola con la pelle di donna di Fulci è esemplare, nella descrizione del personaggio interpretato da Florinda Bolkan, pericolosa e violenta quanto sensuale e passionale, così come merita di essere citato I corpi presentano tracce di violenza carnale di Sergio Martino.
In ultimo è impossibile non citare La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, inquietantissimo e morboso cult ambientato nella pianura padana.
Con la fine del decennio la rappresentazione dell'efferatezza si spinge sempre di più verso l'estremo, il gore diventa pane quotidiano dei registi di genere, che continuano a raccogliere il successo del pubblico e il disprezzo dei critici.
Il film della svolta è Zombi 2 di Fulci, sequel apocrifo del 1979 di Dawn of the dead (Zombi in italiano) di George Romero.
Da qui in poi la scena horror italiana si tinge di splatter, spingendosi verso eccessi sempre maggiori.
[Il trailer di Zombi 2, di Lucio Fulci]
Alcuni tra i film maggiormente ricordati di questo periodo sono Buio Omega di Joe D'Amato, Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi - altri due grandissimi del Cinema estremo - e soprattutto la Trilogia della morte di Fulci, il cui picco è ...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà, horror di ispirazione lovecraftiana che decide definitivamente di mettere in secondo piano la coerenza logica del plot rispetto alla visceralità e all'impatto delle scene splatter.
Seguendo la ripidissima escalation della rappresentazione della violenza, gli anni '80 danno il via al filone dell'horror definito cannibal movie, ovvero banalmente i film sui cannibali e sul cannibalismo.
Questa corrente era una violentissima commistione di horror, avventura e erotismo, e ha prodotto alcuni tra i film più estremi della Storia del Cinema, tra i quali è giusto citare La montagna del dio cannibale di Martino, Antropophagus di D'Amato, Zombi Holocaust di Marino Girolami, e soprattutto il grandissimo e shockante Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, che con questo film mette le basi per il filone horrorifico del finto documentario o del finto found footage, che in tempi recenti è tornato alla ribalta con lavori come il già citato The Blair Witch Project, REC e Paranormal Activity.
Riguardo l'horror italiano degli anni '70 e '80 merita un discorso a parte Dario Argento, sicuramente la figura più prestigiosa e conosciuta del nostro panorama.
Argento col tempo ha dimostrato di essere uno tra i migliori recettori della lezione di stile baviana.
Il suo capolavoro Suspiria, retto da una grandiosa colonna sonora firmata di Goblin, è uno spettacolo per gli occhi.
Il film riesce a essere un perfetto punto di incontro tra l'atmosfera gotica dell'horror classico (merito delle grandiose scenografie e della sfuggevole e inquietante sceneggiatura) e la morbosità dei delitti della nascente scuola splatter (indimenticabili lo squartamento di Pam nei primi minuti del film e la fuga sul filo spinato di Sarah).
Argento col tempo perse parte del suo smalto iniziale, con il quale mise in mostra la sua voglia di sperimentare e il suo innato gusto estetico.
L'enorme successo di Profondo rosso e Suspiria regalò ad Argento una ricetta che gli permise di dirigere altre pellicole destinate sì a grandi incassi, ma senza la freschezza e l'originalità dei primi lavori.
Quando anche Fulci iniziò ad accusare il peso del tempo, il tempo dell'horror italiano finì inesorabilmente, e quella strepitosa macchina produttiva si inceppò.
Il lascito di quel periodo è incarnato in due figure che, se fossero vissute venti anni prima, avrebbero avuto molto da mostrare al pubblico.
Il primo è Lamberto Bava, figlio di Mario, che prima di dedicarsi al fantasy per la tv lascia il segno del suo passaggio con Macabro, che si inserisce nel filone dei thriller morbosi, e soprattutto con il cult Dèmoni, scanzonato quanto fantasioso esperimento di comedy horror che non si prende sul serio e che punta tutto sui grandi effetti speciali di Sergio Stivaletti.
Il secondo è Michele Soavi, che se solo ne avesse avuto l'opportunità sarebbe stato la punta di diamante dell'horror italiano anni '90 e 2000.
Memorabili, tra i suoi film, Deliria, slasher di chiara ispirazione argentiana, e Dellamorte Dellamore, misterioso mix di horror gotico, film di zombi e commedia nera.
Ma quali, tra i film qui sopra, sono i migliori otto?
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Posizione 8
Dèmoni (1985)
regia di Lamberto Bava
Deliria (1987)
regia di Michele Soavi
Probabilmente iniziare la classifica con un ex-aequo non è il massimo dell'onestà intellettuale, tuttavia entrambi questi film meritano il gradino più basso della classifica perché rappresentano quello che poteva essere - e che purtroppo non è stata - la nuova generazione di cineasti horror italiana.
Con loro si è bruscamente interrotta la grande tradizione italiana dell'horror con pochi soldi ma ricco di mestiere e di inventiva.
Qualunque sia il motivo di questo sciagurato cambio di rotta, resta il fatto che Lamberto Bava e Michele Soavi avrebbero dovuto essere le punte di diamante del cinema di genere nostrano dalla fine degli anni '80 in poi.
Il primo, forte dell'esperienza accumulata negli anni in cui ha affiancato il padre Mario, nel 1985 ha già diretto 4 film (tra i quali l'ottimo Macabro) e questo Dèmoni rappresenta per lui il lavoro della svolta; con l'aiuto di Dario Argento in cabina di produzione, Lamberto Bava dirige uno degli horror più divertenti degli anni '80.
La storia è semplice quanto volutamente improbabile e sopra le righe: durante l'inaugurazione di un cinema una ragazza, tagliatasi il volto con una maschera d'argento dalle fattezze demoniache, si trasforma essa stessa in un demone contagiando chiunque riesca a ferire.
Così all'interno del cinema si scatena una lotta tra gli infetti e i non-infetti che tentano di fuggire trovandosi in numero sempre minore.
Non è un mistero che questo film pecchi soprattutto nella sceneggiatura e nelle recitazioni, tuttavia queste mancanze non inficiano il valore di un lavoro scanzonato e così volutamente senza cervello da ricordare, negli intenti, L'armata delle tenebre di Sam Raimi, che forse trae parte della sua ispirazione proprio dalla pellicola di Bava.
Se i difetti sono così evidenti, ancor di più lo sono i pregi: limitandoci a citare la fantasia e la cura degli effetti speciali oltre alla peculiare quanto azzeccata colonna sonora heavy metal, è doveroso affermare che Dèmoni spicca sopratutto per il ritmo delle sequenze d'azione e per il gusto estetico del suo regista.
Al contrario di Bava Michele Soavi nel 1987 è al suo esordio sul grande schermo con il gigantesco Deliria, uno slasher realizzato sotto l'ala di Joe D'Amato nel ruolo di produttore.
Anche questo presenta una trama semplice che molto deve ai grandi registi di genere, tra i quali anche John Carpenter (esplicitamente citato durante il film), in cui cast e tropue di uno spettacolo teatrale si trova rinchiuso in un teatro insieme a un pericoloso psicopatico fuggito dal manicomio criminale.
Dalla messa in scena del film è chiara l'ispirazione stilistica di Soavi a Dario Argento, tanto che Deliria pare quasi una versione riveduta e corretta del ben più che zoppicante Opera, girato da Argento nello stesso anno.
Da quest'ultimo Soavi non tiene l'eleganza formale (poi comunque affinata nel tempo fino al bellissimo Dellamorte Dellamore), ma certo sembra aver imparato la gestione delle sequenze horror: gli omicidi messi in scena sono carichi di tensione e il regista milanese riesce a utilizzare al meglio la location teatrale; memorabile in tal senso la sequenza in cui l'assassino, impassibile e imperscrutabile, rimane in attesa seduto al centro del palco, circondato dai cadaveri delle sue vittime.
Col tempo sia Bava sia Soavi hanno indirizzato il proprio lavoro verso lidi televisivi lasciando il cinema in secondo piano, nonostante entrambi possano vantare una carriera cinematografica di tutto rispetto; eppure, nonostante ciò, il rammarico di non aver potuto ammirare fino in fondo le capacità di due registi tanto meritevoli (e di tutti quelli che, a seguire, non hanno incontrato un mercato favorevole) rimane.
Posizione 7
La casa dalle finestre che ridono (1976)
regia di Pupi Avati
Probabilmente La casa dalle finestre che ridono è il film in classifica che meno si adatta all'inserimento nel genere horror propriamente detto.
Quello che dirige Pupi Avati nel 1976 è un thriller, neanche particolarmente violento, che trova il suo spazio nel Cinema di terrore grazie all'atmosfera morbosa che si respira dall'inizio alla fine.
Il senso di smarrimento, di solitudine e di follia offerto da questo film non si trova in nessun'altra pellicola thrilling girata in Italia.
Stefano (Lino Capolicchio) è un restauratore chiamato da un paese della Bassa padana per lavorare su un affresco ritrovato all'interno di una chiesa; il dipinto, che ritrae un uomo morente trafitto da dei pugnali, venne dipinto da Bruno Legnani, pittore maledetto caduto nella pazzia.
Quando un amico di Stefano, Antonio (Giulio Pizzitani), muore in circostanze misteriose, il restauratore si trova solo, in questo paese che sembra sapere più di quanto dice sul Legnani, a indagare sul significato del dipinto e sul suo autore.
Avati ha l'idea geniale di spostare il teatro dell'azione in quella che Mereghetti difinisce una Bassa padana "assolata, sonnacchiosa e piena di scheletri nascosti negli armadi".
L'ambientazione richiama le atmosfere di Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, nel quale i paesaggi lucani rimarcavano la distanza fra una mentalità ancora legata alle tradizioni e alle credenze popolari e la modernità di ciò che sta oltre le autostrade; nel thriller di Avati si aggiunge, oltre alla cultura conservatrice e diffidente del paese, la componente horrorifica della figura del Legnani.
Nei racconti degli abitanti della cittadina sul pittore si respira un'aria malsana, fatta di lussuria, morbosità e morte.
Il "pittore delle agonie", la cui malattia mentale è percepibile nel terrificante incipit, è una figura ambigua; da una parte vittima - della sua malattia e delle forze oscure che lo muovono - e dall'altra inquietante messaggero di morte - nel dipingere i suoi quadri e legandosi alla schiera di morti che sembra non tangere l'indifferente paese - anche a distanza di anni dalla sua dipartita.
La casa dalle finestre che ridono trae il meglio dai migliori thrilling del periodo, risultando un'opera atipica e fuori dagli schemi, rifiutando di concentrarsi sul mistero in sé (come vuole la tradizione iniziata con La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava) preferendo invece un approccio più viscerale fatto di atmosfere inquietanti, porte che sbattono, misteriosi passi nella notte, una costante musica lugubre, depositi di ossa sotterrati vicino una casa dalle finestre sorridenti.
Non il più sanguinario della gloriosa tradizione italiana ma senza dubbio uno dei più sconvolgenti.
Posizione 6
Cannibal holocaust (1980)
regia di Ruggero Deodato
Cannibal holocaust non fu l'apripista del filone tutto italiano dei Cannibal Movies, ma ne è senz'altro l'esemplare più famoso e quello con cui di solito si tende a identificare l'intero genere.
Il regista, Ruggero Deodato, fu uno dei primi (insieme a Joe D'Amato e Umberto Lenzi) a lavorare a questo nascente sottogenere con le altre pellicole appartenenti alla Trilogia dei cannibali, di cui questo è il secondo film, memorabile per influenza e realizzazione.
Si tratta del primo film in cui si porta la tecnica del falso documentario, o del finto found footage, in un contesto horror.
Questo escamotage sarà poi ripreso spesso e volentieri in maniera assai meno originale in tempi recenti in lavori come The Blair witch project e Paranormal activity, debitori di una enorme fetta del loro successo al lavoro firmato Deodato.
Una troupe di reporter viene spedita in Amazzonia per girare un documentario sulle tribù cannibali indigene, ma dopo qualche mese non danno più loro notizie.
Il professor Harold Monroe (Robert Kerman) viene incaricato di trovarli, ma giunto sul posto ne trova solo i resti e parte del loro filmato, testimone degli avvenimenti di quei giorni.
Il film ha il grande - enorme - pregio di non utilizzare l'escamotage del falso documentario col fine esclusivo di conferire un maggiore senso di realismo alla vicenda, bensì lo sfrutta per imbastire un discorso quasi metafilmico sul ruolo del mercato dell'informazione nella società moderna.
I giornalisti, annoiati dai costumi in qualche modo accoglienti degli indigeni e desiderosi di un successo che questi filmati non possono offrire, decidono di manipolare la realtà filmando le loro proprie messe in scena di violenza, assassini e stupri: il tutto per il bene dell'emittente tv che trasmetterà quelle immagini.
Il messaggio di critica al sistema d'informazione è fortissimo, tanto che la violenza mostrata è solo di riflesso accostata agli indigeni, che rispondono con inaudita ferocia solo dopo aver assistito al raccapricciante teatrino organizzato dall'"uomo civilizzato".
La pellicola non si risparmia con le scene di sangue, mostrando quelle che per l'epoca (ma anche oggi) erano riprese al limite della sopportazione.
Doveroso citare poi il fatto che tale realismo metacinematografico si sia spinto ben oltre le sale dei cinema (dalle quali il film venne ritirato in fretta e furia), dati gli innumerevoli problemi che ebbe Deodato con la giustizia quando i suoi protagonisti sparirono dalla circolazione subito dopo la distribuzione.
Davanti ai giudici il regista mostrò alcuni dei trucchi utilizzati durante le riprese, tra i quali anche il famoso impalamento dell'indigena, apparso poi anche sulle locandine.
Un film storico per innovazione e raffinatezza, ma anche una pellicola di culto imperdibile per i fan del Cinema estremo.
Posizione 5
Danza macabra (1964)
regia di Antonio Margheriti
Nel 1964 Antonio Margheriti (sotto lo pseudonimo di Anthony M. Dawson) dirige Danza macabra, che potrebbe essere considerato a tutti gli effetti il miglior film di fantasmi girato in Italia.
Al contrario di altri film del medesimo filone usciti nello stesso periodo (tra i quali si ricordano Suspance di Jack Clayton e il grandioso Gli invasati di Robert Wise), gli sceneggiatori del film Corbucci e Grimaldi decidono di abbandonare l'ambientazione contemporanea e di immergere il racconto a Londra ai tempi di Edgar Allan Poe.
L'intreccio parte dallo stesso Poe (Silvano Tranquilli) che, dentro una taverna, racconta una delle sue terrificanti storie a un giornalista, Alan Foster (Georges Rivière), e a un ricco latifondista, Lord Blackwood (Umberto Raho) che, visto lo scetticismo del cronista nei confronti del mondo sovrannaturale, gli propone una scommessa: passare la notte dei morti al castello abbandonato dei Blackwood.
Al contrario dei due grandi successi di cui sopra, Danza macabra è, a tutti gli effetti, il film di fantasmi propriamente detto. Invece di soffermarsi sui risvolti psicologici dei protagonisti (come il senso di colpa nel film di Wise o il pregiudizio sociale / sessuale nel film di Clayton), Margheriti decide di concentrarsi sulle ambientazioni gotiche, sulle atmosfere tetre e misteriose, sul vano penare delle anime morte.
Quello a cui si assiste durante la visione è l'immersione di un everyday man in un ambiente ostile e imperscrutabile che nel tempo è stato teatro di scandali, assassinii, follia e suicidi.
Il povero cronista diventa quindi testimone del miserabile destino delle anime dannate all'interno del castello Blackwood, assistendo inerme alla danza che ripetono ogni notte dei morti.
La danza macabra a cui allude il titolo si riferisce al vano aggirarsi dei fantasmi tra le mura del castello che, senza alcuna meta o scopo, rivivono in eterno gli istanti che ne hanno preceduto il trapasso, una terrificante e allucinata messa in scena.
Nei momenti tra una di queste pantomime e la successiva le anime in pena sono mosse da un impeto vitale che le tiene incatenate al mondo terreno: l'invidia dei morti per i vivi è il vero cardine della ghost story.
Il film trova i suoi punti di forza nell'iconico volto di Barbara Steele e nella grande cura della messa in scena.
Tutto ciò che accade all'interno del castello non ha mai la parvenza di essere reale: i tagli di luce sono marcatamente espressionisti (le candele sono un misero inganno), e la scelta delle inquadrature porta lo spettatore a pensare continuamente a un'illusione, una pantomima appunto, una danza.
Margheriti tocca, con questo film, il punto più alto della sua carriera nel Cinema horror (diventerà poi un regista di culto del genere fantascientifico con il suo Ciclo di Gamma Uno): un'opera essenziale che oggi patisce leggermente il peso del tempo ma il cui ruolo nel panorama italiano e nel filone orrorifico è innegabile.
Posizione 4
I tre volti della paura (1963)
regia di Mario Bava
Dal 1960 al 1964 Mario Bava vide il suo periodo più prolifico e più denso di grandi film, tra i quali è giusto ricordare Sei donne per l'assassino, La ragazza che sapeva troppo, La frusta e il corpo e soprattutto il capolavoro I tre volti della paura.
Il film, distribuito col nome Black Sabbath per il mercato anglosassone, occupa la quarta posizione in classifica perchè è uno degli horror a episodi migliori che si siano mai visti, e una delle tante conferme delle capacità del suo regista nel creare tensione, nel saper sfruttare i pochi mezzi a disposizione, e nel non prendersi troppo sul serio.
La cornice del film è affidata a Boris Karloff, che dopo essersi presentato ci introduce alle tre storie a cui assisteremo, tre topoi del cinema di suspense a cui ci ha abituato Bava: il thriller (o thrilling come voleva la nascente tradizione italiana), l'horror gotico - in cui compare lo stesso Karloff come protagonista - e la ghost story.
Il primo dei frammenti, Il telefono, è quello che utilizza meno risorse tra i tre.
Probabilmente mosso dall'idea di sviluppare la tensione in crescendo, Bava elimina da questo segmento qualunque elemento sovrannaturale, utilizzando come solo strumento di paura una serie di telefonate minatorie ricevute da una donna sola in casa.
La scarsità di mezzi con cui è stato girato rende questo primo episodio un vero esercizio di stile, non il più ricordato dei tre ma il più essenziale.
L'angusto appartamento in cui è stato girato e i grandi movimenti di camera aiutano a creare un'atmosfera claustrofobica e senza via d'uscita.
Segue I Wurdalak, tratto da un racconto di Tolstoj, in cui Karloff interpreta un padre di famiglia che, in un'ambientazione gotica settecentesca est-europea, rimane vittima di una forma di vampirismo che sta spaventando gli abitanti della zona.
Karloff viene contagiato e porta la piaga in casa sua, colpendo uno per uno tutti i membri della famiglia.
Il motivo per cui questo frammento è ricordato è un presto detto: l'estro artigianale del regista tocca qui probabilmente il suo punto più alto (forse solo Terrore nello spazio gli è superiore sotto questo punto di vista), con grande merito delle scenografie (curate da Giorgio Giovannini) e della fotografia.
Pensare al risibile budget del film non fa che accentuarne la qualità: questo secondo episodio fu la dimostrazione che, anche con mezzi scarsissimi e a prescindere dalle condizioni di partenza, con l'inventiva e la tecnica si potessero comunque girare dei magnifici lavori; è la prima avvisaglia dell'horror low-budget che fece fortuna solo vent'anni dopo.
L'ultimo e più terrificante episodio è La goccia d'acqua, in cui il gusto barocco per le illuminazioni del regista esplode in un tripudio di colori.
Helen Chester (Jacqueline Pierreux) è una donna di servizio chiamata a vestire il cadavere di una donna morta nella notte.
L'aspetto terrificante della donna non riuscirà comunque a impedirle di sottrarle l'anello che porta al dito.
La ghost story presentata dal regista è la più classica delle storie di vendetta, ma l'assoluta perfezione della messa in scena rende questo frammento il più spaventoso, il più ricordato e forse anche il più universale data la percezione di sospensione temporale e spaziale che si avverte durante la visione, merito del lavoro strepitoso sulle luci e sui colori.
Ma la vera genialità del regista sta nel monologo finale, affidato nuovamente a Boris Karloff, che attraverso una frase beffarda ("Non entrate al buio e... sognatemi! Diventeremo amici!") accompagnata da una carrellata all'indietro mostra l'inganno del cinema, che anche con pochi mezzi è in grado di generare nello spettatore reazioni viscerali autentiche eppure assolutamente costruite ad'arte.
I tre volti della paura è il manifesto della visione di cinema di genere come Cinema d'intrattenimento: spaventoso, artigianale e beffardo.
Queste tre caratteristiche saranno fondamentali per la concezione del cinema horror a seguire, il cui culmine potrebbe essere identificato con la Trilogia della Casa di Sam Raimi, uno che nel genere ha fatto scuola.
Posizione 3
...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà (1981)
regia di Lucio Fulci
Pochi film dell'orrore riescono a raggiungere un livello di intensità visiva così alto da nascondere i limiti presenti in sceneggiatura.
...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà è uno di quei film che non solo li nasconde, ma riesce perfino a sminuirne l'importanza - dei limiti -, ricordandoci che la natura viscerale del cinema horror ne impone primariamente la natura di esperienza, ancor prima che di testo.
Lucio Fulci, soprannominato Godfather of Gore e Poeta del Macabro, decide nel suo film del 1981 - seconda parte della Trilogia della Morte - di mettere da parte ogni velleità di tipo narrativo, concentrandosi quasi esclusivamente sull'impatto delle scene splatter e lasciando in secondo piano la coerenza narrativa del plot.
Il film racconta di un libro maledetto, l'Eibon di lovecraftiana memoria, al cui interno sarebbero rivelate le posizioni deI sette varchi dell'Inferno.
Una giovane newyorkese, Liza Merril (Catriona MacColl), eredita l'hotel Sette Porte che sorge proprio su uno di questi varchi.
Liza decide di ristrutturare l'hotel, ma misteriosi incidenti iniziano a verificarsi sempre più di frequente, con tragiche conseguenze per chi gravita attorno all'albergo.
La trama potrebbe tranquillamente chiudersi con queste poche righe, dato che gli avvenimenti che si susseguono sembrano quasi non avere alcuna soluzione di continuità.
Col passare dei minuti il film ingaggia una vera e propria lotta di resistenza con lo spettatore, che fin dall'incipit è chiamato ad assistere a avvenimenti di immane violenza (l'esecuzione del pittore) e al manifestarsi di fenomeni che mettono in dubbio la natura stessa del mondo in cui è ambientata la storia.
Già dopo la prima mezzora risulta impossibile non notare una enorme incoerenza nello svolgimento dei fatti: se il tempo relativo per la protagonista scorre in un certo modo, così non è per alcuni tra gli altri personaggi; i collegamenti spaziali risultano finti, studiati (il campo lungo sull'autostrada mostra un paesaggio desolato avvolto da un'aura di mistero); tutto dà l'impressione di essere alieno al mondo di tutti i giorni.
La grandezza de L'aldilà sta proprio in questo: si tratta di una delle più grandi rappresentazioni dell'Inferno mai portate sullo schermo.
L'inferno in questione non è necessariamente quello rappresentato dall'immaginario collettivo cristiano, tutt'altro.
Si tratta di un luogo / non-luogo in cui chi vi entra vive in balia di forze che rendono possibile l'avverarsi delle sue paure più nascoste.
L'assenza di un disegno superiore o di una qualsivoglia ragione (per quanto crudele e diabolica sia) a tutto ciò a cui i personaggi sono costretti ad assistere è il riflesso metacinematografico dell'assenza di continuità narrativa, il cui risultato finale è un tremendo e terrificante caos, davanti al quale non si può far altro che perdere la vista: la visione dell'Inferno non può permettere a nessuno di continuare a vedere.
Il film vive dell'impossibilità di cogliere la ragione intrinseca della violenza mostrata, e si crogiola nel suo eccesso senza risparmiare mai lo spettatore.
Si tratta probabilmente dell'horror più riuscito di Fulci insieme a Paura nella città dei morti viventi e Zombi 2, che però non riescono a raggiungere le vette di puro terrore che è in grado di offrire L'aldilà.
Il miglior splatter italiano e uno dei migliori della Storia del Cinema.
Posizione 2
Suspiria (1977)
regia di Dario Argento
Nel 1977 Dario Argento è reduce del grande successo di Profondo rosso, con il quale il regista romano inizia a prendere le distanze dal thriller all'italiana che, con L'uccello dalle piume di cristallo, gli aveva regalato la fama.
Profondo rosso segna quindi una linea di demarcazione che separa il periodo giallo dal periodo horror, che con Suspiria ha il suo inizio e - purtroppo o per fortuna - anche il suo apice.
Il film è una favola barocca che inizialmente sembra puntare sulla rappresentazione scenica di spettacolari omicidi compiuti da una mano ignota, esattamente come il precedente film del regista.
Col passare dei minuti diventa evidente però la differenza di intenti che separa i due film: Profondo rosso mette in scena un'indagine che cerca di dare allo spettatore diverse tracce da seguire per arrivare a un colpevole (benché tutto sia inutile e l'escamotage visivo per la risoluzione del caso denunci l'assenza di un intreccio à la Agatha Christie); al contrario, Suspiria immerge la protagonista e lo spettatore in un mondo alieno, sottilmente ostile, dalla natura ambigua e imperscrutabile, le cui manifestazioni - la pioggia di vermi - ne sono chiave di lettura.
La protagonista è Susy Benner (Jessica Harper), una ballerina americana giunta a Friburgo per studiare in un'accademia di danza.
Susy si trova immersa in un gioco di cui è parte anche lei e di cui non riesce ad avere una visione d'insieme: compagne di corso scomparse, strane figure che si aggirano per la scuola, rumori nella notte, una generale percezione che qualcosa non vada.
L'intreccio rivela ben presto un mondo non di assassini ma di streghe, magia nera e forze dell'occulto, tutto senza (quasi) mai mostrare direttamente un qualsivoglia rito o formula magica.
L'accademia come centro nevralgico delle azioni malvagie delle streghe viene lentamente svelata allo spettatore quasi a livello inconscio: l'atmosfera che si respira nel film, basata sul potere ipnotico delle luci e dei colori all'interno della scuola e sulla colonna sonora dei Goblin, immerge lo spettatore in una favola da incubo in cui ciò che non si vede (o che si vuole credere di non aver visto) non fa altro che acutizzare il senso di orrore che si sente quando le forze del male finalmente si manifestano.
Non si contano le grandi sequenze di tensione, tra le quali è comunque giusto ricordare l'attacco del cane guida al suo padrone cieco Daniel nella Königsplatz di Monaco di Baviera, ripresa poi anche da Fulci nel suo ...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà, oltre al tremendo squartamento di Pam, primo e tremendo delitto mostrato nel film.
La pellicola vive comunque più per l'impatto sensoriale (visivo ma anche acustico, con l'opprimente presenza della musica come dei sospiri) più che per una particolare innovazione a livello narrativo, con una trama ambigua ma che si mantiene all'interno degli stili degli horror europei del periodo.
E tuttavia, come ci dimostrerà Fulci in seguito con la sua Trilogia della Morte, non necessariamente ciò deve essere visto come una pecca o come una mancanza, in quanto il cinema (e più che mai il cinema di orrore) non è mai un testo, ma sempre un'esperienza.
E Suspiria è tra le esperienze horror migliori di sempre, in Italia e nel resto del mondo.
Posizione 1
La Maschera del Demonio (1960)
regia di Mario Bava
Se questa classifica avesse voluto essere onesta fino in fondo probabilmente avrebbe visto almeno quattro delle sue posizioni occupate da quattro diversi film di Mario Bava: mi sono limitati a due ma, di nuovo, non sono stato onesto.
La prima posizione di questa classifica è stata decisa sostanzialmente di default, e la ragione è presto detta: La Maschera del Demonio è uno di quei film cardine del genere per influenza e innovazione, è il manifesto dell'horror gotico, e benchè non raggiunga la fama di altri lavori di scuola italiana come Suspiria (come d'altronde nessuno dei film di Bava, maestro sì ma ingiustamente e impunemente dimenticato dal grande pubblico nel gruppo dei grandi) il suo ruolo nella nascita e nella diffusione dell'horror italiano è decisamente maggiore.
A rendere questo film un vero capolavoro è il suo ruolo nella codificazione di stili che diventeranno la base del cinema gotico a seguire, italiano ma non solo.
Lo stesso Roger Corman proprio in quegli anni diede il via a una serie di pellicole incentrate sui racconti di Edgar Allan Poe, aiutato spesso e volentieri dalla presenza carismatica di Vincent Price, e pensare che il maestro americano del cinema horror low-budget non sia stato almeno in parte influenzato dall'opera di Bava sarebbe quantomeno ingiusto.
Il film racconta della strega Asa (Barbara Steele) che, nella Moldavia del XVII secolo, viene giustiziata dall'Inquisizione con una maschera dalle fattezze demoniache inchiodata sul volto (tremenda e contemporaneamente magnifica la scena dell'esecuzione).
La strega scaglia una maledizione contro i suoi assassini e, secoli dopo, rinasce per impossessarsi del corpo della sua discendente Katia, sempre interpretata dalla Steele.
I temi e gli strumenti sono quelli classici del genere: maledizioni di famiglia, reincarnazione, doppio femminile, morti violente e improvvise, tutti elementi che verranno ripresi in seguito.
Compresa Barbara Steele, la più brillante stella dell'horror nostrano, lanciata proprio da questo film dopo gli anni di studio in Inghilterra e in seguito diventata una vera icona.
La Steele, nel duplice ruolo della strega e della sua discendente, rimane impressa nella memoria dello spettatore per il suo sguardo glaciale e per l'aura di mistero e sensualità che porta con sé.
La composizione delle immagini e i movimenti di camera offrono continuamente soluzioni brillanti di chiara ispirazione espressionista, e la messa in scena in generale rende perfettamente l'idea di una favola sospesa nel tempo e nello spazio, grazie all'ottimo lavoro sulle luci e sulle scenografie.
In ultimo è essenziale sottolineare, sopratutto a fronte della direzione presa dal cinema degli ultimi anni, come Bava sia riuscito - in questo come in tutti i suoi film sucessivi - a costruire un lavoro tanto formalmente perfetto utilizzando un budget irrisorio e dei mezzi sostanzialmente di scarto ricorrendo continuamente all'inventiva e al suo innato talento nella costruzione degli effetti speciali.
Degno di nota è l'incredibile trasformazione della strega, che con un semplice cambio di luci passa da un volto giovane e delicato a uno vecchio, raggrinzito, scavato.
Pietra miliare del cinema horror italiano e non solo.
Il migliore horror italiano che la Storia ricordi.
Nell'attesa che la laurea in economia inizi a fruttare, occupo le ore muovendomi dai brividi di Fulci e Carpenter alle risate di Wilder e Monicelli, dalla solennità di Dreyer all'epicità di Leone. Apprezzo il cinema americano classico di Welles e Hawk e la new hollywood di De Palma e Coppola. Vado matto per l'Italia di Bava e Petri e invidio l'estremo oriente per Park e Sono. Ho nel cuore il Giappone classico di Kurosawa e Ozu, adoro la perfezione di Kubrick, ma quando la giornata va proprio storta mi và solo Sir. Alfred Hitchcock.
Hai visto forse uno dei film meno riusciti di Bava (è stato maciullato dai produttori e completamente rimontato), ma di bava devi vedere TUTTO, è un genio visonario e dovrebbe essere un patrimonio per l'Italia.
Giovanni Amedeo Lugaro
6 anni fa
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Maatz
6 anni fa
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Francesco Chimienti
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stefano marino
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Gianluca Murru
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Davide Sciacca
6 anni fa
* srotola una lunga pergamena *
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Guido Vaccari
6 anni fa
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Guido Vaccari
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Guido Vaccari
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FedericoD17
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Joaquin Phoenix
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Gioze
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Alessia Incatasciato
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FedericoD17
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Matteo Cataldi
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Richi97
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FedericoD17
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Carlo Padova
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Francesco Chimienti
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Donca
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Matteo Cataldi
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FedericoD17
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FedericoD17
6 anni fa
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