In questi ultimi anni ha assunto un’enorme rilevanza il dibattito sulla flessibilità dell’identità, del genere e della sessualità, mettendo sempre più in discussione la definizione della propria individualità.
La voce del singolo si è fatta più forte, riscoprendo una moltitudine di voci simili prima ignorate, trattate con noncuranza, declassate.
Tra queste voci ai margini troviamo quella che adesso viene definita comunità LGBTQ+ che a piccoli ma rumorosi passi sta rivendicando il suo posto nella società.
È piuttosto difficile individuare il momento in cui, nel Cinema, abbia cominciato ad avere questo forte impatto: nonostante vi siano già state rappresentazioni a partire dal Cinema muto riguardanti omosessualità e lesbismo, tutto ciò che concerne quest’ultimi era incompleto e superficiale, dettato dal fatto che questa realtà fosse invisibile dal punto di vista sociale, culturale e politico.
Sono comparse figure di spicco a giocare ruoli particolarmente nel Cinema europeo, soprattutto quello tedesco, ma è complesso parlare di comunità LGBTQ+ in senso stretto prima dei moti di Stonewall in America avvenuti nel 1969, data indicativa utilizzata per indicare quel momento storico al quale seguiranno una serie di lunghe proteste e rivoluzioni.
[Marlene Dietrich, considerata icona gay, nel film Marocco]
Da qui, il Cinema LGBTQ+ comincia a crescere attraverso il Teatro.
Vengono portate sullo schermo iconiche pièce teatrali come l’opera del drammaturgo Mart Crowley col nome di Festa per il compleanno del caro amico Harold, diretto da William Friedkin nel ’70 (che ha visto poi un nuovo adattamento nel 2020), e quella di un lungometraggio ormai cult amatissimo in tutto il mondo, tratto dall’opera di Richard O’Brien ovvero The Rocky Horror Picture Show, diretto da Jim Sharman nel ’75.
Intanto, un particolare ruolo in Europa è rivestito dai registiRainer Werner Fassbinder e Rosa Von Praunheim, le cui filmografie restano tutt’ora rilevanti e indicative per quanto concerne la tematica.
Il Cinema diviene più fiorente ma, con esso, insorgono problematiche molto rilevanti: svariati personaggi portati sullo schermo ripropongono modelli obsoleti e cliché che si credevano ormai abbandonati.
Proprio per questo motivo, una ventata d’aria fresca sarà quello che verrà poi definito solo alla fine degli anni ’90 New Queer Cinema, che a mano a mano distrugge ogni stereotipo attraverso film che spaziano dai più disparati generi e che affrontano duramente tutte le tematiche fondamentali della comunità.
È sicuramente rilevante sottolineare come questa wave cinematografica sia lo specchio di una presa di coscienza, un risveglio fondamentale per il movimento nella sua interezza, pronto a rivendicare i propri diritti nonostante la terribile lotta contro povertà, violenza, omofobia, transfobia e l’AIDS, uno scenario che viene riportato in modo crudo e sincero nel documentario Paris is Burning di Jennie Livingston.
Menzione d’onore va sicuramente a un lungometraggio ormai fondamentale e conosciutissimo nell’ambiente queer: Priscilla - La regina del deserto.
[Le protagoniste di Priscilla - La regina del deserto]
Il fatto che vi sia maggiore coscienza si è reso definitivamente evidente nei primi anni 2000, quando I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee diviene uno dei titoli a sfondo omosessuale più visti in tutto il mondo, segnando un’ancora più dura demarcazione tra quello che è stato e quello che verrà successivamente, facendo anche sparire ogni confine e dimostrando una totale inclusività.
Il film viene accolto positivamente sia dalla critica che dal pubblico, portandosi a casa svariati premi tra cui tre Oscar e quattro Golden Globe.
Sebbene attualmente la comunità LGBTQ+ trovi una vasta gamma di prospettive cinematografiche positive che crescono esponenzialmente ogni giorno, è d’obbligo specificare che questa realtà non sia comunque abbastanza.
Tutt’ora possiamo notare come personaggi omosessuali siano sicuramente più accettati, facilmente assimilabili e meno bistrattati rispetto a personaggi transgender o bisessuali, per non parlare di altri membri della comunità ancora più invisibili.
Anche per quanto riguarda i film d’animazione per ragazzi, è complesso trovare un protagonista LGBTQ+, ai quali spettano spesso ruoli marginali o di poco conto particolarmente nei prodotti mainstream (basti pensare che il primo personaggio dichiaratamente gay c’è stato solo nel 2012 con ParaNorman!) anche se le cose sembra stiano prendendo una giusta piega in studi d’animazione quali la Laika Entertainment o la Sony Picture Animation.
Sicuramente ci sono ancora tante cose da sdoganare e su cui lavorare e migliorare; pertanto, l’obiettivo di questa classifica è aiutare a farlo includendo sia film che contribuiscono alla causa portando avanti tematiche care alla comunità sia film che la rappresentano pienamente.
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Non è ben chiaro per quale strana congiunzione cinematografica il genere della commedia venga spesso bollato come "frivolo" o poco utile per veicolare messaggi eticamente e socialmente rilevanti.
Eppure di esempi utili a dimostrare l'opposto di questo postulato ce ne sarebbero parecchi.
Dalla filmografia di Billy Wilder alla Commedia all'Italiana (per citare i primi due casi che mi vengono in mente), il Cinema internazionale è ricco di film "leggeri" che hanno impartito insegnamenti intelligenti per mezzo di morali ricavate sì dalla risata, ma comunque utili alla crescita dello spettatore.
Rientra in questa casistica anche Piume di struzzo, film diretto da Mike Nichols (Il laureato; A proposito di Henry), secondo adattamento cinematografico della piéce teatrale La Cage aux Folles di Jean Poiret.
Seguendo la strada segnata dal suo predecessore -Il vizietto diretto da Édouard Molinaro e interpretato da Michel Serrault e dal nostro Ugo Tognazzi - il film di Nichols è una commedia degli equivoci (e degli inganni) - quasi plautina - che ha per protagonisti due maestri della comicità americana del XX secolo: Nathan Lane e Robin Williams.
Armand è il proprietario di un night club gay dove si esibiscono prevalentemente drag queen: la star del locale è il suo compagno Albert, in arte "Starina".
Le vivaci, ma felici dinamiche fra i due vengono interrotte da una notizia clamorosa: Val, il figlio ventenne di Armand, frutto della sua unica relazione eterosessuale, sta per sposarsi.
C'è solo un piccolo problema: il padre di Barbara, la futura sposa, è Kevin Keleey (Gene Hackman), un senatore repubblicano ultra-conservatore e uomo profondamente bigotto.
Per agevolare il fidanzamento del figlio, Armand e Albert si troveranno costretti a una lunga serie di sotterfugi e travestimenti utili a ingannare la famiglia di Barbara (una giovanissima Calista Flockhart) e permettere ai due giovani di sposarsi.
Mantenendo il canovaccio di partenza con grande fedeltà (molti sketch e battute sono identiche a quelle de Il vizietto), Piume di struzzo risulta essere un coloratissimo agglomerato di battute veloci, musiche accattivanti e personaggi scritti in maniera semplicemente esilarante. Basti pensare a come il cameriere omosessuale Agador (Hank Azaria) - che si "trasforma" in Spartacus, maggiordomo greco - sia rimasto nel cuore degli spettatori.
Eppure, al di là della caratterizzazione macchiettistica degli interpreti e di contesti vagamente stereotipati, attraverso la sua semplicità, il sedicesimo lungometraggio di Nichols riesce anche a regalarci momenti profondamente toccanti che parlano allo spettatore di temi importanti come l'accettazione di sé stessi, a prescindere dai giudizi ottusi e sessisti che possiamo avere nella società che sta intorno a noi.
Armand e Albert decidono di comportarsi in maniera altruistica per il bene del figlio, mentendo così sulle proprie identità - sessuali e non - e attivando una serie di reazioni a catena che, per quanto vengano rappresentate in maniera comica, sono assolutamente negative per la loro felicità e completezza di esseri umani.
In accordo con un - giustissimo e bellissimo - happy ending da "tarallucci e vino", Piume di struzzo trasmette molti più messaggi di quanti non ci si potrebbe aspettare da una commedia sfronatata, a tratti persino volgare, sfornata a metà anni novanta.
Fotografato dal "Chivo" Emmanuel Lubezki, acclamato dalla critica internazionale e dotato di un cast brillante e ben assortito, The Birdcage (questo il titolo originale) è un film assolutamente in grado di divertire lo spettatore, facendolo riflettere su temi importanti e "sensibili", con leggerezza e ironia non comuni.
Una cascata dipinta su una lampada diventa il simbolo di un sogno, l’espressione pittorica di una via di fuga.
Così Ho Po-wing (Leslie Cheung) e Lai Yiu-Fai (Tony Leung Chiu-wai) decidono, soprattutto per capriccio del primo, di concretizzare il loro desiderio: partono per l’Argentina per raggiungere quelle acque, liberarsi dalle catene di Hong Kong e ritrovare una serenità di coppia.
D’altra parte l’amore tra i due protagonisti è una creatura morente e un trasloco in una terra lontana è solo un’illusione di cura; i colori vibranti della terra straniera, resi perfettamente dai colori vividi della fotografiaChristopher Doyle, non potranno coprire le crepe di un amore malsano.
Ai colori acidi della natura si alternano sequenze in bianco e nero e di desolazione nella metropoli, lente e solitarie boccate di fumo; un nuovo stato, le stesse solitudini.
Il narcisismo e l’egoismo di Ho Po-wing saranno il motivo trainante del tango tra i due uomini, un passionale, struggente, rabbioso rapporto, sostenuto flebilmente dalle impalcature della memoria di gioie passate.
Ci vorrà del tempo affinché il personaggio interpretato da Tony Leung, attore feticcio diWong Kar-wai, riesca a liberarsi dalle catene di questo continuo ricatto emotivo, comprendendo che l’Argentina non è nient’altro che il miraggio di un’oasi nel deserto del loro rapporto malsano.
Ricordiamo che l’omosessualità in Cina è stata decriminalizzata soltanto nel 1997, che a Hong Kong soltanto nel giugno 2009 è stato estesa la protezione ai conviventi di coppie dello stesso sesso nei casi di violenza domestica e che, persino negli ultimi dieci anni, il Presidente Xi Jinping ha applicato una politica particolarmente censoria su tutti i media che rappresentano l’amore omosessuale o il rovesciamento dei ruoli di genere.
L'ultima conquista del movimento LGBTQ+ è stato l'ottenimento del diritto di residenza.
Alla luce di questi promemoria potremmo anche erroneamente pensare che i protagonisti di Happy Together, in particolare quello interpretato da Leslie Cheung, abbiano una connotazione negativa: il narcisista Ho Po-wing e il fragile Lai Yui-fai non hanno futuro insieme.
Eppure, a ben vedere, Wong Kar-wai decide innanzitutto di spogliare i suoi protagonisti di tutti gli stereotipi dell’omosessualità.
Spesso nel momento in cui un artista si trova a rappresentare una minoranza si trova a commettere un facile errore, cioè quello di caricare i personaggi esageratamente di messaggi politici, a discapito della caratterizzazione.
Ho Po-wing e Lai Yiu-fai invece non sono animali da salvaguardare, da analizzare, da proteggere, da appesantire con aspettative morali, sono uomini a tutto tondo, degni di essere raccontati a prescindere dal loro orientamento sessuale e capaci di provare ogni spettro delle emozioni, anche le più negative, oltre che a esprimere la loro virilità, poiché l'orientamento sessuale non determina l'identità di genere.
Ultima cosa, ma non meno importante, è sicuramente la scelta di Leslie Cheung come protagonista.
L’attore e cantante cinese infatti, morto suicida a soli quarantasei anni, dopo essere stato per anni un sex symbol si dichiarò bisessuale e annunciò al mondo la sua relazione con l’amico di infanzia Daffy Tong Hok-tak.
Uno dei ruoli che lo ha consacrato a leggenda del cinema orientale è stato sicuramente quello di Douzi inAddio mia concubina (1993) di Chen Kaige, una star dell’Opera di Pechino specializzata in ruoli femminili, un ruolo molto scomodo per una super star.
Happy Together è stato presentato in concorso al 50º Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la Miglior Regia.
Quello della regista Kimberly Peirce fu certamente un esordio notevole.
Il soggetto del film si ispira a evento realmente accaduto: lo stupro e l’omicidio di Brandon Teena, ragazzo transgender ucciso il 31 dicembre 1993 a Humblodt, nel Nebraska.
Nella pellicola, si racconta delle vicissitudini di Brandon che, ormai lontano dalla sua famiglia, si trasferisce a Falls City, una cittadina di provincia del Nebraska.
Qui farà conoscenza di un gruppo di ragazzi, fra i quali l’affascinante Lana Tisdel, che si innamorerà di Brandon, e John Lotter, individuo dall’ambigua personalità.
Tutto sembra andare per il meglio, fin quando l’identità transgender di Brandon verrà resa nota a causa di un arresto. Da quel momento la situazione degenererà fino al terribile epilogo.
Boys don’t cryè insieme sia un j’accuse alla chiusura mentale propria della società statunitense (e non solo, visto che episodi di omofobia e transfobia sono all'ordine del giorno in ogni parte del mondo), sia una storia d’amore contrastata, che alcuni critici hanno voluto paragonare a quella shakesperiana di Romeo e Giulietta.
In un mondo dove le persone transgender sono immaginate come figure eccezionali che vivono in una realtà diversa dalla nostra, Peirce narra con asciuttezza e senza fronzoli l’esistenza di una di loro: mentre le immagini scorrono sullo schermo, lo spettatore vede Brandon alle prese con la vita di tutti i giorni, come un ragazzo qualunque.
Un ragazzo che si sente tale, pur essendo biologicamente femmina, e questo di per sé non dovrebbe scandalizzare.
La diversità infatti non è un male, se non quando diviene differenza (con accezione negativa) per un giudizio di valore, come quello che daranno John e il suo amico Tom.
E così Brandon, preda di un insospettabile (per gli altri) dissidio interiore, viene accettato dai suoi nuovi amici fin quando riesce a mentire sulle sue condizioni, per poi essere rinnegato alla scoperta della sua vera identità.
Tuttavia, anche nei momenti spensierati che precedono il punto di svolta c’è una tensione che serpeggia costante, per poi esplodere nel tragico finale del film in un’indicibile violenza sia fisica che psicologica.
Di fronte all’incomprensione della comunità (anche lo sceriffo del posto dimostra ben poca empatia), chi si distingue per la sua nobiltà d’animo è Lana, che ama Brandon senza riserve, non sentendo alcun bisogno di etichettarlo o di spiegare la sua natura.
Un comportamento tanto giusto quanto ideale, in contesto socio-culturale dove si è portati a emarginare ed escludere chi manifesta atteggiamenti “strani” o “anticonformistici”.
Oltre alla storia narrata, di sicuro interesse, Boys don’t cry è un film che si basa sulle ottime interpretazioni dei suoi protagonisti.
Se Hilary Swank, interprete dall’aspetto androgino, fu premiata col Premio Oscar come Migliore Attrice Protagonista, non da meno sono Chloë Sevigny (recentemente apparsa in We Are Who We Are di Luca Guadagnino, serie che tratta tematiche simili al film in questione) nei panni di Lana e Peter Sarsgaard, che conferisce al suo Tom un'antipatia sempre più insopportabile man mano che la trama si sviluppa.
Acclamato negli Stati Uniti, in Italia Boys don’t cry fu oggetto della censuraper il suo argomento e fu distribuito con il divieto ai minori di 18 anni.
Personalmente invece consiglierei di proiettare questo film tanto nei cineforum quanto nelle scuole, per educare le giovani generazioni alla tolleranza: la discriminazione è una palla al piede.
Disponibile su Disney Plus, Chili, Microsoft Store e Rakuten TV
Gli Stati Uniti degli anni ’70 erano teatro di continue manifestazioni da parte di gruppi discriminati che non ne potevano più di vedere i propri diritti calpestati e che stavano finalmente trovando il coraggio di far sentire la propria voce.
Per l’allora comunità LGB la svolta avvenne nel 1970 quando un certo Harvey Milk (Sean Penn), quarantenne che viveva a New York, decise di trasferirsi a San Francisco con il suo compagno Scott Smith (James Franco), sperando di trovare una realtà che vedesse più di buon occhio gli omosessuali.
Attivista per i diritti dei gay, con i suoi modi gentili, scherzosi e la sua sempiterna contagiosa speranza, Harvey Milk iniziò a essere ben voluto da tutti, omosessuali ed eterosessuali, tanto che Castro, il quartiere di San Francisco in cui risiedeva, divenne in poco tempo il punto di riferimento per la comunità omosessuale di tutta la città.
La lotta per i diritti degli omosessuali divenne l’obiettivo principale della sua vita che fino a quel momento pensava di aver vissuto senza particolari slanci, portandolo a diventare il primo statunitense dichiaratamente gay eletto per rivestire una carica pubblica.
Film biografico del regista Gus Van Sant, Milk racconta quelli che furono gli ultimi 8 anni della vita di Harvey Milk, mostrandoci il coraggio di un uomo che mise in gioco ogni aspetto della propria vita al servizio di giustizia e uguaglianza.
Animo dalla delicata sensibilità, caparbio e con una motivazione tanto forte da renderlo un leone nel momento della lotta, Milk divenne un personaggio pubblico, mira dei più conservatori come il consigliere comunale Dan White (Josh Brolin).
Nonostante tutto Milk portò avanti la battaglia contro l’omofobia, per sé e per tutta la comunità LGBTQ+, in un periodo in cui chi ne faceva parte era considerato alla stregua di un ladro o di una prostituta.
“Se gli omosessuali hanno i loro diritti, allora anche le prostitute, i ladri, chiunque altro!”
Il modo di parlare, l’abbigliamento, le movenze, il trucco (a opera di Stephan Dupuis, il truccatore de La mosca): un meticoloso lavoro sul personaggio il cui risultato è valso l’Oscar come Migliore Attore Protagonista per Sean Penn.
Parafrasando ciò che disse Robert De Niro durante la Notte degli Oscar 2010 per presentare il suo collega e amico, Sean Penn dà tutto se stesso nell’interpretazione del suo personaggio, si fonde con esso: nasconde il vero Sean Penn lasciando che le sue sole doti attoriali prendano il controllo e facciano emergere le sfumature caratteristiche di Harvey Milk.
Questa frase detta da Nicolas a Francis - due dei tre protagonisti del film - racchiude perfettamente ciò di cui Xavier Dolan con Les Amours imaginaires vuole parlarci: l’indecisione della propria identità sessuale e di come essa sia spesso soppressa da dei canoni precostituiti della nostra società, tema centrale anche in Laurence Anyways.
Il secondo lungometraggio diretto dal regista canadese ci porta all’interno delle dinamiche di un triangolo amoroso: quello tra Francis, un giovane omosessuale, Marie e il bellissimo Nicolas.
Fin dal suo folgorante esordio il Cinema di Xavier Dolan è sempre stato eccentrico nella messa in scena e strumento di auto-psicanalisi per poter liberare tutta la rabbia e le paure che da sempre l’ormai ex enfant prodige si porta con sé.
Les Amours imaginaires da questo punto di vista non fa eccezione mettendo al centro dell’opera filmica Nicolas, circoscrivendo attorno a lui tutti i fantasmi della - complicata - formazione sessuale adolescenziale.
Non è un caso infatti che l’oggetto del desiderio di Francis e Marie sia quasi un essere androgino, dalla lunga chioma bionda e dalla bocca carnosa, paragonato da Dolan a una statua greca, a un giovane semidio che può essere sia maschio che femmina ma che può anche rivelarsi il vuoto più totale.
Quello che nasce tra i due protagonisti nei confronti di Nicolas infatti si rivelerà un amore immaginario, bugiardo e codardo che nel momento in cui - dopo giorni di corteggiamento sfrenato - si mostra finalmente alla luce del sole... appassisce tristemente.
Ritorniamo quindi a quel “Come hai potuto pensare che fossi gay?” e al timore di esprimere completamente se stessi, di esporsi a un modello di società che ancora non accetta l’omosessualità come aspetto normale dell’essere umano.
Nicolas durante quasi tutta la durata del film gioca sia con Marie che con Francis, ma è nei confronti di quest’ultimo che il fulcro del triangolo amoroso riserva un’attenzione particolare, un non velato desiderio amoroso.
Quando però avviene la dichiarazione da parte di Francis nei confronti di Nicolas, ecco che tutte le ipocrisie e le idiosincrasie della nostra società balzano fuori con la conseguente soluzione della fuga o nel peggiore dei casi della violenza.
C’è quindi una soluzione a tutto ciò?
Xavier Dolan abilmente la inserisce all'inizio del film servendosi di una frase di Alfred De Musset: “La sola verità è l’amore oltre ogni ragione.”
E se in Gli amori Immaginari -Les amour imaginaries forse queste parole non trovano spazio, lo fanno invece in Matthias & Maxime, ultimo - anche se meno riuscito - lavoro del regista canadese che chiude idealmente un cerchio iniziato con J'ai tué ma mère, in cui l’amore immaginario diventa concreto e quel “come hai potuto” si trasforma in un "finalmente sei te stesso".
Disponibile su Amazon Prime Video, Chili, Google Play, Apple iTunes.
Trattare tematiche LGBTQ+ non è mai troppo semplice forse perché, più che in altri casi, il rischio è fornire un'immagine stereotipata, ingenua e/o poco realistica.
Per affrancarsi da questo rischio, dando per scontata la buona fede dell'autore, talvolta una strada battuta è quella, contraria, di un iperrealismo non di rado stucchevole.
Insidie simili - ma in misura minore - caratterizzano anche la rappresentazione dell'infanzia o dell'adolescenza, che da sempre si confronta con l'alternativa secca (dagli esiti ugualmente infelici) tra sentimentalismo e, appunto, iperrealismo.
Il pericolo di cadere in fallo cresce poi esponenzialmente nell'affrontare in contemporanea le due problematiche, ma Céline Sciamma, a differenza del calabrone, non lo sa e vola lo stesso.
La regista francese, anche in virtù della sua storia personale, si è interessata fin dal suo primissimo lungometraggio, Naissance des pieuvres, a questa commistione, che ha esaltato poi anche nella sua sorprendente seconda pellicola, Tomboy, titolo traducibile in "maschiaccio".
Conscia dei rischi tipicamente celati dietro al secondo film in carriera ("si dice che sia il più difficile"), la Sciamma opta per un ridimensionamento del progetto, per avere "più autonomia", e gira in una ventina di giorni.
Tomboy racconta la semplice - fattualmente - storia di Laure, bambina di dieci anni appena trasferitasi in un nuovo quartiere.
Qui la giovane approccia un gruppetto di coetanei pronta a costruire nuove amicizie e decide di presentarsi con il nome Micheal, il che, nell'ottica di una visione binaria e semplificatoria generalmente adottata dai bambini (fatto sulle cui cause sarebbe bene riflettere), non desta sospetti considerando capigliatura, comportamenti, interessi e modo di vestire.
Più grazie alle immagini che alle parole si delinea così un potente approfondimento sul tema dell'identità, accompagnato, in misura nettamente minore, da un sottotesto relativo all'orientamento sessuale.
Pur rigettando con forza - quasi eccessivamente - sia le classiche linee guida del coming-of-age sia facili derive melò, la regista non confeziona però un film pretenzioso e di nicchia.
Ella non svuota le vicissitudini di pathos, attinge anzi da "un serbatoio di finzione davvero appassionante" come la tematica identitaria, con la sua "drammaturgia intorno alla menzogna, al doppio gioco, la doppia vita, l'alterità, l'altro in sé" ben in grado di generare una sottile, ma incessante tensione.
Oltre a ciò, già non di poco conto, la Sciamma, anche sceneggiatrice, compie una scelta poco evidente ma non per questo meno importante: privilegiare il particolare a scapito dell'universale.
Non volendo fare né "una cronaca dell'infanzia" né un "dramma sociale" - ma ricordando che "i problemi personali sono problemi politici", citando Carol Hanisch - la regista rende infatti chiaro il lato (quasi) interamente intimo e individuale della questione, pur non tralasciando un'acuta descrizione delle varie relazioni interpersonali.
In aggiunta alla sempre stimolante dialettica singolo-gruppo, lo sguardo di Céline Sciamma si posa con particolare grazia sul rapporto che sarà protagonista del delicato finale, quello tra Lisa e Laure/Michael.
Partiamo dal presupposto che qualsivoglia produzione artistica punti al massimo della qualità. In caso di raffigurazioni realistiche, non sarebbe meglio cercare di descrivere la realtà attraverso la realtà stessa?
La risposta dovrebbe essere scontata, ma non lo è nel caso dell’immagine e della rappresentanza del mondo LGBTQ+ nel panorama cinematografico.
Solo a partire dalla metà degli anni 2010, per esempio, ruoli di persone transgender vengono affidati ad attori o attrici transgender, ma ovviamente i casi sono davvero rari e si tratta di produzioni minori.
Una di queste è proprio Tangerine, la pellicola di Sean Baker (Prince of Broadway, Starlet, Un sogno chiamato Florida) che si presenta come paradigma perfetto dei contrasti di tipo sociale, economico, morale e perfino climatico (!) che contraddistinguono gli Stati Uniti d’America.
Partiamo proprio da quest’ultimo punto: la vicenda si svolge durante la vigilia di Natale, ma gli unici particolari che lo danno a intendere sono gli addobbi perché siamo a Los Angeles, c’è un sole accecante e le temperature sono miti.
Dopo dei titoli di testa molto eleganti conosciamo le protagoniste: Sin-Dee (Kitana Kiki Rodriguez) e Alexandra (Mya Taylor), due prostitute trans finalmente impersonate da due attrici della stessa identità di genere.
Le vicissitudini dei due personaggi principali catapultano lo spettatore in un’odissea nel substrato vissuto dai tipici personaggi reietti della filmografia di Baker: prostitute sfruttate, protettori approfittatori, padri di famiglia di dubbia morale.
Tutti uniti da un denominatore comune, ossia l’essere vittima di un sistema economico che li obbliga a sopravvivere come possono, non avendo le stesse possibilità di chi è stato più fortunato o più privilegiato di loro.
Ma questa non è altro che la realtà che sta ai margini della società.
Per riprendere questo quadro con una giusta prospettiva, ossia sporca e diretta, Baker non tradisce l’anima indipendente del suo Cinema e con l’aiuto del direttore della fotografia Radium Chang gira l’intero film solo con tre iPhone 5S, uno stabilizzatore economico, tre lenti grandangolari per cellulare e l’app FiLMIC Pro: il budget risparmiato lo investe tutto nei permessi per girare nei luoghi da lui scelti e per pagare il cast principale e le comparse.
In aggiunta, in post-produzione con l’utilizzo di un’altra app decide di saturare i colori delle immagini arrivando ad ottenere come tono predominante l’arancione mandarino: Tangerine, appunto.
Il risultato finale complessivo è sorprendentemente significativo, ma non solo per il tipo di direzione artistica.
Il regista riesce a creare un ritmo cadenzato grazie a un montaggio aggressivo e una colonna sonora che varia dalla musica trap al Coriolano di Ludwig Van Beethoven rispecchiando perfettamente il mood di ogni scena.
Il merito principale del film risiede però nella capacità di Baker di consegnare umanità a dei personaggi emarginati che la società – e quindi il Cinema mainstream – non considera o addirittura stereotipizza.
In questo caso specifico, invece, viene attribuita la giusta e corretta considerazione a degli esponenti della comunità LGBTQIA+ non solo sullo schermo ma anche fuori.
In quanto a rappresentanza si tratta di un gesto necessario per delle persone costrette a vivere in un mondo crudele che sembra non comprendere per niente le loro scelte, preferendo raffigurarle in modo irrealistico invece di rispettarle appieno.
- The world can be a cruel place.
- Yes, it is cruel: God gave me a penis. That’s pretty damn cruel, don’t you think?
L'universo del Cinema di genere è da sempre la patria del simbolo, in particolare il mondo dell'orrore in cui mostri, zombi, vampiri e streghe rappresentano ben altro che semplici fenomeni paranormali, riflettendo spesso ragionamenti che l'autore fa sugli usi e costumi del proprio tempo.
Thelma, film norvegese di Joachim Trier del 2017, come molto altro Cinema nordico così ermetico e rigoroso ne è un perfetto esempio.
Thelma racconta lo spostamento dell'omonima giovane studentessa di biologia dal nido rurale in cui viveva con la propria, estremamente religiosa famiglia a Oslo, sede dell'università.
Un film in cui l'autore norvegese gioca con il paranormale per raccontare la tensione che esiste tra i dogmi insegnati dalla famiglia (e per estensione il mondo circostante) e la nuova vita universitaria e indipendente di Thelma.
Un giorno si siede accanto alla ragazza un'altra giovane studentessa, Anja, e la protagonista viene colta da un attacco epilettico: è la prima frattura nelle monolitiche convinzioni instillate nella mente di Thelma.
La capacità di Trier di avvolgere questa transizione con un'aura di mistero mostrandone allo stesso tempo l'esplosività incontrollabile e lo sguardo minaccioso del mondo circostante si espleta perfettamente nell'uso di uccelli contro le vetrate, serpenti tentatori e visioni.
Trier è inoltre bravissimo a raccontare il dilemma interno a Thelma attraverso il paranormale: il primo innamoramento che si traduce in una crisi, la scoperta di sé, del proprio corpo e di una libertà mai avuta prima che si traducono in un'esplosione violenta e la volontà di frenare i propri istinti che diventa un potere distruttivo.
Il film così ci mette davanti sin dalla prima scena al dubbio che qualcosa di innato e inaccettabile per i genitori si celi dentro alla protagonista: nell'incipit, in cui Thelma è ancora una bambina che va a caccia con il padre, quest'ultimo le punta un fucile addosso mentre lei non lo guarda.
Un padre è pronto a uccidere la propria figlia (o rinchiuderla come la nonna) pur di fermare qualcosa che per lui è contro natura e il parallelo tra il potere della protagonista e quella che sarà la sua sessualità è abbastanza scontato.
Più Thelma va avanti, più l'aspetto paranormale si intensifica, ma l'immagine è fortissima: il timore di appagare i propri istinti castrato da un'educazione bigotta è talmente forte da corrompere e distruggere tutto attorno a lei.
Il tutto si traduce in un passaggio dalla fanciullezza a una liberazione tanto potente e senza freni da essere etichettata come stregoneria, figlia solo della presa di coscienza della propria sessualità.
Un film capace di raccontare l'asfissia, spesso anche mostrata, di un mondo che non accetta e di una giovane persa nei mostri generati da una società limitata e limitantecon una forza incredibile, pur celando il tutto dietro al genere e al paranormale.