Senza dubbio il 2020 passerà alla Storia per tanti motivi, raggruppati sotto l'unica grande ala oscura della COVID-19: la malattia causata dal virus che sta imperversando ormai da 12 mesi ha causato più di un milione e 700mila morti, quasi 80 milioni di contagiati e relativi danni indicibili all'economia mondiale.
Pandemia, lockdown, quarantena, tampone, sierologico, zona rossa, mascherina, distanziamento, igienizzante: queste sono le parole che fanno ormai parte della nostra quotidianità e finalmente solo da pochi giorni ce n'è un'altra che sta rapidamente salendo le classifiche e che ci fa sperare nell'uscita da questo tunnel da incubo: vaccino.
Il 2020 è stato dunque un anno tremendo, foriero di cambiamenti, rivoluzioni e decisioni storiche da parte di tutti i paesi del mondo.
Non poteva uscirne indenne l'industria cinematografica.
Film attesissimi costretti a far slittare la data di uscita, altri che per limitare i danni sono usciti in streaming, altri ancora che dovevano partire ma che, complice la chiusura dei set, hanno dovuto rimandare l'inizio delle riprese lasciando in questo modo a casa senza lavoro milioni di lavoratori dello spettacolo.
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In tutto ciò pare che le piattaforme streaming "pure" ne abbiano giovato.
Netflix ha dichiarato di avere avuto un innalzamento del 30% degli abbonamenti mondiali, Amazon Prime Video è andata a ruota mentre Disney si è vista costretta ad anticipare l'inaugurazione della propria piattaforma rispetto ai piani ed è stata forse quella che ha più cambiato i giochi, portando nelle case film che erano attesi in sala e inventandosi contestualmente anche un sovrapprezzo per tappare le voragini economiche.
Nelle ultime settimane abbiamo letto della storica decisione di Warner Bros., che porterà sulla piattaforma HBO Maxtutti i film del catalogo 2021 contemporaneamente all'uscita in sala, gesto che ha fatto infuriare l'intera industria, provocato dichiarazioni di fuoco da registi come Christopher Nolan e fatto partire azioni legali da parte di Legendary e Village Roadshow, due delle case di produzione che hanno grosse percentuali sui film Warner - in alcuni casi anche maggioritarie - e che non erano minimamente state avvertite di un passo così clamoroso.
[Lo splendido Ema di Pablo Larraín è rimasto fuori, ma ve lo consigliamo lo stesso]
I cinema sono quindi rimasti chiusi per mesi e il Cinema sta forse cambiando irrimediabilmente.
Stiamo cambiando noi spettatori, sempre più abituati alla comodità di avere le grandi anteprime visibili sulla propria comoda TV seduti sul proprio comodo divano; stanno cambiando le strategie distributive mondiali di un'industria miliardaria.
Nonostante ci siano varie voci che continuano a sostenere che il Cinema sia morto, l'industria cinematografica mondiale nel 2019 aveva fatto registrare il record di 42,5 miliardi di dollari incassati al botteghino, che aggiungendosi al record di 58,8 miliardi generati dall'home video e dal digitale ha fatto sì che si sorpassasse per la prima volta il muro dei 100 miliardi di dollari.
Nel 2009 i miliardi di dollari nel mondo erano stati 29 e negli ultimi 10 anni il trend ha continuato a salire inesorabilmente... fino a quest'anno.
Nel 2020 il box office mondiale non ha raggiunto i 13 miliardi di dollari, la cifra più bassa degli ultimi vent'anni, con un crollo del 71,5%.
Dall'altra parte gli acquisti di film on demand e le sottoscrizioni alle piattaforme hanno fatto un balzo in avanti del 30%, passando dai quasi 26 miliardi del 2019 agli oltre 34 del 2020.
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Netflix ha oggi circa 195 milioni di abbonati nel mondo.
Nel 2020 ha subito un'impennata nella prima parte dell'anno, ma ha poi rallentato sensibilmente anche a causa dello sprint dei concorrenti principali; Amazon Prime Video vanta oggi 150 milioni di sottoscrizioni e Disney+ ha da poco dichiarato di avere quasi raggiunto i 90 milioni di abbonati nel mondo, ad appena un anno dal lancio globale.
È evidente che tra questi tre colossi chi sulla carta ha più da perdere sia proprio Disney: abbiamo già parlato delle perdite miliardarie della compagnia che non ha l'entertainment casalingo come core business e che fino a 12 mesi fa guadagnava tanto con i parchi di divertimento, le crociere e i live show, tutte cose rimaste congelate dalla pandemia che ha costretto la Casa del Topo a licenziare migliaia di persone.
Diverso invece il discorso per Netflix e Amazon: la prima sta investendo cifre inaudite per le produzioni interne - indebitandosi sempre di più ma iniziando a vedere il break even che finalmente si avvicina - e ha visto una crescita del valore del proprio brand del 72% nell'ultimo anno, la seconda può invece contare sulla solida base che deriva dall'essere la quarta compagnia più ricca al mondo (dopo la compagnia petrolifera Saudi Aramco, Microsoft ed Apple) con oltre un miliardo di capitalizzazione.
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Probabilmente ora vi starete chiedendo perché in un'introduzione ai Migliori Film del 2020 mi sia infilato a parlare di economia.
La risposta è semplice e sta proprio nelle pieghe purulente di questa pandemia: perché che ci piaccia o no il Cinema è un'industria, prima che essere espressione artistica e poesia.
Tutti coloro che ancora sognavano di un Cinema che guardasse schifato i soldi o che comunque non li considerasse di primaria importanza forse quest'anno si sono realmente accorti di come funzionano le cose.
Le decisioni di spostare, rimandare, distribuire in streaming e stravolgere i piani di produzione di tutti i giganteschi tentpole del 2020 e 2021 - da Black Widow a Wonder Woman 1984, da Dune a 007 - No Time to Die - sono figlie dell'economia: i film sono fatti per incassare e questo 2020 ce lo ha sbattuto in faccia con una violenza inaudita.
L'unico film a grande budget rimasto in piedi e arrivato nelle sale è Tenet, e lo ha fatto grazie alla caparbietà del suo autore che ha lottato più che ha potuto per far sì che "il nuovo film di Christopher Nolan" uscisse nei cinema, convinto che la cosa avrebbe risollevato in estate le casse in lacrime delle sale di tutto il mondo.
Ma a parte il fatto che rischiare con i soldi degli altri è un esercizio piuttosto semplice - posso capire lo slancio di Nolan e gli voglio bene per questo, ma per il film lui è stato pagato e in fin dei conti non rischiava nulla - Tenet non è riuscito nel suo intento: costato 205 milioni di dollari, ne ha incassati al box office mondiale appena 362, che per un film simile non significa flop, ma quasi.
Spaventati dalla mossa Warner gli altri mostri dell'industria hollywoodiana si sono poi adeguati: il blockbuster Mulan di Disney è arrivato su piattaforma e così hanno fatto OnwardeSoul di Disney Pixar, Amazon Prime Video si è accaparrata titoli enormi da mostrare ai suoi abbonati, arrivando anche a spendere 150 milioni per i diritti del sequel de Il principe cerca moglie - e anche Netflix ha fatto la voce grossa e ha ora in catalogo i film più papabili per le vittorie nella prossima Award Season.
La situazione streaming e on demand è infatti l'altro lato dell'infetta medaglia che reca scritto "2020" su entrambe le facce.
Diversamente rispetto agli anni precedenti noi spettatori abbiamo potuto godere di un'offerta casalinga oltre l'immaginazione: quest'anno sono usciti davvero tantissimi titoli di alto livello che ci hanno sinceramente messo in difficoltà nel momento in cui ci si è trovati a stilare una classifica dei "preferiti".
L'emergenza sanitaria ha fatto nascere iniziative come Mio Cinema e ha rinforzato piattaforme come MUBI: in un anno iniziato con l'uragano Parasite il cinema orientale ha avuto un'insolita spinta anche in Europa e negli Stati Uniti, con tante nuove proposte di giovani autori che, chissà, forse senza il successo di Bong Joon-ho non avremmo visto.
[Esordio splendido nella regia per Darius Marder: il suo Sound of Metal ci ha conquistato e per poco non è entrato tra i primi 8]
Il Cinema italiano ha dimostrato - per l'ennesima volta - di essere in grado di parlare universale e di avere degli interpreti capaci di performance che non hanno nulla da invidiare a quelle degli attori più noti oltreoceano e che meritano premi importanti ai festival e alle Mostre del Cinema.
Festival e Mostre che nel 2020 si sono svolte soprattutto online, appunto.
Poco dopo la cerimonia di consegna dei Premi Oscar e il Festival di Berlino lo scorso febbraio ha iniziato a crollare tutto: il Festival di Cannes è saltato per la prima volta e altri appuntamenti importanti come il Toronto International Film Festival si sono svolti esclusivamente online.
Un modo nuovo, diverso e molto solitario di partecipare a un festival, sia per gli spettatori che per i partecipanti.
Una situazione che ha permesso anche a noi di in ventarci il CineFacts Quarantena Film Festival, un festival cinematografico online pensato per avvicinare i filmmaker e il pubblico durante una primavera davvero difficile da affrontare.
Cosa succederà nel prossimo futuro?
Nessuno lo sa.
Ci piace pensare che una volta partita la vaccinazione a livello mondiale le nostre vite torneranno piano piano alla normalità pre-COVID, permettendoci non solo di riprendere in mano le nostre esistenze, far ripartire le attività e rimettere in moto i sogni ma anche di dar modo all’industria cinematografica di rialzarsi, facendo lavorare le troupe, gli attori, i distributori e gli esercenti riportando in sala i film, e di conseguenza anche gli spettatori.
Cambieranno alcune strategie distributive che faranno tesoro dell'esperienza negativa di questo 2020 per sistemare alcune cose; è probabile che verranno investiti più soldi per i giovani autori che potranno avere una distribuzione in streaming - cosa che invece solo con la sala era impensabile - e molto probabilmente verranno investiti ancora più soldi in quei 2 o 3 mega blockbuster annuali per ogni major, accompagnate da proiezioni evento in sala, una ancora più massiccia campagna promozionale e offerte per mostrarli sulle piattaforme proprietarie.
Cambieranno anche i tempi di distribuzione e i modi di fruire un film: le finestre temporali obbligatorie tra sala e casa si ridurranno e verranno stretti accordi tra le grandi catene e i grandi studios.
È già successo durante l'emergenza sanitaria, la cosa è molto probabile che diventerà stabile e si normalizzerà.
Ma il Cinema e i cinema non moriranno - nemmeno i circuiti più a rischio - perché il grande schermo è un richiamo irresistibile per ogni persona e non c'è alternativa casalinga che tenga.
E noi aspettiamo con ansia questo ritorno alla normalità, per lasciarci alle spalle un 2020 funesto e rimetterci seduti sulle poltroncine guardando uno schermo gigante sospeso nel buio.
Perché ormai lo sapete, noi di CineFacts.it non disdegniamo affatto la visione casalinga e siamo tutti iscritti a pressoché tutte le piattaforme streaming esistenti, ma il nostro pensiero era ed è rimasto sempre quello: la vera casa del Cinema è il cinema.
Personalmente non vedo l'ora di tornarci.
[Editoriale di Teo Youssoufian]
[Wolfwalkers - Il popolo dei lupi è il film di animazione più votato dalla redazione per questo 2020: non basta a entrare nella Top 8, ma siamo sicuri che ne sentiremo parlare molto]
Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli dell'anno e li ha classificati.
Le discriminanti erano queste:
- Il film doveva essere stato distribuito in Italia tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2020
- Eccezionalmente per quest’anno non avrebbe fatto fede solo l’uscita in sala, quindi abbiamo tenuto conto di tutti film distribuiti in sala e su piattaforma (Netflix, Amazon Prime Video, Disney+, Infinity, TIM Vision, Apple TV, MUBI, Rakuten, ecc) lasciando però fuori eventuali festival e anteprime stampa online.
Ne è uscito un totale di 47 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori.
Adriano Meis
Sto pensando di finirla qui
A sun
The Lighthouse
Dogs Don't Wear Pants
La vita nascosta - Hidden Life
Doppia pelle
Sorry We Missed You
Un lungo viaggio nella notte
Nomad - In cammino con Bruce Chatwin
Wolfwalkers - Il popolo dei lupi
Daniele Sedda
The Lighthouse
A sun
I miserabili
Sto pensando di finirla qui
Favolacce
The Social Dilemma
Mank
Promare
Diamanti grezzi
1917
Emanuele Antolini
The Lighthouse
Diamanti grezzi
Sto pensando di finirla qui
The Gentlemen
I miserabili
Honey Boy
Mank
Sound of Metal
Dragged Across Concrete
I predatori
Fabrizio Cassandro
La ragazza d'autunno
Ema
The Lighthouse
Sto pensando di finirla qui
Doppia pelle
Un lungo viaggio nella notte
Sound of Metal
Il lago delle oche selvatiche
Wolfwalkers - Il popolo dei lupi
Undine
Jacopo Gramegna
The Lighthouse
A sun
Un lungo viaggio nella notte
Dogs Don't Wear Pants
La ragazza d'autunno
South Terminal
Vitalina Varela
Two/One
Doppia pelle
Jessica Forever
Jacopo Troise
The Lighthouse
Mank
Monos - Un gioco da ragazzi
Sto pensando di finirla qui
Swallow
La ragazza d'autunno
Un lungo viaggio nella notte
South Terminal
A sun
Sound of Metal
Lens Kuba
The Lighthouse
Wolfwalkers - Il popolo dei lupi
Mank
Sto pensando di finirla qui
Promare
La vita nascosta - Hidden Life
Vitalina Varela
Ema
Ride Your Wave
La ragazza d'autunno
Lorenza Guerra
The Lighthouse
Ema
A sun
Un lungo viaggio nella notte
Fireball: messaggeri dalle stelle
Swallow
La ragazza d'autunno
High Life
Mank
Sto pensando di finirla qui
Mattia Gritti
The Lighthouse
Vitalina Varela
Doppia pelle
Diamanti grezzi
Dick Johnson è morto
La ragazza d'autunno
Sto pensando di finirla qui
Mank
Overseas
Un lungo viaggio nella notte
Morena Falcone
Sto pensando di finirla qui
Volevo nascondermi
37 Seconds
A sun
The Lighthouse
I miserabili
Dogtooth
1917
Diamanti grezzi
Jojo Rabbit
Nadia Pannone
Sto pensando di finirla qui
The Lighthouse
Sorry We Missed You
A sun
La vita nascosta - Hidden Life
Un lungo viaggio nella notte
Honey Boy
Favolacce
Wildlife
Vivarium
Simone Braca
Sorry We Missed You
Sto pensando di finirla qui
I miserabili
The Gentlemen
La ragazza d'autunno
Il lago delle oche selvatiche
The Lighthouse
Diamanti grezzi
Mank
Honey Boy
Teo Youssoufian
The Lighthouse
Diamanti grezzi
Da 5 Bloods - Come fratelli
Sound of Metal
Sto pensando di finirla qui
His House
L'uomo invisibile
Il lago delle oche selvatiche
Wolfwalkers - Il popolo dei lupi
Palm Springs
1 di 8
Posizione 8
I miserabili
di Ladj Ly
Liberté, Égalité, Fraternité: questo è il motto su cui è fondata la Francia ed è questo che traspare dai primi minuti de I Miserabili, film diretto da Ladj Ly e vincitore del Grand Prix della giuria al Festival del Cinema di Cannes del 2019, di quattro Premi César, nonché candidato ai Premi Oscar come Miglior Film Internazionale.
Parigi, 2018: la nazionale di calcio francese ha appena vinto il Mondiale in Russia a suon di grandissime prestazioni dei suoi assi: Kylian Mbappé e Paul Pogba, entrambi parte della generazione multietnica che caratterizza tutte le grandi nazioni europee - noi in Italia ci stiamo arrivando solo ora.
Un’euforia condivisa che maschera tutti i problemi di una grande metropoli che ha lasciato i propri cittadini abbandonati a loro stessi.
“Amici miei, ricordate bene questo: non ci sono cattive erbe né cattivi uomini. Ci sono solo cattivi coltivatori."
Così scrive profeticamente Victor Hugo ne I Miserabili e Ladj Ly attraverso un film incredibile ci porta nei territori delle “erbe cattive”, quello delle banlieues.
Nel 1995 ci aveva già pensato Mathieu Kassovitz con il suo fulminateL’odio a narrarci le condizioni economico-sociali di una fetta di popolazione che aveva perso ormai ogni fiducia nelle istituzioni.
Il punto di vista del film era quello di Vinz e della sua cerchia di amici: ne I Miserabili la prospettiva viene completamente ribaltata dalla parte opposta e diventa quella dei poliziotti.
Facciamo conoscenza allora di Chris e Gwada, membri della BAD e del nuovo entrato Stéphane.
I primi due - ormai completamente risucchiati dalla giungla di cemento - hanno un approccio all’ordine molto burbero, ormai rassegnato all’anarchia che vige in quei territori.
Stéphane al contrario - essendo appena arrivato - crede ancora nella giustizia e nel concetto di “giusto o sbagliato”.
Inizia quindi una sorta di Training Day per Stéphane che con il passare delle ore si accorgerà dell’impotenza dei propri mezzi di fronte a una simile situazione.
Ladj Ly usa un approccio registico quasi documentaristico per trasportarci nella guerriglia urbana e grazie a una tecnica invidiabile - la fotografia di Julien Poupard è stupenda - riesce a far vivere allo spettatore il caos delle periferie parigine.
Le influenze sono molte - dai già citati L’odio e Training day fino a City of God - ma il regista francese riesce a creare una propria autorialità per portare avanti fino alla fine il proprio messaggio.
Ne I Miserabili c’è anche spazio per la fratellanza di una comunità - in questo caso islamica - che non ha mai smesso di credere nei propri valori religiosi al di là del continuo razzismo a cui purtroppo è soggiogata.
Il film di Ladj Ly riesce a rendere visibili gli ultimi, a dar “giustizia” a un popolo che fin dalla prima giovinezza coltiva l’astio nei confronti del proprio Stato, rappresentato da una polizia che non è in grado di svolgere il proprio lavoro.
L’odio di Kassovitz è uscito nel 1995 e Ladj Ly con I Miserabili ci mostra che niente è cambiato per la Francia, se non una Coppa del Mondo in più in bacheca.
“Per quanto sia ridicolo che io mi aspetti tanto dalla roulette, mi sembra ancora più ridicola l'opinione corrente, da tutti accettata, che è assurdo e stupido aspettarsi qualcosa dal gioco.
Perché il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi altro mezzo per far quattrini come, per esempio, del commercio?
Vero è che, su cento, uno solo vince, ma a me che importa?”
Dei minatori etiopi, un opale nero, una colonscopia.
Sin dalle prime battute l’universo ideato dai Fratelli Safdie unisce con naturalezza elementi che parrebbero essere destinati a essere disarmonici, rielaborando dall’apparente caos narrativo e stilistico dell’opera una storia invece molto centrata, che mette a nudo il proprio protagonista fisicamente, concettualmente e psicologicamente.
Howard Ratner (interpretato da un Adam Sandler in stato di grazia, come forse non gli capitava dai tempi di Ubriaco d’amore) è un gioielliere ebreo sommerso da problemi economici e familiari, con la passione per le scommesse.
Howard vive costantemente al di sopra delle proprie possibilità e si barcamena tra debiti, vincite, sconfitte, prestiti, pegni di oggetti altrui, scontri con i propri creditori, orologi d’oro, feste alla moda, tentando di piazzare un colpo grosso che gli possa cambiare l'esistenza, che sia questo rappresentato dalla vendita di una rara pietra preziosa oppure da una clamorosa scommessa vincente.
Si imbatte in Kevin Garnett, star dell’NBA che si dimostra interessato all’acquisto dell’opale nero, e la sua sorte vi si lega indissolubilmente, non solo per la transazione economica in sé – complicata oltretutto da vari fattori – ma anche perché inizia a puntare proprio sulla squadra di Garnett, i Boston Celtics, scommettendo in loro favore.
Per Howard le scommesse non rappresentano comunque soltanto una scorciatoia per raggiungere uno status economico differente, per svoltare materialmente la propria vita; esse costituiscono forse soprattutto il mezzo attraverso cui può provare il proprio talento, il contesto nel quale egli può davvero emergere, essere un vincente e realizzarsi come individuo, a dispetto di tutte le difficoltà che attraversa e della scarsa considerazione che riceve dagli altri.
Arriva a scommettere la propria vita fino a giocare contro la squadra per cui tifa, possibilmente da intendersi allegoricamente come una puntata contro sé stesso, pur di farcela.
E qui mi fermo per non fare spoiler.
Diamanti Grezzi è un film dall’incedere pressante, con chiacchiericci costanti, telefonate che si avvicendano, tensione a mille e soundtrack ipnotica, in un vortice ansiogeno e adrenalinico che ha il raro merito di non avere particolari momenti di stanca ma che anzi continua a crescere di intensità durante la visione.
Certamente una delle maggiori rivelazioni di quest’anno cinematografico.
Chi ama il Cinema molto probabilmente apprezzerà anche il metacinema: Mank ne rappresenta una delle più fini espressioni.
Il biopic su Herman J. Mankiewicz e su come abbia realizzato la sceneggiatura di Quarto potere rappresenta un quadro minuzioso dell’industria cinematografica della Golden Age hollywoodiana e del contesto sociopolitico di cui faceva parte.
L’opera di David Fincher riesce magnificamente in una doppia impresa: da una parte presenta una messa in scena che, per rimandare il più possibile a quella che è considerata una delle migliori pellicole del Cinema statunitense, assume in maniera perfetta tratti registici wellesiani come grandangoli, enorme profondità di campo e contrasti netti; d’altra parte riproduce perfettamente l’ambiente dell’epoca, con scenografie e costumi impeccabili, proponendo una tecnica caratterizzata dagli stessi stilemi tipici degli anni '30.
A partire dal bianco e nero (anche se digitale) della magistrale fotografia di Erik Messerschmidt, passando per l’affascinante colonna sonora degli ormai fedeli collaboratori Trent Reznor e Atticus Ross, fino ad arrivare ai segnali di coda e ai tremolii del suono aggiunti in post produzione.
Anche la sceneggiatura, scritta dal padre del regista negli anni ’90 e ripulita da Eric Roth, è impostata in modo tale da riprendere la struttura narrativa frammentata dell’opera di Orson Welles, ed è contraddistinta da una fitta serie di dialoghi arguti, cinici e taglienti tipici della scrittura hollywoodiana dell’epoca.
Ma Mank non si limita solo a questo, perché è molto di più.
Fincher ci descrive una cornice politica dell’epoca che si rivela più odierna che mai.
Mank è soprattutto un film sul potere insito del Cinema come mezzo di comunicazione capace di ridefinire la nostra percezione della realtà, e quindi su come è stato utilizzato in passato da chi ha avuto interessi che esulano il mero intrattenimento.
In un presente in cui la comunicazione multimediale sembra avere riscoperto - senza il benché minimo allarme - la propaganda, Mank rappresenta un avvertimento che non può e non deve passare inosservato.
Fincher affronta inoltre un discorso più intimista, raccontandoci la storia di un uomo colto e geniale che, credendosi finito perché devastato dalle proprie dipendenze e dall’ambiente marcio in cui è costretto a lavorare, accetta inizialmente di non prendersi il merito dell’ultimo lavoro offertogli per poi cambiare idea e imporre le proprie ragioni grazie alla raggiunta consapevolezza del suo maggior talento: scrivere sceneggiature cinematografiche.
Mank è quindi un’opera di un fascino raro e meticolosamente elaborata, di una complessità profonda e stratificata che non ci parla semplicemente di Cinema, ma è il Cinema a 360 gradi.
"Perdersi è meraviglioso" recita il titolo di una raccolta di interviste a David Lynch e nessuna scelta di tre parole risulta più efficace nel descrivere Un Lungo Viaggio nella Notte, secondo film del regista trentunenne Bi Gan uscito in sala in questo infausto 2020, dopo l'esordio con Kaili Blues che stupì il festival di Locarno.
"I film sono sempre falsi, ma i ricordi mescolano verità e bugie mentre appaiono e svaniscono davanti ai nostri occhi"
Bi Gan attraverso il suo protagonista Luo Hon in Un Lungo Viaggio nella Notte.
Questo perché per entrare nella tana del Bianconiglio messa in scena dal regista cinese prima bisogna perdersi nel noir della prima parte, quella in cui Luo Hon torna a far visita al suo passato e solo in seguito aprirsi alle meraviglie del ricordo e del sogno, che si fondono tra loro.
La morte del padre riporta il protagonista a Kaili e qui l'uomo, assassino di professione, ritornando sui suoi passi svela allo spettatore alcuni frammenti del proprio passato: tra la fine tragica di Wildcat, i volti segnati dagli anni e la ricerca della femme fatale perduta Wan Qiwen (Tang Wei).
Come Dante traghettato nel mondo ignoto si perde nel tempo e in una forma unica dello spazio alla ricerca della sua donna angelo, così Luo Hon si ritrova ad attraversare proprio un corso d'acqua prima di entrare in un treno di ricordi e volti noti che riassume i suoi sogni e i suoi pensieri nella seconda anima del film.
Tra Bolaño e O'Neill, che cita esplicitamente nel titolo originale e in quello internazionale, il film non si preoccupa di nascondere questa costante ambivalenza e anzi la accentua in ogni modo possibile: da un lato il noir, fatto di staticità e movimenti lentissimi, dall'altro il sogno, ovvero un (finto) piano sequenza di 55 minuti tanto immersivo quanto virtuosistico (pensato anche per il 3D).
Le due facce del ricordo: il passato e i suoi frammenti opposti alla nostalgia di cui sono fatti i sogni.
Un Lungo Viaggio nella Notte, presentato alla 71ª edizione del Festival di Cannes, è un film molto ambizioso nonostante la giovane età del regista, che si apre al confronto con riferimenti altissimi: tra i viaggi nel simbolismo di Andrej Tarkovskij, l'universo visivo e tematico dei maestri di Hong Kong e Taiwan (Wong Kar-wai, Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang) e la riproposizione ipercinetica dei volti di Andrzej Żuławski, passando per molteplici ispirazioni pittoriche e letterarie.
Riferimenti altissimi per un proposito ancor più arduo: cercare di mostrare e soprattutto far vivere allo spettatore la frammentarietà e la tortuosità del sogno e come questo si intersechi indissolubilmente con il ricordo.
Un Cinema di percezione più che di racconto, come il regista citato in apertura suggerisce.
Un vero e proprio viaggio nell'inconscio umano in cui il mezzo tecnico esalta la percezione del contenuto: una lunga carrellata tra dedali, volti e oggetti ci guida nella decostruzione di Luo Hon in ciò che lo ha reso la persona che è, un'analisi che in fondo è quella di ogni essere umano.
Tanto più il film entra nella materia del sogno, tanto più inizia a cercare di parlare con il linguaggio del Cinema: piega il tempo trasformando il ricordo in una questione di simboli, spazio e viaggio; parole carissime a gran parte dei grandi maestri della Settima Arte.
Un'opera ambiziosissima e a tratti fin troppo sicura di sè, che forse perdendosi nella forma rischia talvolta di allontanarsi troppo dal suo binario, ma che senza dubbio risulta la prova di un talento immenso, di un'idea di Cinema chiarissima e di una lucidità nell'indagine sull'animo umano e sul linguaggio cinematografico unica.
Un viaggio, quello che propone il poeta Bi Gan, unico e imperdibile, senza dubbio uno dei talenti più interessanti da scoprire nei prossimi anni.
Disponibile su Chili, TIMvision e Amazon Prime Video.
Dopo il chiacchierato e sorprendente esordio con Tesnota il giovane regista russo Kantemir Balagov, classe 1991, torna a far parlare di sé con La ragazza d'autunno.
Balagov sceglie di riesumare un classico del Cinema russo classico e un periodo storico che ha fortemente colpito la sua patria: il secondo dopoguerra.
Il film si concentra sulle vicissitudini di due ragazze: Iya, la taciturna e riservata "giraffa", e Masha, una giovane appena tornata dal fronte, disinibita e determinata.
La contrapposizione tra le due protagoniste si rivela anche nella scelta cromatica basata sulla complementarietà del verde e del rosso.
Seguendo la nuca biondissima di Iya tra le corsie dell'ospedale veniamo subito a contatto con i resti di una guerra terribile, tra menomazioni fisiche, stress post traumatico, personaggi sofferenti che condividono un legame intorno alle loro macerie.
Un legame viscerale lega le due amiche, strette intorno a una matassa di segreti e incertezze.
Lo spaccato della loro vita ripreso dal film ruota intorno a una morte involontaria e traumatica, ripresa di Balagov senza inflessioni drammatiche, ma in un modo talmente realistico da risultare insopportabile.
Questa tragedia provocata inconsapevolmente da Iya sarà per la ragazza un motivo di ricatto e sofferenza.
Il rapporto tra Iya e Masha è altalenante; la mutua dipendenza che le lega, un affetto che lambisce le lande dell'amore, il senso di colpa di cui Iya si fa carico e il rancore da cui Masha non riesce davvero a liberarsi vengono perfettamente catturate dal film.
Balagov dirige un'opera in cui l'orrore della guerra è un'ombra sospesa ma sempre presente e la storia di Iya e Masha è la dimostrazione di quanto questa sia invasiva e inquinante, anche quando le penne dei diplomatici sanciscono trattati di pace.
Le due ragazze confluiscono l'una dell'altra, non possono vivere se non in simbiosi.
La ragazza d'autunno racconta di segreti inconfessabili per l'epoca e ancora oggi controversi, soprattutto nella società russa, come l'aborto, l'eutanasia e lo stupro, inteso soprattutto come espressione di sopraffazione psicologica.
Il giovane regista russo sceglie il punto di vista femminile per raccontare di un tema tradizionalmente maschile, quello della guerra e delle sue conseguenze.
La guerra cambia il corpo di Iya e Masha oltre che la loro psiche, seppur in modo diametralmente diverso, ma i loro problemi non conoscono medaglia che non sia quella della vergogna e rimangono sommersi in un sottotesto silenzioso, tra le mura di una stanzetta da condividere illuminata da una calda luce gialla.
Disponibile su Chili, TIMvision e Amazon Prime Video.
All'interno di un'annata dominata dalle fruizioni casalinghe come quella che è appena trascorsa, risulta davvero diffcile imbattersi in un film distribuito dalle piattaforme streaming rimasto relativamente nascosto, eppure dal valore artistico così indiscutibile.
A Sun, distribuito in Italia direttamente da Netflix, è una delle perle più preziose e meno chiacchierate in cui possiate imbattervi.
L'opera narra la storia di una famiglia ordinaria di Taipei, i Chen, costretta a fronteggiare il peso delle scelte di ciascuno dei due figli, Jian Ho e A-Hao.
Il primo, noto da tutti come A-Ho, è un ragazzo turbolento, finito in carcere dopo aver reciso la mano a un suo coetaneo con un machete nel corso di un atto intimidatorio.
Il secondo è uno studente modello, su cui poggiano le aspettative della famiglia e dei suoi professori.
Su un impianto apparentemente semplice come quello appena delineato, però, poggia una pellicola complessa, stratificata, intrisa di un dramma lento e inesorabile, che pervade l'opera sin dai titoli di testa.
Chung Mong-hong - ormai giunto alla sua quinta opera - si conferma tra i più apprezzati autori taiwanesi di nuova generazione, riuscendo a tenere perfettamente le redini di un'epopea lunga oltre 155 minuti con grazia, tatto e sconcertante perizia tecnica.
La messa in scena è infatti co-protagonista del film e si contempera perfettamente con la potenza tematica dell'opera: Chung riesce a mostrarci i suoi personaggi perennemente incatenati ai paradossi di una Taipei sospesa sugli stessi contrasti su cui si fonda.
Una prigione in cui convivono spinte occidentalizzanti e l'insopportabile pressione sociale derivante dalla tradizione del paese, in cui la malavita si insinua nelle famiglie ordinarie, in cui il successo è quasi sempre una fonte di corruzione, in cui la dignità è l'unico sole in grado di illuminare anche delle esistenze segnate.
In questo, A Sun è un'opera interamente permeata della poetica di alcuni maestri della nouvelle vague taiwanese, Edward Yang e Hou Hsiao-hsien su tutti.
Soprattutto il grande e compianto Yang è più volte citato esplicitamente, tanto nella riproposizione di alcune inquadrature quanto nel senso di contrasto generazionale e ineluttabilità del destino che traspariva dal suo meraviglioso dittico composto da Taipei Story e Terrorizers.
A Sun incede imperioso tra eventi sconcertanti, dialoghi carichi di pathos e momenti di raccoglimento famigliare, mostrandoci i vicoli più stretti e le viste mozzafiato di una città che perde via via la propria funzione di contenitore fisico per trasfigurarsi, arrivando a somigliare sempre più a un luogo dell'anima.
Un'opera di altissimo valore cui avremmo, senz'altro, voluto godere al cinema ma che, anche attraverso una fruizione casalinga, risulta capace di squassare il cuore degli spettatori.
Accolto in maniera trionfale alla 56ª edizione dei Golden Horse Awards - dove ha ricevuto 12 nomination e vinto ben 6 premi tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Migliore Attore Protagonista - A Sun è l'ennesima pellicola in grado di mostrarci la profondità e l'ampiezza di sfumature che caratterizzano il Cinema dell'estremo oriente.
Un Cinema che va scoperto e amato nella sua sconfinata interezza.
L'ingresso in questa Top di fine anno equivale, per noi, a un accorato invito: recuperate questa gemma, accuratamente custodita da un algoritmo ma distante da voi soltanto un click!
Se siete tra coloro che appena sentono il nome di Charlie Kaufman si mettono in allerta per scoprire che incredibile sceneggiatura avrà tirato fuori questa volta, state sicuri che con Sto pensando di finirla qui non rimarrete delusi.
Per la terza volta impegnato a dirigere un lavoro da lui stesso scritto - dopo Synecdoche, New York e Anomalisa - Kaufman confeziona un’opera dalle innumerevoli letture: darne un’unica interpretazione sarebbe sbagliato e comunque impossibile, visto il ventaglio di significati che il tutto può assumere fondendosi al vissuto di ogni spettatore.
La trama, quella oggettiva che fa da strato più superficiale, racconta di una coppia che si frequenta da poche settimane, mentre si sta recando in macchina verso la fattoria natale di lui, Jake, così che i genitori di questo possano conoscere la sua compagna.
Già durante il viaggio di andata pensieri lontani, voci, affollano la mente della fidanzata di Jake - di cui non sappiamo con certezza il nome - che sta pensando che la loro storia potrebbe essere arrivata alla fine e sta riflettendo se metterci o no un punto.
Fin dall’inizio del film la protagonista - e, di riflesso, lo spettatore - proverà a dare un senso logico e cronologico a ciò che le viene raccontato da Jake e dai suoi affettuosi ma allo stesso tempo enigmatici genitori, ma il risultato sarà un confondersi di suoni, immagini, ricordi suoi e degli altri, angoscia e incapacità di saper distinguere quali pensieri, quali nomi appartengono a chi.
La fisionomia dei personaggi cambia, il susseguirsi degli eventi non è lineare e il passato si confonde con il futuro il quale appare con un eccessivo inquietante anticipo e poi, improvvisamente, cambia aspetto.
Come tutto, del resto.
Siamo vittime delle menzogne altrui, succubi di giochi della nostra stessa mente o entrambe le cose?
Ma poi, siamo sicuri che esista una risposta sola?
La verità sarà nel nostro personalissimo sguardo: una passata di soggettività sugli attimi di vita, le occasioni e le storie che ci vengono raccontate per ripulire e dare un ordine alle cose.
Un nostro personalissimo ordine.
Nel thriller dalle venature quasi horror di Kaufman troviamo un cast che non siamo abituati a vedere frequentemente sotto i riflettori, ma che ha dimostrato di saper affrontare egregiamente una prova tutt’altro che semplice.
Jessie Buckley (Chernobyl) e Jesse Plemons (Breaking Bad) interpretano la coppia protagonista di Sto pensando di finirla qui, Toni Collette (Cena con delitto - Knives out, Hereditary) e David Thewlis (saga di Harry Potter) sono i genitori di Jake: la complessa sceneggiatura non mette in difficoltà gli interpreti che regalano delle esibizioni impeccabili.
Un film da non perdere e che sicuramente ha tanto da offrire anche alle visioni successive alla prima.
Sono stato tra i pochi fortunati che riuscirono a vedere The Lighthouse in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2019: era una domenica mattina, sulla strada faceva freddo e pioveva, la sala era una di quelle secondarie dedicate alla Quinzaine des Réalisateurs distanti dal Palais du Cinéma.
Dopo aver amatoThe VVitch ero ansioso di vedere l'opera seconda di Robert Eggers, ma mai mi sarei aspettato una cosa del genere.
Il film si apre con il suono di una sirena, con la notte, il vento, la pioggia.
The Lighthouse mette subito in chiaro le cose e ci sbatte in faccia il suo essere arthouse, frutto di una ricerca esagerata e di una maniacale cura per la riproposizione storica: la pellicola in bianco e nero trattata con un certo procedimento, l'aspect ratio di un secolo fa, il linguaggio dei suoi protagonisti.
Tutto contribuisce a creare una sensazione di oppressione e occlusione, una situazione dalla quale vorremmo ogni tanto un po' di tregua, del sollievo, della pace.
Robert Pattinson e Willem Dafoe nei panni di due marinai costretti a convivere in un faro di inizio secolo scorso nel New England sono a dir poco perfetti.
Il lupo di mare e il giovane scapestrato, il vecchio e il ragazzo, il vento e il mare.
La simbologia assume qui un significato ancora più pregnante rispetto al primo film del regista/sceneggiatore del New Hampshire e si mescolano suggestioni che rimandano a Herman Melville, a Edgar Allan Poe e persino a H.P. Lovecraft, il romanziere sempre ammirato dal Cinema ma quasi mai rispettato a dovere.
Da spettatori assistiamo al decadimento dei due personaggi dentro la propria ossessione, la propria follia e l'abbandono inesorabile di ogni coerenza, di ogni appiglio alla realtà per abbracciare un mondo di luce e di mistero.
The Lighthouse è un film profondamente originale, che non assomiglia e non vuole assomigliare a nient'altro, che pone al di sopra di tutto il "Fare Cinema" rendendo fondamentali alla riuscita dell'opera ogni singolo reparto del set: il secondo film di Eggers è Cinema puro, che impara dal passato e si ripropone a noi in questo millennio con un vestito antico eppure contemporaneo, urlando fortissimo la propria personalità e stupendo ad ogni inquadratura.
Scavando dentro di noi e dentro cosa vogliamo vedere, giocando con quello che ci aspettiamo senza darcelo mai davvero, spaventandoci, schifandoci, divertendoci anche nei momenti più terribili, facendoci ragionare e immaginare, portandoci in un "altrove" per un paio d'ore e lasciando che al ritorno nella vita vera resti il dubbio che qualcosa sia cambiato dentro di noi, che non siamo più quelli di un paio d'ore prima.
Quando terminò la proiezione quel giorno a Cannes la sala esplose in un applauso fragoroso.
The Lighthouse è da allora diventata una mia piccola ossessione, che ha fatto sì che ne parlassi a chiunque e che seguissi con ansia la sua - sfortunatissima - storia distributiva nel nostro paese, trasformandomi in un piccolo marinaio assillato da un pensiero fisso.
Ma dalla smania, dal sesso, dall'ego, dal terrore e dalle bugie dette a noi stessi non c'è salvezza, non può esserci.
C'è solo l'incubo: ci siamo solo noi che guardiamo la luce, ma vediamo l'abisso.
"Should pale death with treble dread
Make the ocean caves our bed,
God who hear'st the surges roll,
deign to save our suppliant soul."
Disponibile su Chili, TIMvision, Amazon Prime Video, Apple iTunes e Rakuten TV.
Teo Youssoufian
3 anni fa
scrivimi a info@cinefacts.it, c'è una sorpresa per te 😉
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Emanuele Antolini
3 anni fa
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