Palcoscenico di idilli, riconciliazioni radiose e incontri fra amanti.
Quello del Locus amoenus è uno dei tòpoi più utilizzati nella letteratura classica e, come logico che sia, è caratterizzato da elementi fondamentali come la divina bellezza del paesaggio bucolico, la luce radiosa che lo illumina, la presenza di fonti d’acqua fresca e cristallina, il canto degli uccelli e, più generalmente, una soave sensazione di serenità che lo permea.
[No, ovviamente questa non è una rappresentazione del locus amoenus. Vogliamo semplicemente portarvi nel mood di questa Top 8]
Omero, Virgilio, Ovidio, Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, William Shakespeare, J.R.R. Tolkien sono solo alcuni degli autori che, nel corso dei secoli, hanno inserito nelle proprie narrazioni il locus amoenus facendo sì che i propri personaggi vi si ritrovassero in una fase di liberatoria e salvifica stasi.
Locus amoenus.
Luogo di amore, pace, bellezza, serenità.
“Più dolcemente nell’antro presso di me passerai la notte; vi sono allori qui, vi sono slanciati cipressi, v’è la nera edera, vi è l’uva dal dolce frutto, vi è la fresca acqua che a me l’Etna ricca di alberi dalla sua neve bianca invia come bevanda divina”
Teocrito, Idilli IX, 44-48
Ma senza yin non esiste yang.
Mirabilia et terribilia.
Non c’è male senza bene.
I due elementi si compenetrano, completandosi vicendevolmente, elidendo per l’uno la possibilità di esistere senza la presenza dell’altro.
[Banshee e troll sono la fauna perfetta di oscuri boschi]
Luogo di orrore, oscuro e angoscioso.
Teatro di morte, buia strada senza fine protagonista di smarrimenti morali e perdizione.
Il Locus terribilis - o locus horridus - è il topòs narrativo che si oppone al luogo ameno, situato spesso in lugubri aree sotterranee o vertiginose zone elevate, popolato dai mostri che infestano da sempre l’animo dell’essere umano.
Dalla selva oscura dantesca alle squassate - e innaturalmente silenziose - stamberghe proposte da Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft, il “brutto posto” è stato il setting ideale per un quantitativo enorme di produzioni orrorifiche della letteratura mondiale.
In tali opere, come accade anche in molti scritti di un certo Stephen King, l’ambientazione ha un ruolo chiave, fondamentale per riuscire nell’impresa di smuovere inquietudine nell’animo del fruitore: un maniero diroccato, una casa in profonda campagna, un grigio villaggio silenzioso non sono più dei semplici scenari, fondali immobili dove ambientare le disavventure dei protagonisti.
[Fauni, spiriti maligni e folletti dispettosi. E la mitologia dell'orrore nordica ci sguazza]
L’Overlook Hotel, Hill House, il capanno de La Casa si animano invece di una sinistra vita indipendente, diventano loro stessi personaggi integranti della storia.
Lugubri, pieni di borbottii sommessi, sinistri cigolii e con una presa sottile e maligna sullo spirito di chi li attraversa.
Il setting diventa cimento da superare e nemico - spesso allegorico - da sconfiggere.
“Nessun organismo vivente può continuare per molto a mantenere la propria sanità mentale in condizioni di assoluta realtà; anche gli uccellini e le cavallette, dicono, sono capaci di sognare.
Hill House, insana, stava da sola contro le colline, contenendo in sé solo il buio, era stata così per ottant’anni e poteva rimanere tale per altri ottanta.
All’interno, le pareti continuavano a essere erette, i mattoni a stare uno accanto all’altro, i pavimenti erano saldi e le porte erano assennatamente chiuse, il silenzio si stendeva sul legno e la pietra di Hill House, e qualsiasi cosa vi fosse dentro, era sola.”
La casa degli invasati, Shirley Jackson, 1959
Fra i tanti, uno dei locus terribilis più angoscianti - e di sicura presa sull’immaginario dello spettatore - è sicuramente il bosco.
Siete mai stati nell’oscurità notturna di un muro d’alberi?
Avete mai sentito il vostro respiro mescolarsi al crepitio dal fuoco e ai “crack” dei rami che si spezzano nel buio, schiacciati da non si sa quale creatura?
Vi siete mai addentrati nel nero profondo, lontani dalla luce del bivacco, per farvi avvolgere il cuore dal gelo delle tenebre?
"Burroni e gole dalla profondità preoccupante tagliano la strada, e la solidità dei rozzi ponti sembra essere dubbia.
Quando la strada torna a digradare, appaiono tratti acquitrinosi che destano un'istintiva ripugnanza, e quasi terrore, la sera, quando schiamazzano invisibili succiacapre e le lucciole, insolitamente abbondanti, escono a danzare ai ritmi rauchi e orridamente insistenti dei rospi che gracidano striduli.
La sottile linea luminosa del corso superiore del Miskatonic esercita una strana suggestione, come quella di un serpente, snodandosi proprio ai piedi delle colline a cupola tra cui sorge.
Mentre le colline si avvicinano, si presta più attenzione ai loro fianchi boscosi, piuttosto che alle loro cime coronate di rocce.
Questi fianchi si profilano così scuri e ripidi che si vorrebbe tenersene distanti, ma non c'è strada per evitarli.
L'orrore di Dunwich, H.P. Lovecraft, 1929
Il bosco nero, il bosco lascivo, casa di streghe ed elfi malvagi.
Il bosco cattivo, sussurri fra i rami, luogo di sabba infernali e strani rituali.
Muro di alberi, ora marci e cadenti, ora impenetrabili e senza pertugi.
File di tronchi, fughe impossibili, urla di vergini, nemici dissimili.
Il bosco di sangue, terreno di lupi, elfi maligni, troll e orchi violenti.
[Walt Disney: io ti maledico nel nome della mia infanzia distrutta]
Dove la notte è più buia - e le ombre dei rami si allungano fino a stringersi intorno alla vostra gola - si muove questa tetra Top 8.
Abbiamo selezionato per voi 8 orribili boschi cinematografici e le pellicole in cui sono ambientati: avete abbastanza fegato per addentrarvici?
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Sarah e il figlio Chris stanno iniziando una nuova vita in una cittadina rurale immersa nei boschi irlandesi.
La tanto sognata ripartenza dovrà aspettare, poiché la vita bucolica fra gli alberi nasconde invece un abisso dal quale, durante le notti buie, qualcosa sembra emergere.
Nelle campagne irlandesi esistono quelli che vengono chiamati: Fairy Fort.
Sono formazioni circolari di alberi che, secondo le leggende, servono da collegamento tra il nostro piano terreno e quello delle fate, degli spiriti o quelle che più generalmente vengono chiamate Good People.
Tagliare, o danneggiare, una di queste formazioni causerebbe sventura.
Una tradizione talmente radicata che, sorvolando i campi verde smeraldo irlandesi, è facile notare alcune di queste formazioni lasciate intonse, anche quando invadono i campi in coltivazione.
The Hole - L’Abisso sembra trovare qualche radice in questa idea, un po’ folcloristica e un po’ comune al misticismo di altre religioni secondo le quali, per quanto si possa pensare di essere soli su questa terra, esistono piani dell’esistenza utili per aprirci l’accesso verso altri luoghi.
Dante trovava la sua via per l’inferno in una selva oscura ma in The Hole, dove la protagonista ha perso la diritta via solo metaforicamente, è qualcosa di mostruoso, proveniente da chissà quale piano, a trovare la via attraverso una selva verso la casa di Sarah.
I gufi non sono quello che sembrano e neanche i bambini lo sono più, oggi giorno, nelle foreste irlandesi.
The Hole di Lee Cronin dà del "tu" ai suoi boschi oscuri e senza luce e forse proprio per questo è stato scelto da Sam Raimi per dirigere Evil Dead Rise.
Il regista irlandese con il suo film trasmette l'idea di un horror che non investe troppo nelle aspettative dello spettatore, creandogli da subito un racconto orrorifico d’impatto.
È solo così che potrà farsi strada fra ai segreti del bosco di The Village(The Woods prima che la produzione decidesse di cambiare il titolo per non incorrere in un caso di omonimia).
Un bosco che è confine insuperabile, ritualmente perpetrato di generazioni in generazioni. Un confine che gli abitanti non forzano e non osteggiano poiché quando la curiosità serpeggia fra le menti dei più giovani della comunità, i segni della disapprovazione si abbattono terribili e inequivocabili.
Cosa è reale e cosa è superstizione?
Non sarà tramite i propri occhi che i segni potranno essere ben decodificati, ma gli abitanti del villaggio non sembrano comprenderlo e si ammantano del colore del bene, il giallo, esorcizzando tutto ciò che, rosso, ricorderebbe loro quel male che nemmeno nominano.
Lucius (Joaquin Phoenix) vuole attraversare i confini attorno al villaggio ed entrare nei boschi.
È un pensatore e un oratore. È convinto che con buone argomentazioni potrà persuadere gli anziani e forzare gli assennati consigli dell'esperienza.
È uno scienziato che scaglia ipotesi di metodo al di là dei sicuri confini del proprio paradigma di riferimento per provare a disvelare le ragioni di nuove anomalie insorte.
Noah (Adrien Brody) vive il villaggio e i suoi principi con foga e istintualità sempre crescenti a compensazione delle sue facoltà mentali menomate.
Sente il villaggio come un animale la sua tana, ma sa di appartenere alla caoticità dei boschi circostanti e alla violenza che promettono.
Ivy (Bryce Dallas Howard) è il punto fermo per entrambi e ne condensa le caratteristiche: senso di concretezza, saggezza, premurosità e, come avrà modo di scroprire nei boschi, coraggio.
I boschi sono una figura cara anche alla filosofia, specie nei loro elementi costitutivi: i sentieri, le radure...
Facendosi metafora hanno sempre aiutato gli uomini a visualizzare il senso dei loro limiti conoscitivi, ma anche i confini fra ciò che è scienza e pensiero razionalmente condotto e ciò che è soltanto superstizione.
Questa opera ne rappresenta in pieno tutta la portata gnoseologica, di ricerca della corretta forma di conoscenza a ogni costo, anche quando la paura possa sembrare il miglior strumento per applicare una visione politica incondivisibile (e mai come di questi tempi queste parole ci giungono attuali).
Ma non è tutto: nei boschi di The Village si nasconde un segreto, che ora non rivelerò nel rispetto di chi si deve ancora approcciare al film.
Quattro amici ed ex-compagni di college, dopo un evento a dir poco traumatico, si ritrovano a percorrere il Sentiero del Re, nel nord della Svezia.
Dopo l'infortunio al ginocchio di un membro della compagnia il gruppo deciderà di imboccare un "cammino alternativo" in mezzo al bosco, per raggiungere più rapidamente il rifugio dal quale sono partiti e, di conseguenza, la civiltà.
Come da - facile - previsione, la scelta dei quattro amici si rivelerà semplicemente pessima.
Il ritualeè visibilmente una produzione Made in UK: un fattore importante che, per quanto concerne stile, idee di regia e scrittura, si fa sentire tutto.
Ben lungi da certe recenti pellicole americane armate di jumpscare gratuiti e messe in scena fatte con lo stampino, Il rituale di David Bruckner è un film che gioca abilmente con elementi del folklore nordico, ambientazioni da brivido e una regia curata nella costruzione dell'immagine e del sound design.
Il bosco del rituale è quindi utilizzato in maniera eccellente come ambientazione per un male antico e mostruoso.
Nell'incedere dei protagonisti il mistero e l'angoscia si legano ai luoghi tipici della narrazione horror (sinistri capanni, bivacchi oscuri e file di alberi senza fine) ma utilizzati in maniera intelligente e ben congeniata.
L'idea di mescolare il tema dell'orrore con quello del rimorso e del senso di colpa non è certamente originale, ma è sicuramente ben messa in scena dalla fotografia di Andrew Shulkind che dà voce alla sceneggiatura di Joe Barton, tratta dall'omonimo romanzo di Adam Nevill.
Se cercate il terrore che si annida nell'oscurità degli alberi, Il rituale è il film che farà al caso vostro.
Un gruppo di ragazzi si ritira in un capanno nel bosco per passare un tranquillo weekend di intrallazzi, ignari che qualcosa di malvagio attende di essere risvegliato per giocare con le loro anime e la loro carne.
La casa di Sam Raimi è un'opera seminale che ha creato uno degli stilemi narrativi del Cinema horror, diventando contestualmente uno dei simboli del Cinema indie hollywoodiano che avrebbe dato vita a una nuova classe di autori.
Il film di Raimi non è solo originale, terrificante e focolaio di un paio di autori simboli del Cinema moderno (l’assistente al montaggio curato da Edna Ruth Paul era Joel Coen, mica barabazzi!), ma un cult immortale e per molto tempo l’idea di un remake è stata vista dagli amanti del genere come una follia.
Eppure nel 2013 Fede Álvarezporta a casa il Necronomicon Ex-Mortis, l’antico libro dei morti, consegnandolo al pubblico assieme a un film da incubo, una pioggia di sangue pronta a investire i malcapitati protagonisti e riportando a una sua dignità la figura del demone come essere infernale.
Una figura successivamente trascinata nel fango da una miriade di produzioni di dubbia qualità.
Sfortunatamente.
La casa, come l’originale, non ha alcuna voglia di inscenare dispettucci migliorabili solo dal commento fuori campo di Ciccio Valenti, ma vuole piuttosto torturare e trucidare le anime dei malcapitati protagonisti per portarle all’inferno.
Un film che non vi farà mai e poi mai mettere piede in una tranquilla baita in mezzo al bosco, soprattutto se in compagnia di un gruppo eterogeneo di sconosciuti.
Ripetete con me:
“Non accettare mai weekend di gruppo nella baita dello zio Gianni, per evitare una orribile orribile morte!”
Il bosco, sin dai tempi deI Nibelunghi di Fritz Lang, è sempre stato il luogo cinematografico della solitudine e del distacco dalla società.
Come allontanarsi dai presunti alleati porta Sigfrido a esporsi al tradimento fatale, così in Honeymoon una luna di miele lontano dalla civiltà diventa l'occasione per mettere a nudo tutte le fatidiche crepe di un rapporto appena nato: quello tra Paul e Bea, i due freschi sposini di cui sentiamo le parole piene di tenerezza nei primi minuti del film.
Raccontato così il film di Leigh Janiak sembra il classico dramma indipendente americanoa opera degli slackvetes, ma il triennio 2013-2015 è quello della rinascita dell'horror: da The Conjuring a It Follows, da Babadook a Crimson Peak e più di un illustre esempio tra questi otto titoli.
La regista americana, qui all'esordio, non se ne dimentica affatto confezionando un film che sembra iniziare in pieno stile da dramma mumblecore vede poco a poco crescere l'elemento orrorifico fino a sfociare in un gusto per la carne e la mutazione del corpo quasi cronenberghiano.
Tutto sembra iniziare nel bosco.
Bea, in preda a quello che potrebbe sembrare un episodio di sonnambulismo, viene ritrovata da Paul in piena notte senza vestiti e coperta di lividi fra gli alberi: qualcosa l'ha cambiata per sempre.
La Janiak sceglie questo classico elemento orrorifico ma, come ripropone lungo tutto il film, ogni simbolo in realtà rappresenta molto di più su vari piani di lettura.
In questo caso nell'ignota violenza notturna si può vedere il passato della sposa interpretata da Rose Leslie (Game of Thrones) che poco prima era riaffiorato tra i due sposini, la violenza verbale delle prime liti in cui Paul (Harry Treadaway) aveva machisticamente cercato di imporsi e, infine, nell'essere che l'ha posseduta e il dubbio che si è insinuato nella sua testa.
Il passato che ritorna è, come spesso accade nei racconti di coppie che si sgretolano, solo la prima delle crepe e da qui litigi e incomprensioni portano i due archetipici sposi ad allontanarsi sempre più.
Da questo punto, però, il piano più drammatico-simbolico legato all'incomunicabilità tra i due amanti e quello più violento e raccapricciante si intrecciano come i rami del bosco che li circonda e poco a poco il buio che le fronde creano prende il sopravvento nel film: il virus o l'essere che ha preso con la forza Bea non solo cambia la giovane donna, ma anche il genere del film.
Honeymoon è un film imperfetto che forse non spiega abbastanza, in cui certamente la componente simbolica è predominante e non sembra sempre sposarsi perfettamente con quella soprannaturale, ma proprio questa sua doppia natura che arriva direttamente dal Cinema europeo degli anni '60 e che fonde il genere con il dramma indipendente lo rende un'opera prima di grandissimo interesse e un esempio di horror atipico di assoluto valore.
A pochi anni dalla sua uscita,The VVitchè già classificabile come un film di enorme rilevanza.
L'opera che ci ha permesso di scoprire il talento artistico di Robert Eggers, infatti, è a tutti gli effetti da considerarsi come un caposaldo del genere horror grazie alla sua messa in scena curatissima, al suo profondouso dei simbolie alla sua capacità di veicolare messaggi che sconfinano il genere di riferimento.
In questo contesto, dunque, l'ambientazione dell'opera ricopre un ruolo fondamentale: il bosco ai confini del quale la famiglia protagonista di The VVitch si ritrova a vivere è un luogo fortemente evocativo che simboleggia l'estremo confinamento del nucleo familiare rispetto alla società e racchiude in sé i misteri ancestrali della terra straniera nella quale si ritrovano a vivere.
Una terra che non genera frutti dolci, che tradisce le attese, che toglie senza mai accogliere ma che inevitabilmente influenza chi è costretto a viverci.
Un luogo al quale la famiglia è costretta a volgere lo sguardo ogni volta che cala la notte e ogni volta che avverte un bisogno.
Il bosco di conifere del film è cupissimo, apparentemente disabitato da bestie, immerso in un perenne inverno, permeato da una luce grigiastra anche di giorno e attraversato da un ruscello al quale la famiglia è costretta a recarsi giornalmente.
Tra quegli alberi e nei pressi di quel fiume si verificano eventi che deteriorano i rapporti interpresonali del nucleo, che portano i protagonisti sul limitare della follia.
Eppure, quell'enorme distesa di conifere continua a calamitare i personaggi dell'opera nel suo ventre.
La presenza di un luogo al contempo così fortemente attrattivo e respingente genera nello spettatore una commistione di sentimenti che Edmund Burke teorizzò come il sublime: una sensazione di orrendo che affascina, di pericolo attraente, di delightful horror.
Una sensazione amplificata da un finale nel quale sia l'uomo che il bosco rivelano le proprie reali nature, portando il senso dell'opera al suo compimento.
Portando all'apice la sensazione di fascinazione verso l'orrorifico verso la quale quel bosco ci ha spinti per tutto il film.
Un ragionamento sulla condizione della famiglia, ispirazioni e citazioni esplicite al Cinema di Roman Polanski (in realtà a un titolo ben preciso, ma non vi sveliamo quale), l'allontanamento dalla società e, soprattutto, una vigliacchissima sensazione d'ansia che dura per tutto il film.
Shelley è il lungometraggio d'esordio di quell'Ali Abbasi (nato a Teheran ma con passaporto danese) che dopo soli tre anni dalla sua prima pellicola consegnò al pubblico del Festival di Cannes - nella sezione Un Certain Regard - quella deliziosa stranezza cinematografica chiamata Border - Creature di confine.
Shelley racconta la storia di Elena, giovane ragazza romena che per mantenere la famiglia e un figlio piccolo si trasferisce in una casa della profonda campagna danese per lavorare come governante.
I suoi datori di lavoro, la bizzarra coppia di sposi Louise e Kasper, vive in condizioni inusuali: niente elettricità, una quotidianità lontana dal comfort della civiltà e il focolare domestico posizionato fra un lago e l'oscurità dei boschi circostanti.
Dopo un'iniziale e straniante fase di studio, Elena verrà a conoscenza di una particolare problematica fra marito e moglie, stringerà un rapporto "anomalo" con loro - specialmente con Louise - e si prodigherà per aiutarli andando ben oltre i suoi doveri di domestica.
Nel percorso di Elena, il lago antistante la casa - ma soprattutto il bosco - assumono (con il buon colpo d'occhio della fotografia dei DoP Nadim Carlsen e Sturla Brandth Grøvlen) l'aspetto di "luoghi spartiacque" dove la ragazza - in un primo momento - proverà a cercare rifugio, incontrerà oscuri presagi e, inevitabilmente, perderà se stessa.
Shelley di Ali Abbasi non è esente da piccoli/grandi deficit caratteristici di tante opere prime (in questo caso qualche problema nell'intreccio narrativo), ma è una produzione che si lascia ispirare dal grande Cinema di genere del passato, rimaneggiandolo con intelligenza, coraggio e stile.
Oltre a sfruttare - con mano ferma - tutti quei loci horridi che animano il film di una terribile, costante sensazione d'orrore e angoscia.
Lars von Trierè un regista eccezionale, ma anche un uomo pieno di fobie, patologicamente depresso e con vizietti più o meno simpatici come presentarsi nudo sul set, possibilmente ubriaco.
Accusato di molestie, misoginia, nazismo, dell’11 settembre 2001 e probabilmente anche dello tsunami nell’Oceano Indiano del 2004, non c’è nessuno migliore del regista danese per accompagnarci nel bosco degli orrori.
Orrori che vengono da fuori, ma soprattutto orrori che nascono dall'interno.
A discapito dell’ironia, se c’è una cosa che Lars von Trier è capace di fare è adattarsi a vari generi cinematografici, riuscendo a tirare fuori da ogni film un lato oscuro, morboso e sofferto dell’essere umano e soprattutto di se stesso.
Ogni suo film è come un bosco: minuto per minuto ci immergiamo sempre di più, coinvolti da storie fortemente empatiche e sommersi da un utilizzo enfatico del sonoro.
A prescindere dalle inclinazioni metaforiche, Lars von Trier ha girato Antichrist, un film su una coppia che, dopo la morte del figlio piccolo, si rifugia proprio in una casetta nel bosco.
Ci troviamo di fronte a un horror dalle premesse classiche, ma di cui classico non è lo sviluppo.
L’assenza di nomi permette a Lars von Trier di attuare una disamina in chiave universale.
Nella coppia si instaura un rapporto tra terapeuta e paziente, nonostante lei cerchi - soprattutto tramite la sessualità - di instaurare un legame.
Ci troviamo subito davanti a una coppia di opposti e complementari: l’uomo e la donna, il raziocinio e la follia, l’ordine e il caos, la psicanalisi e le superstizioni, il rigore della parola e la l’istintività della carne.
Il bosco è il tempio di Satana, dove si palesano presagi nefasti, soprattutto tramite lasimbologia degli animali.
Il bosco nasconde gli orrori della storia, li inghiottisce e li sputa fuori in una forma arcana, il bosco protegge le ombre e fornisce anfratti in cui nascondersi.
Tra le frasche e i fitti rami non sempre il sole può bagnare la realtà della sua luce.
La visione di Lars von Trier è fortemente nichilista, se non misantropa: fuori dal rigore della società, una volta che un trauma manda in frantumi le sovrastrutture del matrimonio, viene fuori l’inconciliabilità degli opposti.
Non c’è complementarietà che non si risolva nella violenza più cruda, demoniaca, perturbante.
Allora viene da chiedersi: il terrore atavico dei boschi deriva dall’ignoto o dalla paura di ritrovare una versione primigenia di se stessi?