I vampiri sono creature oscure e affascinanti e il Cinema non poteva che rimanerne ammaliato.
Ogni anno in occasione di Halloween ritornano tutte le polemiche del caso: festa pagana, festa satanista, festa capitalista, festa anti-patriottica, qualcuno pensi ai bambini traviati dai costumi da mostro, qualcuno pensi ai giovani con il trucco nero che sorseggiano Bloody Mary traviati dall'ardore del peccato.
La redazione di eretici di CineFacts.it, tra candele - rigorosamente virtuali - e pentacoli rovesciati ha deciso di fornire dello sconvolgente materiale cinematografico per gustare questa deliziosa ricorrenza celtica, nel modo in cui è più consono in questi tempi: a casa, magari davanti a un buon risotto alla zucca.
[La signora Lovejoy dei Simpson è l'ospite d'onore implicito del dibattito televisivo medio in Italia nel periodo di Halloween]
Quest'anno abbiamo scelto di parlarvi di vampiri, fornendovi otto titoli speziati per la cinefilia di tutti i palati, tra perle indipendenti e classici intramontabili.
La figura del vampiro, nonostante abbia radici nella mitologia classica, si è sviluppata principalmente sulla base delle superstizioni nell'Europa Orientale.
Incarna il terrore ma anche la fascinazione dell'oscurità; i vampiri rappresentano la paura del buio, ma anche la lussuria, il trasformismo imprevedibile, la bellezza e l'eleganza di un fascino libero dalle catene del tempo ma limitato dalla malinconia dell'immortalità.
[Vampiri: morti ma deliziosi. Frame da Vita da Vampiro - What we do in the shadows, mockumentary di Taika Waititi]
I vampiri, creature incastrate tra la vita e la morte, sono la personificazione della morte e di tutti gli orrori ad essa associata, ma anche di un impulso sfrenato e distruttivo a perpetuare la propria esistenza.
Sono al contempo Eros e Thanatos.
Del resto, per quanto si voglia fare a gara su quale sia la festa sulla morte meno pagana e più santa delle altre, ognuna di queste ricorrenze si basa su un meccanismo a molla di repulsione e attrazione verso i cari defunti di cui non si vuole accettare la dipartita e un'eventuale scomparsa nel nulla.
Anche i vampiri, si narra, visitano sempre per primi i propri partner e familiari.
L'inesorabile solitudine del Principe della Notte e la sua sete di sangue ha ispirato secoli di letteratura, per approdare al mondo della pellicola e, infine, colonizzare la cultura pop.
[Le vampire cool e metropolitane di Tokyo Vampire Hotel di Sion Sono, serie TV di Amazon Prime Video]
Se Dracula di Bram Stoker (1897) è stato il mattone più importante, anche se non il primo per la costruzione di questa figura dal punto di vista letterario, nel Cinema abbiamo avuto Nosferatudi Friedrich Wilhelm Murnau (1922).
Il film di Murnau rimane tutt'oggi non solo un capolavoro dell'espressionismo tedesco, ma anche la base di tutta la cinematografia vampirica a seguire e il fondamento del concetto stesso di vampiro nella cultura collettiva.
[Nosferatu di F.W. Murnau per intero. Non vi preoccupate: il diritto d'autore è scaduto da un pezzo]
Il film assume un'importanza ancora più imponente se si pensa alle sue implicazioni politiche; pensando all'espressionismo tedesco, dalla pittura al Cinema, troviamo diverse similitudini tra cui una riproposizione martellante di ambienti claustrofobici e personaggi tirannici e manipolatori, profetici per ciò che sarebbe accaduto in Germania negli anni a venire.
Il secondo mattone nella costruzione del vampiro popolare è sicuramente quello posto da Tod Browning con il suo Dracula (1931).
Il physique du role di Bela Lugosi, le sue sembianze da gentleman, l'atmosfera gotica e sontuosa e un uso strepitoso del sonoro extradiegetico si contrappongono al Nosferatu deforme di Murnau, nonostante abbia da questo assorbito la lezione soprattutto di regia.
[Il trailer di Dracula di Tod Browning]
Nel corso dei decenni moltissimi autori di spicco si sono cimentati nella messa in scena dei racconti dalla Transilvania alle variazioni sul tema: da Werner Herzog a Francis Ford Coppola, da Abel Ferraraa Kathryn Bigelow,declinandoli in diversi generi e suggestioni.
A volte anche stravolgendoli completamente, come nei casi umoristici di Per favore non mordermi sul collo! - film diretto nel 1967 da RomanPolański - del Dracula morto e contento (1995) di Mel Brooks o del nostrano Fracchia contro Dracula (1985) con l'inossidabile Paolo Villaggio.
È curioso anche notare come nel corso dei decenni sia stata sempre più frequente la rappresentazione dei vampiri come minoranza piuttosto che come come tiranni, rivelando come sempre il modo in cui il Cinema capta gli impulsi esterni e li fa propri.
[Artwork sui vampiri by Drenny DeVito]
Un altro personaggio importante della letteratura vampirica è quello di Carmilla (1872), la vampira lesbica di Joseph Sheridan Le Fanu, in cui le fasi di vampirizzazione diventano un'esplicita metafora della scoperta della sessualità, soprattutto di quella femminile, repressa e bollata come mostruosa e pericolosa dai tempi della Lilith ebraica.
Diversi film sono liberamente ispirati a questa Principessa della Notte, da Il sangue e la rosa (1960) - non la miniserie con Gabriel Garko, mi raccomando - di Roger Vadim, a una caterva di B-movie sulle vampire lesbiche ipersessualizzate da convertire.
Anche Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer è liberamente ispirato alla vampira, seppur scevro della componente omoerotica.
[Lesbian Vampire Killers di Philip Claydon è un B-movie che vanta ben il 28% di recensioni positive su Rotten Tomatoes]
Dovremmo navigare un fiume lunghissimo di parole per analizzare tutto il Cinema sui vampiri, da F.W. Murnau a Twilight, ma nel farlo perderemmo sangue e senno.
Lasciamo parlare piuttosto i nostri malefici redattori e i loro consigli, rigorosamente in ordine cronologico, per augurarvi un Halloween all'insegna del buon Cinema.
Dopo la nostra selezione ci aspettiamo ovviamente anche i vostri pareri: quali sono i vostri film preferiti sui vampiri?
1932: dieci anni dopo Friedrich Wilhelm Murnau e un anno dopo Tod Browning, il regista danese Carl Theodor Dreyer riscrive la Storia dell'horror e del Cinema tutto.
Fino a quel momento il vampiro per eccellenza era il Dracula nato dalla penna di Bram Stoker, più nell'interpretazione classica di Bela Lugosi che in quella di Max Schreck, e ciò per certi versi vale ancora oggi.
Quel signore che nel 1928 aveva realizzato un filmetto comeLa passione di Giovanna d'Arco decide però di andare a pescare dall'immaginario di uno altro scrittore irlandese, Joseph Sheridan Le Fanu, e lo fa in occasione del suo primo lungometraggio sonoro.
Sceglie consapevolmente di "fare un film diverso da tutti gli altri" e ci riesce, confezionando un'opera dell'orrore parecchio atipica, per usare un eufemismo.
Due degli ingredienti più inflazionati del genere, connessi tra loro, come l'ambientazione notturna - almeno per le sequenze clou - e una cifra visiva espressionista, dai colori iper-contrastati, vengono completamente ignorati.
Come ha segnalato Paolo Mereghetti, Dreyer opta per la "luce diurna" (in "luoghi aperti") e per il "prevalere del bianco sul nero": affidandosi al lavoro del sapiente direttore della fotografia Rudolph Maté, crea insomma un'opera grigia.
Più che spaventare, quindi, l'obiettivo diventa inquietare, e ciò porta con sé una riflessione molto più acuta e sommersa, che si lega anche alla parabola della pulzella d'Orléans.
Lei e Allan Grey sono entrambi soli, soli e assediati, ma se a Rouen valeva il detto "homo homini lupus", ora è il soprannaturale a colpire: un qualcosa di maligno che però si svela il meno possibile, sgattaiolando più nelle menti che nelle carni.
Esplicativo, in tal senso, è il sottotitolo colpevolmente omesso nella versione italiana, traducibile come "il sogno di Allan Gray", che spiega la natura ambigua di questa pellicola, natura concretizzata sul piano visivo dalla sequenza (dal valore anche metacinematografico) della danza delle ombre.
Questa pesante atmosfera di fondo viene poi sostenuta da originalissime soluzioni stilistiche come una sepoltura vista in soggettiva e dal comparto sonoro, reso tremendamente efficace da quei rumori che sopperiscono alla quasi totale assenza di dialoghi.
Attingendo anche dagli immaginari di Edgar Allan Poe e Francisco Goya, Dreyer riesce così a creare un'opera che ancora oggi, dopo vagonate di film sul tema, spicca per eleganza e qualità estetica.
Valerie è un'orfana che vive con sua nonna Elsa in un'abitazione severa e maestosa, immersa in un bucolico paesaggio estivo.
Non lasciatevi ingannare dall'adattamento disonesto del titolo in italiano (il titolo originale è Valerie and her week of wonders, molto più evocativo); a questo gioiellino cecoslovacco bastano 77 minuti per trasportare lo spettatore in un ambiente orrorifico e surrealista.
Delle macchie di sangue su alcune belle margheritine segnano il definitivo passaggio della protagonista dall'infanzia all'età adulta.
Valerie non ne è affatto sconvolta e dimostra subito un interesse morboso e spregiudicato verso la sessualità e il mistero.
Nel borgo dove vive gli abitanti si coprono di veli, cantilenano preghiere e persino i matrimoni sono punitivi e castranti; l'occhio curioso di Valerie scorge l'ipocrisia e l'egoismo dietro questa facciata perbenista.
A rappresenare il marcio c'è un inquietante vampiro - chiamato in vari modi, tra cui Conestabile - una figura tanto brutta quanto manipolatrice, un adescatore e un bugiardo che al contempo tenta e ripugna la giovane Valerie.
Il vampiro è solo il fuoco attorno a cui si radunano preti depravati, anziane alla ricerca spasmodica dell'eterna giovinezza, demoni, fratelli incestuosi, non morti.
Personaggi che si dimenano in una danza orgiastica messa in atto durante un baccanale favolistico in cui sogno e realtà confluiscono l'uno nell'altro.
Tom Holland - regista del campione di incassi La bambola assassina - esordisce alla regia nel 1985 con la commedia horror Ammazzavampiri, un film estremamente radicato negli anni '80, capace però di sfruttare cliché e temi andati a esaurirsi con il glorioso filone horror della Hammer, offrendo uno spettacolo che mostra un delicato senso di nostalgia.
Charley (William Ragsdale), fantasioso giovanotto della periferia di Los Angeles con la passione per l’orrore, scopre che il suo nuovo vicino di casa Jerry (Chris Sarandon) è un vampiro.
Seguendo una formula che negli anni '80 ha fatto fortuna (quella che vede lamentosi adolescenti scontrarsi con il sistema mentre si fanno distrarre dai patemi amorosi) Charley cercherà di convincere sua madre, la sua ragazza e persino la polizia del pericolo che aleggia sulla città, finendo per sembrare un pazzo fanatico.
L’unico in grado di dargli una mano sembra essere il presentatore del programma notturno Ore di orrore - in originale Fright Night, che dà il titolo al film - Peter Vincent (il cui nome stesso è un chiaro omaggio a Peter Cushing e Vincent Price), attore in declino con un grande passato nel Cinema horror e ora relegato al ruolo di uomo-immagine che non gli permette neanche di pagare l’affitto.
La premessa del film è quasi hitchcockiana, con un moderno James Stewart che non riesce a tenere a freno quella voglia matta di spiare ciò che succede fuori dalla finestra, mentre lo sviluppo attinge a piene mani dall’immaginario vampiresco precedentemente codificato dai classici di Browning e Fisher fatto di bare-letto, specchi rivelatori e paletti nel petto, trasportando però il buon vecchio Conte Dracula nei panni di un affascinante e distinto scapolo d’oro che ha in programma di fare stragi di donne nel nuovo quartiere. In tutti i sensi.
Il vampiro è completamente calato in questa nuova realtà urbana lontanissima dai castelli transilvani, muovendosi in una società in cui come dice il personaggio di Peter (Roddy McDowall) nessuno
“Vuol più saperne nulla dei vampiri.A quanto pare, tutto ciò che vogliono sono pazzi invasati che corrono in passamontagna e fanno a pezzi giovani vergini”.
Una gustosa critica metacinematografica proposta da Holland in un periodo in cui lo slasher monopolizzava la scena a discapito dei vecchi, gotici, tempi, popolati da fantasmi, licantropi e vampiri.
Gli effetti speciali curati da Richard Eldmund, Premio Oscar per Guerre Stellari e reduce da Ghostbusters, mostrano mutazioni e abomini a cui gli anni '80 ci hanno abituato - senza sbilanciarsi eccessivamente verso il macabro ma a cui è difficile rimanere indifferenti - sopratutto per la capacità di Ammazzavampiri di lasciare che la tensioni monti lentamente dentro lo spettatore fino al climax.
Un perfetto film per Halloween, capace di essere contemporaneamente divertente, genuinamente spaventoso e camp quanto basta per non prendersi eccessivamente sul serio.
Se si deve trovare un difetto in Fright Night, sarebbe che è tremendamente figlio del suo tempo.
Ma ci sono punti di vista che vedono questo elemento anche fra i suoi migliori pregi.
Per descrivere Dal tramonto all’alba per quanto mi riguarda basterebbe un solo aggettivo: spiazzante.
Il film diretto da Robert Rodriguez e scritto dall’amico di sempre Quentin Tarantino inizia come un thriller, per poi trasformarsi radicalmente in un horror d’azione dove i vampiri sono destinati a diventare carne da macello.
La storia è quella dei fratelli rapinatori Gecko, un'incredibile e improbabile coppia formata da George Clooney e Quentin Tarantino, che dopo essersi lasciati alle spalle una scia di morti sono in fuga verso il Messico.
Per crearsi un passaporto verso la libertà rapiscono l’ex pastore Jacob Fuller (Harvey Keitel) e i suoi due figli Kate (Juliette Lewis) e Scott (Ernest Liu).
L’atmosfera del film di Robert Rodriguez è subito pesante: aleggia fin dalle prime inquadrature una sensazione che suggerisce allo spettatore che qualcosa non vada, che Dal tramonto all’alba è più di un semplice thriller.
Se nel primo atto la tensione è creata dalla schizofrenia del personaggio di Tarantino, quando i protagonisti arrivano al Titty Twister - un locale per camionisti appena dopo la frontiera con gli Stati Uniti - il film cambia radicalmente marcia e si trasforma.
A dare il benvenuto ai Gecko e ai Fuller ci pensa Salma Hayek con uno degli strip più famosi della Storia del Cinema: una sequenza che vale da sola la visione dell’intero film e dà anche inizio alla carneficina.
Non aspettatevi un film che vi terrorizzi: Dal tramonto all'alba è infatti un perfetto equilibrio tra Distretto 13 di JohnCarpenter e lo splatter più sanguinoso e caciarone, dove la voglia di sorprendere lo spettatore è l'obiettivo principale, tenendolo così incollato allo schermo e trascinandolo in una lotta contro vampiri agguerritissimi fino al sorgere del sole.
Improbabili armi brandite da ancor più improbabili personaggi, intermezzate da riflessioni sulla fede, contribuiscono a rendere Dal tramonto all’alba una pellicola cult che esprime al 100% la voglia di divertirsi di Rodriguez e Tarantino.
A un certo punto della sua storia la figura archetipica del vampiro di Bram Stoker si è appannata, allontanandosi dall'eredità del mostro di Murnau e da quelloHammer,dal volto di Christopher Lee, lasciando agli autori della Nuova Hollywood il compito di intercettare altre intuizioni.
Un gran numero di opere ha preso l'abitudine di percorrere principalmente tre strade: la re-interpretazione della struttura dell’opera originale di Bram Stoker, a mio modesto parere non in toto genuinamente brillante; affondare i denti nell’immediato rapporto con l’esistenzialismo, divenuto tema principe di una figura maledetta dall’immortalità; esplorare la forte sessualizzazione del personaggio, gli istinti carnali legati al rapporto con il sangue e tutta quella serie di pulsioni attivate nel mordere la carne e dalla possessione dell’individuo.
Un sistema che ha generato molti cloni alla ricerca del pop e di poco orrore, segnando la fine (temporanea) di un genere sfruttato con più estro da altri autori.
Tra questi personaggi illuminati sbuca John Carpenter, che sul finire degli anni '90 realizza un neo-western horror con i vampiri: Vampires.
Carpenter, la cui poetica è chiaramente figlia del Cinema americano ed eternamente legata a un regista quale Sam Peckinpah, gira una versione vampiresca de Il mucchio selvaggio.
James Woods interpreta il capo di un gruppo di cacciatori di vampiri che si imbatte in uno dei più antichi e pericolosi rappresentanti della specie, il cui scopo è quello di recuperare un prezioso artefatto per completare un rito utile a conferirgli un potere tale da rendere la sua razza inarrestabile.
Vampires riporta il vampiro al mito folcloristico del mostro succhiasangue mosso dall’istinto di sopravvivenza e dalla sua natura animalesca, che lo spinge a vedere l’essere umano come preda e bestiame.
Nel riuscire in questa impresa, il regista americano scomoda il western e realizza un action-horror d’impatto, spingendo sulle scene di violenza, rendendo gli scontri brutali e facendo di James Woods un cowboy moderno lontano dalle figure muscolari e discostando il vampiro dal romanticismo, lasciandolo però ben ancorato al sesso e al sangue.
Vampires è prettamente un action horror e conserva poco della costruzione della tensione e della narrazione di opere quali Halloween, The Fog - La nebbia, La Cosa o Il signore del male, concentrandosi invece sulla fusione dell’azione di Distretto 13 o Fuga da New York con il gore del vampiro.
Un film sicuramente di intrattenimento, divenuto un cult e all’epoca di grande successo in Europa e in Oriente, lasciando più indifferente il pubblico americano che avrebbe dovuto riconoscere più di tutti le influenze seminali del film di Carpenter.
Vampires non è il miglior Carpenter, per costruzione dei personaggi e della narrativa, ma è un film d’impatto girato con gran gusto, pensato per portare al pubblico una sorta di Abraham Van Helsing meno Dottor Loomis e più Jena Plissken.
Sang-hyun è un prete cattolico devoto, mosso sì da compassione, fede e amore per il prossimo, ma anche preda di dubbi e solitudine.
L'uomo di Dio pascola il suo gregge di fedeli e lavora come volontario in un ospedale dove si cerca la cura per un virus letale che sta falcidiando la Corea del Sud.
Da una trasfusione andata male scoprirà - suo malgrado - le pene del vampirismo e comincerà un rapporto molto particolare con Tae-ju, sua parrocchiana apparentemente affetta da sonnambulismo.
Dopo la famosa Trilogia della Vendetta e il dolcissimo Sono un cyborg, ma va bene, con Bakjwi Park Chan-wook cambia genere, virando le tonalità della sua narrazione verso il Cinema horror e il melodramma sentimentale.
I personaggi raccontati attraverso la sceneggiatura - stesa a quattro mani dal regista con Jeong Seo-gyeong - sono controversi, dotati di una profondità non indifferente e costantemente in evoluzione.
L’approccio al vampirismo del cineasta di Seul è viscerale, colmo di immagini forti e soluzioni narrative non convenzionali, dove gli effetti collaterali del vampirismo (la Sete, la violenza, la lussuria) trasformano radicalmente i due protagonisti, interpretati splendidamente da un giovane Song Kang-ho e dalla bravissima Song Ok-bin.
Sang-hyun e Tae-ju, da persone per bene e integerrime, in seguito al "contagio draculesco" mutano fino a diventare dei mostri assetati di sangue completamente in balìa delle proprie pulsioni animalesche.
Va da sé che, a questo punto, per i due novelli vampiri gli esseri umani non siano altro che delle sacche di carne da cui sorseggiare abbondanti dosi di globuli rossi.
Al netto di una partenza stentata, lievemente abulica dal punto di vista visivo e dello script, con l’incontro fra Sang-hyun e Tae-ju il film decolla, planando attraverso i mirabili movimenti di macchina studiati da Park con il DoP Chung Chung-hoon, la scelta deliziosa delle musiche e del missaggio sonoro (la sequenza accompagnata da Bach è una meraviglia), una storia destabilizzante e la consueta pulizia estetico-formale del regista sudcoreano.
Bakjwi si consegna allo spettatore come una mirabile - e sanguinosa - parabola sulla scoperta dell’amore e della sessualità travestita da film horror, ricca di personaggi e situazioni bizzarre, movimenti sinuosi e plastici della macchina da presa e composizioni audiovisive di livello assoluto.
Liberamente ispirato al romanzo Teresa Raquin di Émile Zola, l'ottavo lungometraggio di Park Chan-wook si è aggiudicato il Premio della Giuria al 62° Festival del Cinema di Cannes.
Nella Storia della cultura gotica e orrorifica i vampiri - come tutte le altre creature fantastiche che popolano questi generi - sono spesso stati usati come simbolo sociale e culturale: ipotizzare un'élite immortale e secolare che succhia il sangue alla massa, oltre al mero immaginario sanguinolento, si porta dietro un sottotesto difficile da eludere.
Solo gli Amanti Sopravvivono è proprio questo: non la visione truculenta o erotica dei morsi sul collo, ma la rappresentazione della noia dell'eternità, dello scollamento tra una massa sempre più barbara e "zombesca" e un piccolo gruppo sociale, acculturato e amante del bello, che non si riconosce più nel mondo circostante.
Non siamo più di fronte al racconto dell'aristocrazia o della tirannia, come in altri esempi che sicuramente abbiamo tutti in mente.
"La Bellezza è l'unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l'una sull'altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, e un possesso per tutta l'eternità."
Oscar Wilde
Solo gli Amanti Sopravvivono è il decadentismo e l'estetismo in pillole: esseri senza tempo la cui vita diventa sola ricerca estetica e artistica, in cui qualsiasi tensione tra il bello e i valori sociali viene accantonata.
Adam e Eve sono vampiri, vivono da secoli e si amano e inseguono sempre.
Lei a Tangeri, lui a Detroit, entrambi abitano in lussuosi appartamenti ricolmi di cimeli e ricordi delle loro vite passate e dei grandi artisti che hanno conosciuto.
Le loro vite oscillano tra la volontà suicida di lui e la difficoltà sempre maggiore di approvigionarsi dell'unica cosa di cui hanno bisogno: il sangue.
Chiaro simbolo del bello, della cultura, dell'arte, di quella scintilla quasi divina delle opere d'ingegno che talvolta sembra aver lasciato il mondo odierno.
Nelle loro vite torna Ava, la sorella minore di Eve, le cui passioni sconvolgono la loro noia.
Jim Jarmusch ci presenta un intreccio di musica underground, riferimenti culturali e stralci di grandi opere per condurci nel dramma di una noia senza tempo, della malinconia dell'artista e della difficoltà di comprendere e accettare il mondo esterno.
Una giovane con indosso uno chador nero si aggira per le strade: sola nella notte, osserva l’arida città Bad City, luogo di cattiverie e violenza.
Uno scenario ostile, che la porterà a fare scelte cruciali e terribili.
Primo lungometraggio di Ana Lily Amirpour, A Girl Walks Home Alone at Night è il racconto di un'anti-eroina che cerca a tutti i costi di “ripulire” la città dal dolore attraverso la morte.
La vampira senza nome, interpretata brillantemente da Sheila Vand, è consapevole di eliminare i “cattivi” e allo stesso tempo di essere il cattivo.
C’è un continuo contrasto su quello che è e su quello che desidera, creando un loop di violenza e vendetta che si ferma solo nei brevi momenti in cui incontra un ragazzo di nome Arash, anch’egli preda di un posto che sembra non appartenergli.
Sono presenti tantissimi riferimenti ai Maestri letterari del macabro - come JohnPolidori e BramStoker - e ispirazioni cinematografiche, tra le quali risaltano le atmosfere malinconiche di Jim Jarmusch e il più classico Friedrich W.Murnau.
Inoltre, piccola perla inaspettata per un horror, non manca qualche riferimento agli spaghetti western di SergioLeone.
Grazie all’uso sapiente di brevi dialoghi e una particolare colonna sonora si respira la solitudine in ogni scena - in modo costante e impeccabile - costringendo lo spettatore a lasciarsi catturare da quegli enormi occhi che scrutano ogni cosa senza malizia, disillusi e rancorosi.