Sì, lo so: le doti attoriali di Clint Eastwood non sono mai riuscite ad essere particolarmente convincenti; del resto come aveva giustamente fatto notare Sergio Leone“aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello”. Ma si può dire lo stesso delle sue capacità da regista?
Tutto inizia nel 1968, quando grazie ai profitti ricavati dall’enorme successo della Trilogia del Dollaro Eastwood fonda la società di produzione Malpaso Productions.
Questo passo è cruciale perché gli permetterà di seguire più da vicino le dinamiche di produzione che saranno propedeutiche al suo percorso dietro la macchina da presa.
Decide quindi di interpretare tutte le prime pellicole della Malpaso, cominciando quest’avventura nel migliore dei modi: Impiccalo più in alto di Ted Post è uno dei maggiori successi commerciali dell’anno, mentre L’Uomo dalla cravatta di cuoio sancisce un sodalizio artistico con il regista Don Siegel che non solo sarà particolarmente fruttuoso, ma gli consentirà di imparare tutti i trucchi del mestiere.
L’esordio alla regia per Clint Eastwood arriva nel 1971, con il thriller psicologico Brivido nella notte, che oltre a sbancare il botteghino raccoglie molte critiche positive.
Due anni più tardi il suo secondo lavoro subirà la stessa sorte: Lo straniero senza nome è un western che presenta influenze leoniane, siegeliane e del cinema classico americano di Raul Walsh e John Ford.
Tuttavia, si nota che riesce a discostarsi da tutte e tre proponendo un principio di impronta tutta personale.
A dimostrazione di ciò, John Wayne mandò a Clint Eastwood una lettera in cui lo redarguiva per avere rappresentato un’idea fuorviante del Far West e dei suoi abitanti.
[Nel suo debutto alla regia Clint Eastwood interpreta uno speaker radiofonico perseguitato maniacalmente da un’ammiratrice (Jessica Walter)]
Da questo momento in poi il cammino del Clint Eastwood regista verrà caratterizzato da alti e bassi, una costante che dura tuttora.
Tuttavia, dopo i due tentativi mediocri del dramma romantico Breezy nel 1973 con William Holden e il thriller d’azione Assassinio sull’Eiger nel 1975, è sempre con il genere western che arriva la svolta definitiva della carriera.
Nel 1976 Il texano dagli occhi di ghiaccio è un successo di pubblico e critica che vede nascere quegli stilemi che faranno parte del suo marchio di fabbrica: una regia asciutta e disadorna, una costruzione psicologica minuziosa e profonda dei protagonisti, dialoghi corti e laconici.
Una combinazione di fattori che attirerà le attenzioni nientemeno che di Orson Welles, che loderà il film e le capacità del regista californiano.
Clint Eastwood riesce, in piena rivoluzione cinematografica targata New Hollywood, nell’impresa di richiamarsi al classicismo americano senza rimanerne prigioniero, apportando una riflessività critica non indifferente dell’animo umano e del suo ambiente.
Tra la fine degli anni ‘70 e per tutto il decennio successivo il neo-regista gira alcuni successi commerciali, ma con messe in scena molto deboli o non curate come il thriller L’uomo nel mirino nel 1977, il fantascientifico Firefox - Volpe di fuoco nel 1982 e il quarto capitolo della saga dell’Ispettore Callaghan Coraggio… fatti ammazzare l’anno seguente.
Tra queste uscite, però, troviamo titoli degni di nota come la commedia nostalgica Bronco Billy nel 1980 e Honkytonk Man nel 1982, il primo lungometraggio musicale del regista di San Francisco, genere a cui sarà molto legato.
[Clint Eastwood interpreta un personaggio ispirato al cantante country Jimmie Rodgers. Come co-protagonista figura il figlio Kyle, musicista che comporrà molte colonne sonore per i lavori del padre]
Manco a farlo apposta, è ancora una volta con il genere western che Clint Eastwood compie un passo in avanti nel proprio percorso da regista.
Nel 1985 con la regia de Il Cavaliere Pallido dimostra una maturità tale da mettere d’accordo tutta la critica internazionale a tal punto da farlo partecipare in competizione al Festival del Cinema di Cannes.
L’anno successivo continua la sua crescita artistica girando il suo primo film di genere militare, Gunny, che viene elogiato per la messa in scena e per l’interpretazione dello stesso regista.
Verso la fine degli anni ’80 la carriera di Clint Eastwood subisce un’inversione di tendenza: le pellicole che fanno fiasco al botteghino vengono considerate e premiate a livello internazionale.
Nel 1988 esce il suo secondo film musicale, Bird, un biopic sulla vita del sassofonista Charlie Parker.
La pellicola partecipa nuovamente al Festival di Cannes dove vince il Gran Prix tecnico per la solonna sonora e il premio per la migliore interpretazione maschile assegnato a Forest Whitaker.
Non solo, perché il film vince anche un Oscar per il Miglior Sonoro e un Golden Globe per la Miglior Regia.
[Bird consegna a Clint Eastwood un Golden Globe, il suo primo premio in assoluto per la regia]
Un altro caso simile è quello di Cacciatore bianco, cuore nero del 1990, che tratta in maniera velata della spedizione africana per il set de La Regina d’Africa da parte di John Huston, interpretato dallo stesso Eastwood.
Il film è forse il peggior flop del regista americano, ma viene apprezzato da molti esperti del settore e proposto nuovamente al Festival di Cannes.
Dopo l’insuccesso de La recluta nel 1990, è nuovamente con un film sul Vecchio West che le doti di Eastwood vengono definitivamente consacrate.
Gli Spietati nel 1993 viene nominato a 9 Premi Oscar vincendone 4 (Film, Regia, Montaggio e Gene Hackman come Attore Protagonista), a 4 Golden Globe aggiudicandosi Miglior Regia e Migliore Attore Protagonista e a 5 BAFTA, portandosi a casa il premio per il Migliore Attore Protagonista.
L’acclamazione della critica continua grazie a Un mondo perfetto nel 1994 e al film romantico I ponti di Madison County nel 1995, ma seguono una serie di scarse produzioni tra cui Potere assoluto e Mezzanotte nel giardino del bene e del male nel 1997, Fino a prova contraria nel 1999, Space Cowboys nel 2000 e Debito di sangue nel 2002.
Tuttavia, proprio quando questa serie di insuccessi sembra averne compromesso definitivamente la credibilità, il talento di Clint Eastwood esce nuovamente allo scoperto.
Nel 2003 Mystic River riceve 142 nominations nel mondo aggiudicandosi 55 premi, la maggior parte per le interpretazioni di Sean Penn e Tim Robbins, che vincono entrambi un Oscar per la loro interpretazione.
L’anno successivo il tiro viene decisamente migliorato: Million Dollar Baby viene osannato dalla critica e di Oscar ne vince 4.
Miglior Film, Regia, Attrice Protagonista (Hillary Swank) e Attore Non Protagonista (Morgan Freeman).
[Mystic River è il film di tutta la filmografia di Clint Eastwood che ha raccolto più nominations nel mondo, ben 142]
Lo stato di grazia continua neI 2006 con il dittico Flags of our Fathers - Lettere da Iwo Jima (il secondo più riuscito del primo), mentre nel 2008 Changeling viene presentato in competizione al Festival di Cannes e Gran Torino acclamato come una delle sue opere piú profonde nonché meglio interpretate dal regista stesso.
Dalla fine degli anni 2000 il focus di Clint Eastwood si è esclusivamente concentrato su trame biografiche o su vicende realmente accadute, unica eccezione lo spirituale Hereafter del 2010.
Invictus - L’invincibile, su Nelson Mandela e la Coppa del Mondo di Rugby vinta dal Sudafrica (2009).
J. Edgar, sulla vita del direttore dell’FBI (2011).
Jersey Boys, sulla formazione del gruppo musicale The Four Seasons (2014).
American Sniper, sul cecchino americano Chris Kyle (2014).
Sully, sull’ammaraggio da parte del pilota Chesley Sullenberger (2016).
Ore 15:17 - Attacco al treno, sull’attacco terroristico sventato da tre americani (2018).
Il Corriere - The mule, sul veterano della Seconda Guerra Mondiale Leo Sharp diventato corriere per un cartello di trafficanti di droga (2018) e infine Richard Jewell (2019), sulla guardia di sicurezza che nel 1996 salvò centinaia di vite da un’esplosione terroristica, ma poi fu ingiustamente sospettato dall’FBI.
A partire dagli anni '80, Clint Eastwood mette a punto uno stile cinematografico differente da quello proposto precedentemente, che si basa ancora sulle caratteristiche del Cinema americano classico ma si allontana decisamente dalle sue tematiche, una sorta di revisionismo che è stato definite come ‘post-classicismo’.
Si inizia a definire un approccio crepuscolare che lo porta inesorabilmente a smontare tutti i cardini dello spettro culturale e valoriale americano: esempi lampanti sono Gli Spietati e il dittico Flags of our fathers - Lettere da Iwo Jima, che non solo demistificano il mito del West e il patriottismo, ma anche la caratterizzazione dei loro personaggi.
Il tema più ricorrente di tale approccio è quello della famiglia, più precisamente quello delle responsabilità dei padri (o genitori in senso lato) verso i figli: i primi devono essere presenti, rappresentare una guida e un esempio affinché i secondi possano avere un futuro migliore.
Inizia così la strutturazione di una specie di nichilismo che affronta il concetto della morte - e la preparazione ad essa - in maniera chirurgica, dove la strutturazione psicologica dei personaggi è sempre messa a dura prova da profondi dilemmi morali.
Eastwood, infatti, sceglie spesso dei personaggi con caratteri ombrosi, sofferenti e incompleti, quasi sempre caratterizzati da un vuoto sentimentale o emotivo che li costringe ad una tragica solitudine.
Per loro l’unico riscatto possibile viene raggiunto attraverso un atto violento volto a espiare quelle colpe che non sono disposti a tramandare alle generazioni future.
A seguire quelle che a mio avviso sono le migliori 8 pellicole dirette da Clint Eastwood tra i suoi 41 lavori prodotti finora.
Siete d’accordo?
Quali sono le vostre?
1 di 8
Posizione 8
Flags of our Fathers
2006
“Qualsiasi somaro crede di sapere cos'è la guerra. Specie quelli che non l'hanno mai fatta.
Le cose ci piacciono semplici e lineari. Buoni e cattivi. Eroi e canaglie.
E ce ne sono tanti degli uni e degli altri. Ma quasi mai sono come li immaginiamo noi.”
Nel 2006 Clint Eastwood mette in atto un ambizioso progetto cinematografico, il primo nella Storia del Cinema: dirigere quasi in contemporanea due lungometraggi sulla battaglia di Iwo Jima della seconda guerra mondiale.
Uno, Flags of our Fathers, viene raccontato dalla prospettiva degli americani e l’altro, Lettere da Iwo Jima, da quella dei giapponesi.
Flags of our Fathers, però, è lungi da essere un film semplicemente sulla guerra: il contesto bellico viene utilizzato come espediente narrativo al fine di dissacrare il mito dell’eroe e la sua costruzione.
Infatti, il cardine della pellicola tratta dal romanzo di Jon Bradley e Ron Powers è la celeberrima foto scattata dal premio Pulitzer Joe Rosenthal raffigurante sei soldati colti a issare la bandiera americana sul punto più alto dell’isola di Iwo Jima.
La struttura narrativa è frammentata in tre linee temporali: quella del presente in cui il figlio di uno dei militari in questione intervista i superstiti e scopre che la foto in realtà non illustra l’alzata originale del vessillo ma una ripetizione; quella doppia del passato durante e dopo la battaglia.
Alla fine dei combattimenti quell’immagine viene strumentalizzata dai media americani per fomentare un patriottismo necessario a vincere la guerra, e ai tre superstiti viene ordinato di rientrare in patria per promuovere una raccolta di fondi da destinare all’esercito: il passo breve da una campagna di guerra a una propagandistica.
Eastwood non si trattiene nel mostrarci quanto sia stato inumano dare in pasto le vite di tre ragazzi alla macchina mediatica. I tre soldati vengono sballottati tra feste private, eventi pubblici e addirittura una riproduzione del gesto della foto all’interno di uno stadio gremito. Quando i riflettori si spengono, però, i protagonisti rimangono da soli con i loro incubi, i loro mostri, le loro paure e i loro sensi di colpa. Così nel passato, come nel presente.
Per rendere al meglio questa loro sensazione il regista e il fidato direttore della fotografia Tom Stern raffigurano le scene di guerra, quelle girate in patria e quelle ambientate nel presente con lo stesso filtro di grigi-bluastri desaturati e gli stessi chiaroscuri, come a indicare, molto sagacemente, che per i protagonisti si tratta di campi ugualmente ostici e dolorosi.
Qui entra in gioco il tema caro al regista del ruolo, in questo caso, dei padri di ieri verso i figli di oggi: solo attraverso un esempio privo di qualsiasi retorica le generazioni future potranno capire ed evitare gli errori commessi da quelle passate.
Eastwood vuole smontare la retorica dell’eroismo e del patriottismo che pervade oggi come allora la società americana presentando tre antieroi che per liberarsi dall’ipocrisia della spettacolarizzazione delle loro gesta devono lottare con se stessi tanto quanto fecero contro il nemico in guerra.
Flags of our Fathers rappresenta quindi una delle metafore antieroiche più incisive mai viste, dove Eastwood dissocia in maniera molto decisa – proprio come fece ne Gli Spietati – il mito dalla realtà.
La colonna sonora è stata curata interamente dal regista.
Posizione 7
I ponti di Madison County
1995
“I vecchi sogni erano bei sogni… non si sono avverati, ma comunque li ho avuti”
I ponti di Madison County, tratto dall’omonimo romanzo di Robert James Waller e sceneggiato da Richard LaGravanese (La leggenda del Re pescatore), racconta la storia d’amore impossibile tra la casalinga Francesca Johnson (Meryl Streep) e il fotografo solitario Robert Kincaid (Clint Eastwood).
Nonostante sia il suo primo film romantico, Eastwood dimostra la propria maturità artistica affrontando il genere senza cadere in particolari eccessi drammatici o forzature sdolcinate, bensì descrivendo le circostanze e i sentimenti dei protagonisti con una credibilità e sensibilità strabilianti.
Inoltre, il fatto di avere girato le scene del film in ordine cronologico della storia e dal punto di vista di Francesca dice molto di quanto il regista volesse che le emozioni dei personaggi risultassero realistiche e spontanee.
La tematica crepuscolare cara a Eastwood è il fulcro della pellicola: la difficile scelta di Francesca tra la vita abitudinaria e insoddisfacente composta da marito e due figli e la possibilità di concretizzare l’amore travolgente appena scoperto per Robert ci insegna che la vita è fatta soprattutto di dilemmi morali senza un lieto fine e che le seconde occasioni potrebbero anche non ripetersi mai.
Tutto questo, ovviamente, ha una valenza ancora maggiore se declinato all’inesorabilità del tempo.
I due protagonisti sono infatti due persone di mezza età costrette a dovere decidere se tenere viva nella memoria una passione nata solo da quattro giorni o rischiare di rovinarla con l’abitudine arrivando a spegnerla definitivamente.
Tuttavia, può un rimpianto rimanere un bellissimo ricordo?
Con una messa in scena asciutta ma emotiva, Eastwood risponde a questa domanda stravolgendo ancora una volta quell classicismo cinematografico a cui è devoto.
La straordinaria interpretazione di Meryl Streep le è valsa una nomination agli Oscar.
Cahiers du Cinéma lo ha selezionato come il miglior film del decennio 1990 - 1999 (ex-aequo con Goodbye South, Goodbye di Hou Hsiao-hsien e Carlito’s Way di Brian De Palma).
Posizione 6
Un mondo perfetto
1993
- Hey, sei mai stato su una macchina del tempo? Secondo te questa cos’è?
- Un’automobile
- Stai vedendo la cosa nel modo sbagliato: questa è una macchina del tempo del XX secolo. Io sono il comandante, e tu il navigatore.
Lì davanti c’è il futuro. Là dietro…beh, quello è il passato. Se la vita va troppo piano e ti vuoi proiettare nel futuro, devi dare tutto gas... ecco, così! Visto?
E se vuoi rallentare…beh, facile, spingi col piede sul freno, e la fai rallentare.
Questo è il presente, Philip: goditelo finché dura!
Un mondo perfetto rappresenta una delle pellicole più lineari e allo stesso tempo più simboliche mai dirette da Eastwood.
La sceneggiatura scritta da John Lee Hancock si ambienta in Texas nel 1963 e vede l’evaso Butch Haynes (Kevin Costner) prendere come ostaggio Philip, un bambino di soli 8 anni, e intraprendere una fuga in macchina verso l’Alaska.
A dargli la caccia il Ranger Red Garnett (Clint Eastwood) e la criminologa Sally Saber (Laura Dern), ingaggiati per risolvere il caso (ormai diventato mediatico) prima dell’imminente visita a Dallas del Presidente John F. Kennedy.
Si tratta di una durissima critica verso una società che sta fallendo e che ha portato al tramonto quel sogno americano che diceva di proteggere i valori della giustizia e della famiglia.
Da una parte, vediamo come il concetto di giustizia sia viziato dai pregiudizi e dalle etichette del Bene e del Male che impone la morale: chi sbaglia è bollato per sempre come perdente e viene lasciato indietro.
Dall’altra, Eastwood alza il dito contro quei padri assenti (Philip è cresciuto solo con la madre), violenti (Butch subiva abusi dal padre) e troppo austeri (decenni prima Red Garnett aveva spinto affinché Butch andasse in riformatorio invece che scontare una pena leggera), primi responsabili del degrado morale della società.
Attraverso la descrizione del tenerissimo rapporto paterno che si crea tra rapitore e ostaggio, il regista non vuole solamente sopperire alle mancanze di cui sopra, ma vuole prendere le parti di tutti quegli emarginati sociali che sono destinati a perire sotto il cinismo e l’ipocrisia della doppia morale americana.
Alla fine, le etichette si invertono: Butch, nonostante sia un criminale, è un buono che riesce a regalare a Philip momenti di felicità che non aveva mai raggiunti prima, oltre a diventare quella guida paterna che non aveva mai avuto.
Grazie anche a una regia ridotta all’osso ma colma di poetica, Un mondo perfetto si pone come una pellicola che in maniera molto sensibile, coraggiosa e del tutto attuale rivela tutte le contraddizioni morali e sociali di un mondo che di perfetto non ha proprio nulla.
Un’altra disillusione necessaria per mostrarci che la leggenda è molto diversa dalla realtà.
La pellicola fu snobbata da tutte le premiazioni possibili ma fu scelta dalla prestigiosa rivista Cahiers du Cinéma come miglior film del 1993.
“Fa ciò che è giusto, perché lo ritieni giusto, non perché devi farlo.”
Nel dittico sulla battaglia di Iwo Jima Lettere da Iwo Jima fa da contraltare a Flags of our Fathers, e allo stesso modo sarebbe troppo riduttivo definirlo solamente un film di guerra.
Anche questa pellicola è permeata da un forte sentimento antieroico, ma presenta un tono meno critico e molto più poetico, uno dei particolari che lo rende un lavoro complessivamente più riuscito rispetto al suo ‘gemello diverso’.
La sceneggiatura di Paul Haggis (Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale e per il Miglior Film con Crash - Contatto fisico) è parzialmente ispirata a Così triste cadere in battaglia, un romanzo basato sulle corrispondenze tra il Generale Tadamichi Kuribayashi, il comandante della guarnigione a protezione dell’isola di Iwo Jima dagli attacchi degli americani, e la moglie.
Il motore della trama sono proprio le missive del Generale e quelle fittizie degli altri soldati: è attraverso questi mezzi che Eastwood rende onore ai caduti nipponici che difesero l’avamposto del proprio Impero per 36 giorni, in una battaglia che era già persa in partenza.
Il regista celebra i caduti nella maniera più rispettosa possibile, senza ricorrere alla tipica compassione riservata ai vinti, ma inoltrandosi totalmente nella cultura e nella lingua giapponese.
Non è certo un caso, infatti, che i dialoghi siano stati realizzati in lingua originale per la distribuzione internazionale.
Anche in questo caso regista e direttore della fotografia (sempre Tom Stern) optano per dei colori desaturati, ma stavolta tendenti più al seppia vuoi per rendere maggiormente angoscianti i cunicoli dove si svolgono la maggior parte delle scene di guerra, vuoi per trasmettere allo spettatore lo stesso forte senso di desolazione provato dai soldati nipponici.
La bravura di Eastwood sta anche nel saper descrivere dei personaggi umanamente credibili con i quali è facile immedesimarsi - nonostante lo scoglio linguistico - forse perché presentati da una prospettiva soggettiva e totalmente personale come quella delle lettere.
Oppure, più probabilmente, perché quello che ne esce è un quadro di una rappresentazione culturale che alla fine non è così diversa e distante da quella occidentale.
Il tutto grazie anche a una regia profonda che riesce a non cadere mai nella retorica antimilitarista: sono proprio le diverse sfaccettature culturali presentate nella pellicola a lasciare fuori la trama da ogni tipo di cliché sulla fratellanza dei popoli in guerra.
Come Flags of our Fathers ha voluto demistificare il mito del patriottismo per differenziarlo dalla realtà, Lettere da Iwo Jima attraverso una poetica delicata riesce a fare lo stesso con il mito del guerriero giapponese impavido e insensibile, arrivando quindi a concludere con il medesimo risultato questo duplice progetto cinematografico.
“È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha... e tutto quello che sperava di avere.”
Gli Spietati rappresenta una delle massime espressioni di quell’approccio dimesso e decadente che caratterizzerà la maggior parte della cinematografia futura di Clint Eastwood.
Sceneggiato dall’ottimo David Webb Peoples (Blade Runner, L’esercito delle 12 scimmie), il film ha come protagonista William Munny, un ex-pistolero ormai ritiratosi a vita privata con due figli piccoli.
Rimasto vedovo, per potere mantenere la famiglia si vede costretto ad accettare la proposta di un gruppo di prostitute di vendicare lo sfregio di una compagna in cambio di una taglia di mille dollari.
Nella caccia agli sfregiatori Munny si fa aiutare dall’amico di vecchia data Ned Logan (Morgan Freeman), ma lo sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman) interviene perché per lui giustizia è già stata fatta.
In questo film il regista riesce a rivoluzionare il classicismo cinematografico americano cambiando la sostanza ma mantenendone - in parte - la forma.
Da un punto di vista formale, i campi lunghi per immortalare i paesaggi, i piani medi e le luci diegetiche negli interni si rifanno al Cinema classico, mentre i primi e i primissimi piani se ne allontanano parecchio e vengono utilizzati per risaltare la riflessività delle espressioni dei personaggi.
Per quanto riguarda la sostanza, invece, Eastwood demistifica l’intera ideologia del Vecchio West cinematografico mostrandone il lato più realistico.
Il regista riscrive il genere depurandolo da tutti i suoi aspetti mitologici: non esiste una distinzione netta tra Bene e Male, tra buoni e cattivi, non esistono né cavallerie né cause nobili.
Ognuno agiva secondo le proprie necessità, non c’era spazio per un’etica ferma e definita.
Munny è il protagonista ma non è un eroe, è un ex-pistolero assassino di donne e bambini.
Little Bill è uno sceriffo aggressivo che usa la violenza per difendere la legge, ma non è totalmente malvagio.
Gli Spietati rappresenta anche un’aspra analisi del denominatore comune sul quale i coloni avevano costruito la nuova nazione: la violenza.
Nessuno si può sottrarre ad essa, nemmeno chi è invecchiato troppo per praticarla. In quel mondo era una maledizione che ti perseguitava fino all’ultimo dei tuoi giorni.
La dissacrazione del mondo western nella pellicola viene impersonificata dalla figura del biografo W.W. Beauchamp (Saul Rubinek), che all’interno dell’intreccio si ritrova a svolgere esattamente questa funzione.
Eastwood, infatti, attraverso le testimonianze che raccoglie il personaggio, ci vuole mostrare che - proprio come aveva fatto John Ford con L’uomo che uccise Liberty Valance - esiste una netta differenza tra leggenda e realtà.
Il quadro quindi è impietoso: Eastwood distende su tutta la pellicola un pessimismo che non lascia via di scampo.
Per rendere a pieno questa sensazione, il regista e il direttore della fotografia Jack N. Green optano per una fotografia cupa e una composizione delle inquadrature tale da attribuire alle immagini una profondità desolante.
Il tutto è coadiuvato da un montaggio reso a volte abbastanza convulso da Joel Cox al fine di alternare tutte le prospettive dei personaggi dando loro lo stesso peso.
Ma il particolare che rende lo stile del film davvero crepuscolare è l’inquadratura iniziale e quella finale, entrambe della fattoria di Munny: la posizione della macchina da presa è pressoché identica, ma sullo sfondo della prima possiamo ammirare un’alba e su quello dell’ultima un tramonto.
Una ciclicità degna di qualsiasi leggenda del Vecchio West.
Primo successo agli Oscar per Eastwood: Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Attore Protagonista per l’ottimo Gene Hackman (vincitore anche di un Golden Globe) e Miglior Montaggio a Joel Cox.
Questo è stato l’ultimo western di Eastwood, che lo ha volute dedicare ai suoi maestri Sergio Leone e Don Siegel, come si può ammirare negli ultimi secondi della pellicola.
Il 25° lungometraggio di Clint Eastwood è ispirato a un racconto della raccolta Rope Burns scritta da F.X. Tool ed è sceneggiato da Paul Haggis.
La trama si svolge a Los Angeles, dove Maggie Fitzgerald (Hillary Swank), una cameriera aspirante pugile, chiede testardamente al riluttante vecchio Frankie Dunn di farle da allenatore e manager: Frankie si farà convincere dall’amico ex-pugile Eddie (Morgan Freeman).
Maggie si rivela un portento, ma il destino è sempre pronto dietro l’angolo.
Anche in questo caso, definire Million Dollar Baby un film sulla boxe è estremamente riduttivo e parzialmente fuorviante.
Infatti il ring, le competizioni e lo spirito agonistico fungono semplicemente da metafora per un’esistenza in cui bisogna sempre lottare per non cadere, ma soprattutto “proteggersi sempre”, come dice Frankie.
Clint Eastwood si è messo dietro la macchina da presa proprio per mostrarci che così nella boxe come nella vita basta poco per distrarsi, non proteggersi e di conseguenza soffrire.
E lo fa con un pessimismo straziante, protagonista di una messa in scena priva di qualsiasi pateticità o facile sentimentalismo anche quando la situazione diventa terribilmente drammatica.
Million Dollar Baby è un altro esempio del revisionismo del Cinema classico da parte del regista: se la narrazione e la presentazione dei personaggi può risultare canonica, sicuramente non lo è la loro costruzione e la prospettiva con la quale vengono trattati i temi principali.
La regia continua ad essere asciutta, e la fotografia sempre più ombrosa.
Con la figura di Frankie, il regista ci presenta un altro antieroe che rifiuta ogni tipo di nozione proveniente dall’ordine costituito e dalla religione per servirsi di un’etica personale in cui Bene e Male possono essere intercambiabili.
Il nichilismo di Eastwood è proprio questo: l’adattamento dell’essere umano alla spietata realtà che lo circonda come unico metodo di sopravvivenza.
Il destino finirà sempre e comunque per piegare l’uomo e mai il contrario. Lo scotto da pagare, ovviamente, è affrontare un dilemma morale.
Il regista propone nuovamente un confronto con i temi della famiglia e della morte. Per quanto riguarda il primo, il punto centrale è il ruolo dei padri verso i figli e il loro rapporto. Inutile dire quanto Frankie riveda in Maggie la figlia con la quale non ha più contatti se non le lettere che lei puntualmente gli rimanda indietro.
Anche per questo motivo Frankie non vuole sprecare questa seconda possibilità e insegna a Maggie a “proteggersi sempre”. Ma sarà sufficiente?
O forse sarà troppo?
A proposito del secondo tema, in questa pellicola la preparazione psicologica alla morte è molto più sentita e dolorosa perché è intrisa di sensi di colpa.
Come nella più tipica prospettiva post-classicista eastwoodiana, sarà un atto di estrema violenza a cambiare il verso della trama: paradossalmente, si tratterà allo stesso tempo di uno dei migliori gesti d’amore che un padre possa mai compiere.
La colonna sonora è firmata dal regista, che dopo 12 anni torna a vincere il premio Oscar perla Miglior Regia e il Miglior Film.
Meritatissimi anche gli Oscar alla Migliore Attrice Protagonista per Hillary Swank e quello per il Migliore Attore non Protagonista andato a Morgan Freeman.
“La cosa che tormenta di più un uomo è quella che non gli hanno ordinato di fare.”
Alla veneranda età di 78 anni, Clint Eastwood non aveva intenzione di fermarsi per esprimere la sua idea di Cinema, e fortunatamente non ha smesso nemmeno ora.
Gran Torino è stato scritto dall’esordiente Nick Schenk, e vede come protagonista l’irascibile, scontroso, veterano della guerra di Corea di origine polacche Walt Kowalski (Clint Eastwood) incontrare difficoltà nel tenere rapporti con i figli e con il vicinato popolato da immigrati Hmong.
Rimasto vedovo, trova diletto solo nello stare con la sua cagnetta e prendersi cura della sua Ford Gran Torino del ’72.
Quando il figlio della famiglia di origine Hmong vicina di casa cercherà di rubargliela, per lui cambierà tutto.
Con questo film Clint Eastwood sembra aver terminato e allo stesso tempo superato quel processo di revisione del classicismo iniziato con Gli Spietati che lo aveva portato a proporre alcuni cambiamenti di forma e di sostanza di quel Cinema della sua generazione.
Da un punto di vista tecnico, il regista e il solito direttore della fotografia Tom Stern continuano a puntare su dei chiaroscuri compositivi per raffigurare lo stato d’animo del protagonista, ma allo stesso tempo lo stile narrativo termina di essere esclusivamente drammatico e acquisisce tratti sempre più ironici (come in Million Dollar Baby, ma in quantità maggiori), prendendo una piega inconsueta anche per le opere passate di Eastwood.
Da una prospettiva tematica, il regista presenta una pellicola incentrata su una forte critica sociale e culturale, tema praticamente nuovo rispetto a quelli normalmente affrontati, che comunque sono presenti.
Sembra scontato dire quanto il personaggio di Walt simboleggi i difetti del paese a stelle e strisce: è una contraddizione vivente (si dichiara americano al 100% ma è di origini polacche), razzista (non disprezza solo gli asiatici) e ultraconservatore (la Ford Gran Torino che custodisce gelosamente in garage rappresenta per lui il vero faro americano in un mare di automobile fabbricate in altri paesi).
Dal cambiamento graduale del protagonista sembra trasparire un appello a una nazione che ha fatto del melting pot uno dei suoi capisaldi per raggiungere al più presto una comprensione e una tolleranza verso il diverso che al giorno d’oggi manca quasi totalmente.
Inoltre, accanto alle tipiche tematiche della colpa, della famiglia e della morte, troviamo quella della redenzione, che porta con sé un messaggio di speranza.
Eastwood sottolinea ancora una volta quanto sia importante che i padri si prendano le responsabilità che hanno verso i loro figli – e quindi tutte le generazioni future – per guidarli e non lasciarli mai soli, ma non solo: le relazioni con i figli (in questo caso Thao e Sue) possono mettere in discussione le convinzioni dei padri, aiutandoli a capire i propri limiti e a migliorarsi.
Il tema della morte in questo caso passa attraverso un male incurabile che Walt vuole nascondere alla sua famiglia.
Entrambi i punti spingeranno il protagonista a un atto di redenzione contenente un messaggio ottimista, cosa che non si era ancora vista nella filmografia recente del regista.
“A volte penso che ci siamo saliti tutti e tre insieme in quella macchina.”
Mystic River contiene una delle forme più crudeli del post-classicismo eastwoodiano.
Tratto dal romanzo La morte non dimentica di Dennis Lehane, la sceneggiatura di Brian Helgeland (L.A. Confidential) si ambienta a Boston e vede le vite dei tre amici Jimmy Markum (Sean Penn), Dave Boyle (Tim Robbins) e Sean Devine (Kevin Bacon) essere colpite da due tragedie diverse a 25 anni di distanza.
Dave, che nel passato era stato rapito da un pedofilo in una macchina davanti agli occhi di Jimmy e Sean, nel presente viene accusato dell’omicidio della figlia di Jimmy.
Attraverso l’utilizzo di questi atti tragici, Eastwood costruisce una pellicola soprattutto attorno al tema della perdita.
La perdita dell’innocenza, la perdita in quanto dipartita, la perdita della fiducia nella giustizia terrena e divina.
A questo sentimento di sottrazione si accosta l’ineluttabilità del destino, che secondo il regista conduce le nostre vite indipendentemente dalla nostra volontà e del nostro agire. La spietatezza di un fato che costringe l’essere umano a essere perseguitato da dilemmi morali in cui non riconosce il bene dal male, in cui i sensi di colpa sono una costante da cui è impossibile liberarsi, nemmeno grazie a quell’uso della violenza e del suo supposto effetto catartico.
Anche in questa pellicola Eastwood ripropone uno dei topoi più presenti nella sua filmografia: il tema della famiglia, e più particolarmente la responsabilità che hanno i padri verso i loro figli.
Per il regista californiano pare che non ci sia nessuno scampo, perché le colpe, la violenza e il dolore che ne consegue si riversano periodicamente sulle generazioni future.
Il Male ha sempre una possibilità in più di imporsi sul Bene.
Quanto detto indica che Mystic River esprime a pieno tutto il pessimismo dell’approccio intimista del Cinema di Eastwood.
Ancora una volta l’intenzione del regista è quella di reinterpretare l’aspetto esteriore e interiore del Cinema classico con un tono nichilista caratterizzato da una fotografia composta da chiaroscuri tendenti ai blu (simbolo per l’acqua, elemento principale del ‘Mystic River’ di Boston) e dal confronto con la preparazione psicologica alla morte e all’elaborazione del lutto.
Il regista mette in scena quindi un’opera tanto affascinante quanto disumana, forse perché è affasciante proprio a causa della sua disumanità.
Il merito è soprattutto della direzione di Eastwood, che riesce a risaltare tutta la disperazione di una delle più strazianti riflessioni etiche alla quale ci abbia mai sottoposto.
Le strepitose interpretazioni di Sean Penn e Tim Robbins sono giustamente valse loro un Oscar e un Golden Globe ciascuno.
Si tratta del primo film la cui colonna sonora è interamente curata da Clint Eastwood.
Nasco a Genova poco più di trent'anni fa, anche se chi mi conosce bene giura che siano molti di più. Sono visceralmente appassionato della settima arte in tutte le sue forme ed espressioni (perfino le peggiori), con una predilezione particolare per il genere Western. Dall'amore per il grande schermo è nato inoltre un forte interesse per le serie televisive coltivato con speciale attenzione. Sono pure un patito di politica, che cerco di capire anche attraverso il cinema. Attualmente in trasferta a Bruxelles.