Nuovo appuntamento con le classifiche assassine di CineFacts.it e questa volta prendiamo in esame i film degli anni '80.
Assassine perché, come ognuno può facilmente presumere, non è mai facile scegliere solamente 10 film per un decennio, e ogni volta in redazione si assiste a crisi di panico, tendenze suicide, casi di depressione e pianti isterici.
Giuro: la prossima volta potrei pubblicare qualche screenshot della nostra chat collettiva per dimostrarvelo.
Ma, come già accaduto per laclassifica del decennioappena trascorso, perquella degli anni 2000e perquella sugli anni '90questo tipo di contenuti aiuta noi a fare il punto su che tipo di Cinema ci ha entusiasmato negli anni e magari può aiutare voi a riscoprire titoli finiti nel dimenticatoio, o a parlare dei film che avete amato e che qui non vedete citati.
O che magari vedete nelle prime posizioni.
Le classifiche non nascono con un'intenzione superba o classista: sono un modo come un altro per parlare di Cinema e come tali andrebbero affrontate e discusse, senza stracciarsi le vesti per la mancanza di tale titolo o inorridire per la presenza di un altro titolo.
[Sembra ci sia un complotto involontario contro David Lynch: è il secondo decennio di fila che il primo degli esclusi dalla Top 8 è un suo film: in questo caso si tratta di Velluto Blu, del 1986, di cui qui potete trovare un po' di curiosità]
Parlare del Cinema degli anni '80, per chi scrive, non è affatto facile.
Il decennio che senza ombra di dubbio ha visto un abbassamento della qualità generale va inesorabilmente a scontrarsi con il cuore e l'affezione nei confronti dei primi film visti al cinema.
Inevitabile dunque che il mio giudizio e questo brevissimo excursus che vado a iniziare venga mediato da una forte soggettività, nonostante sia evidente che il cinema mainstream, soprattutto hollywoodiano, degli anni '80 sia stato l'inizio di quello che vediamo ancora oggi, ovvero prodotti di largo consumo per le masse, blockbuster e innumerevoli sequel di franchise, più o meno fortunati, più o meno apprezzabili.
Gli anni '80 nel cinema occidentale hanno visto il ritorno dei film guidati dalle grandi major: dopo la rivoluzione del decennio precedente a opera della New Hollywood, dove erano i registi/autori che comandavano la situazione e dettavano una linea sulla falsa riga a stelle e strisce di quella che fu in Francia la Nouvelle Vague, negli anni '80 i grandi studios sono tornati a fare la voce grossa.
È fondamentalmente la seconda Golden Age di Hollywood, la cui onda lunga è arrivata fino a noi e non è ancora terminata.
Film dai budget importanti, personaggi destinati a rimanere in due, tre, quattro, a volte anche dodici film.
Il botteghino di quel decennio vede ai primi posti i film della saga di Guerre Stellari, di Indiana Jones, di Ritorno al Futuro.
C'è anche spazio per l'inizio di una forte componente di computer grafica nel cinema - seminale in tal senso fu Tron, nel 1982 - e per il successo di un film tratto da un fumetto: il Batman di Tim Burton nel 1989.
Franchise miliardari, cinecomic, sequel, CGI: dove ho già sentito questo trend?
[Di poco fuori dalla classifica finale è arrivato Koyaanisqatsi, il film sperimentale di Godfrey Reggio che nel 1982 praticamente diede ai timelapse un significato cinematografico: qui un bell'articolo a firma Yorgos Papanicolaou]
Gli anni '80 hanno visto anche un aumento esponenziale della pelle nuda mostrata nei film, così come anche molta più enfasi nei confronti del genere di fantascienza, horror e d'azione, senza dimenticare l'esplosione delle commedie adolescenziali che da qui in poi non hanno più avuto un momento di pausa.
È l'epoca in cui nasce negli USA il rating PG-13: la MPAA, associazione statunitense che si occupa di assegnare le restrizioni d'età per la visione delle pellicole, nel 1984 si trovò costretta a inventare un nuovo rating che potesse stare a metà tra il PG - ovvero il Parental Guidance, che indica quei film dove è raccomandata la presenza di un genitore - e la famosa R - ovvero il Restricted, per quei film vietati ai minori di 17 anni se non accompagnati da un adulto.
I due "colpevoli" della nascita del PG-13 - che è in breve una R ma rivolta ai minori di 13 e non di 17 - furono Gremlins e Indiana Jones e il Tempio Maledetto: non abbastanza violenti ed espliciti per essere vietati ai minori di 17 non accompagnati, ma nemmeno così leggeri per consentirne la visione ai minori di 13 non accompagnati.
Il PG-13 è ancora oggi il rating più presente nei prodotti hollywooodiani, blockbuster della Marvel inclusi.
[Full Metal Jacket, 1987: anche Stanley Kubrick è rimasto fuori dalla Top 8 finale. Ma tranquilli: in classifica c'è l'altro suo film degli anni '80]
Quentin Tarantino ha una volta espresso l'opinione secondo cui gli anni '80 sono stati una delle peggiori epoche per i film americani.
Eppure il decennio ha visto l'esordio di autori importanti, provenienti da varie parti del mondo e con un tocco personale forte e riconoscibile.
Qualche nome?
James Cameron, Peter Jackson, Lars von Trier, Jim Jarmusch, Michael Mann, i fratelli Coen, Tim Burton, Léos Carax, Takeshi Kitano, Sam Raimi, Spike Lee...
E ancora: Giuseppe Tornatore, Massimo Troisi, Mira Nair, Jan Švankmajer, Wong Kar-wai, Luc Besson, Roberto Benigni, Kenneth Branagh, Michael Haneke, Steven Soderbergh, Richard Linklater, Gus Van Sant.
Fa impressione a leggerli tutti insieme, vero?
[Scendendo ancora con gli esclusi troviamo anche Scarface, di Brian De Palma, 1983: a questo punto vi starete chiedendo quali siano i magnifici 8, immagino]
Gli anni '80 sono stati indubbiamente il decennio che ha dato il via al cinema più smaccatamente commericale, ma evidentemente sono anche forieri di meraviglie che ci sono rimaste dentro.
Per chi è nato negli anni '70 hanno fortemente costruito una prima ed embrionale identità cinefila dalla quale risulta poi difficile staccarsi con oggettività.
In questa nostra classifica però non troverete molti film cult degli anni '80 - so che stavate pensando a Ritorno al Futuro,Ghostbusters o Non ci resta che piangere, dai - perché la redazione è formata da persone nate negli anni '70, negli anni '80 e anche negli anni '90.
E questi film in Top 8 sono il risultato di voti attentamente ponderati e sofferti, che spaziano oltre i confini degli Stati Uniti, anche se risulta evidente che i titoli entrati in classifica siano quasi tutti figli del decennio precedente (e lì sì che ci sarà da piangere davvero a escludere qualcuno).
Ci auguriamo che questa classifica possa essere fonte di consigli, e che lo possano essere anche tutte le classifiche personali che tra poco potrete leggere prima delle posizioni in classifica.
Ovviamente, aspettiamo i vostri commenti, opinioni e soprattutto... le vostre classifiche dei Migliori Film tra il 1980 e il 1989!
[Introduzione di Teo Youssoufian]
[Ritorno al Futuro, di Robert Zemeckis, 1985: tanti voti, con ben due primi posti. Il film resta nel cuore di tutti noi, ma non entra in Top 8]
Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.
Le regole imposte erano due:
- i film devono essere prodotti tra il 1980 e il 1989
- si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno
Ne è uscito un totale di 85 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori:
Francesco Amodeo
Full Metal Jacket (1987)
Blade Runner (1982)
Shining (1980)
Blow Out (1981)
L’ultimo imperatore (1987)
C’era una volta in America (1984)
Re per una notte (1982)
Crimini e Misfatti (1989)
Videodrome (1983)
Toro Scatenato (1980)
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Emanuele Antolini
C'era una volta in America (1984)
Toro Scatenato (1980)
Shining (1980)
Blade Runner (1982)
Scarface (1983)
Velluto Blu (1986)
Gli intoccabili (1987)
Fa' la cosa giusta (1989)
1997: Fuga da New York (1981)
Nuovo Cinema Paradiso (1988)
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Marco Batelli
Shining (1980)
C'era una volta in America (1984)
Hannah e le sue sorelle (1986)
Fitzcarraldo (1982)
Ricomincio da tre (1981)
Aliens (1986)
Possession (1981)
Nuovo Cinema Paradiso (1988)
Scarface (1983)
La mosca (1986)
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Simone Braca
Paris, Texas (1984)
La messa è finita (1985)
Crimini e Misfatti (1989)
C'era una volta in America (1984)
Bianca (1984)
Videodrome (1983)
Stardust Memories (1980)
Re per una notte (1982)
Velluto Blu (1986)
Fitzcarraldo (1982)
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Fabrizio Cassandro
Possession (1981)
Fanny e Alexander (1982)
Ran (1985)
Blade Runner (1982)
Shining (1980)
Videodrome (1983)
Velluto Blu (1986)
Brazil (1985)
Reinette e Mirabelle (1984)
Paris, Texas (1984)
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Simone Colistra
C'era una volta in America (1984)
Blade Runner (1982)
Velluto Blu (1986)
Brazil (1985)
Paris: Texas (1984)
Fanny e Alexander (1982)
Santa Sangre (1989)
Hannah e le sue sorelle (1986)
Fa' la cosa giusta (1989)
Laputa - Castello nel cielo (1986)
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Federica D'Amico
Ritorno al Futuro (1985)
L’impero colpisce ancora (1980)
Shining (1980)
Il tempo delle mele (1980)
Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)
Gremlins (1984)
Nightmare - Dal profondo della notte (1984)
E.T. - L’extraterrestre (1982)
Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)
Nuovo Cinema Paradiso (1988)
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Tommaso Drudi
Shining (1980)
Blade Runner (1982)
Full Metal Jacket (1987)
Toro scatenato (1980)
Il mio piede sinistro (1989)
The elephant man (1980)
Un lupo mannaro americano a Londra (1981)
Una tomba per le lucciole (1988)
Amadeus (1984)
I predatori dell'arca perduta (1981)
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Morena Falcone
C’era una Volta in America (1984)
Toro Scatenato (1980)
Shining (1980)
Blade Runner (1982)
Koyaanisqatsi (1982)
Amadeus (1984)
The Blues Brothers (1980)
Ritorno al Futuro (1985)
Nuovo Cinema Paradiso (1988)
Full Metal Jacket (1987)
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Fabrizio Fois
C'era una volta in America (1984)
Amadeus (1984)
Ran (1985)
Shining (1980)
La Cosa (1982)
...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà (1981)
Vestito per uccidere (1980)
La casa (1981)
Fa' la cosa giusta (1989)
The Blues Brothers (1980)
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Jacopo Gramegna
C'era una volta in America (1984)
Toro Scatenato (1980)
Shining (1980)
Scarface (1983)
Velluto Blu (1986)
Blade Runner (1982)
L'ultimo imperatore (1987)
Brazil (1985)
Videodrome (1983)
La Cosa (1982)
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Mattia Gritti
Shining (1980)
C'era una volta in America (1984)
Toro scatenato (1980)
Amadeus (1984)
Nuovo Cinema Paradiso (1988)
Full Metal Jacket (1987)
Blade Runner (1982)
L'ultimo imperatore (1987)
Scarface (1983)
Monty Python - Il senso della vita (1983)
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Lorenza Guerra
Videodrome (1983)
Ran (1985)
Fitzcarraldo (1982)
Brazil (1985)
Il cielo sopra Berlino (1987)
Blade Runner (1982)
Una tomba per le lucciole (1988)
L'impero colpisce ancora (1980)
Sul globo d'argento (1988)
Akira (1988)
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Lens Kuba
Amadeus (1984)
Koyaanisqatsi (1982)
Possession (1981)
Lo zoo di Venere (1985)
Akira (1988)
Va' e vedi (1985)
Blade Runner (1982)
Angst (1983)
L'uovo dell'angelo (1985)
Alice (1988)
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Adriano Meis
La Cosa (1982)
Shining (1980)
Blade Runner (1982)
Fitzcarraldo (1982)
Videodrome (1983)
Ran (1985)
Scarface (1983)
...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà (1981)
Il pranzo di Babette (1987)
Zelig (1983)
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Sebastiano Miotti
Shining (1980)
Fitzcarraldo (1982)
Va' e vedi (1985)
Blade Runner (1982)
Videodrome (1983)
Koyaanisqatsi (1982)
C'era una volta in America (1984)
Sacrificio (1986)
Prénom Carmen (1983)
Harry, ti presento Sally (1989)
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Natasha Nussenblatt
Shining (1980)
I Goonies (1985)
Ritorno al Futuro (1985)
Stand by me (1986)
Labyrinth (1986)
Velluto Blu (1986)
Beetlejuice ( 1988)
La Cosa (1982)
The Elephant Man (1980)
E.T. - L'extraterrestre (1982)
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Nadia Pannone
C'era una volta in America (1984)
Toro scatenato (1980)
Scarface (1983)
Velluto blu (1986)
Fuori orario (1985)
Hannah e le sue sorelle (1986)
Cruising (1980)
Amore tossico (1983)
Shining (1980)
La rosa purpurea del Cairo (1985)
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Yorgos Papanicolaou
Fitzcarraldo (1982)
Koyaanisqatsi (1982)
Amadeus (1984)
C’era una volta in America (1984)
Blade Runner (1982)
Full Metal Jacket (1987)
Fa’ la cosa giusta (1989)
Crimini e misfatti (1989)
Toro Scatenato (1980)
Ran (1985)
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Pierluca Parise
Fitzcarraldo (1982)
La signora della porta accanto (1981)
Gli amici di Georgia (1981)
Ran (1985)
L’ultima tentazione di Cristo (1988)
Un’altra donna (1988)
Vestito per uccidere (1980)
Blade Runner (1982)
Toro scatenato (1980)
Fanny e Alexander (1982)
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Daniele Sedda
Blade Runner (1982)
Akira (1988)
C'era una volta in America (1984)
Toro Scatenato (1980)
Aliens - Scontro Finale (1986)
Ran (1985)
Il ritorno dello Jedi (1983)
Shining (1980)
Ritorno al Futuro (1985)
Una tomba per le lucciole (1988)
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Angelo Tartarella
Ritorno al Futuro (1985)
Ritorno al Futuro - Parte II (1989)
Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)
Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)
Signori, il delitto è servito (1985)
Oliver & Company (1988)
La Sirenetta (1989)
La Cosa (1982)
Nightmare - Dal profondo della notte (1984)
Aliens - Scontro finale (1986)
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Jacopo Troise
C'era una volta in America (1984)
Toro Scatenato (1980)
Amadeus (1984)
Full Metal Jacket (1987)
Fitzcarraldo (1983)
Blade Runner (1982)
Scarface (1983)
Videodrome (1983)
Blow Out (1981)
Nuovo Cinema Paradiso (1987)
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Teo Youssoufian
C’era una volta in America (1984)
Blade Runner (1982)
Toro Scatenato (1980)
Koyaanisqatsi (1982)
L’impero colpisce ancora (1980)
Ran (1985)
Amadeus (1984)
Scarface (1983)
The Killer (1989)
The Blues Brothers (1980)
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1 di 8
Posizione 8
Videodrome
David Cronenberg, 1983
Quello marcato da Videodrome è un confine fatto di carne e frame che, se oltrepassato, cambia per sempre lo spettatore e il suo approccio al mezzo cinematografico.
Il Cinema stesso, dopo l'uscita in sala del film, continuò la sua corsa verso il futuro profondamente mutato, segnato definitivamente dai deliri secerniti dalla pellicola di David Cronenberg.
Il regista canadese, prima di raccontare le disavventure de "l'apostolo dei mass-media" Max Renn (James Woods), usciva da una lunga serie di rogne con censura, produttori e buona fetta della critica, che osteggiavano i suoi lavori precedenti bollandoli come "eccessivi".
Fattore che influenzò fortemente lo sviluppo e la nascita di Videodrome.
Nonostante il film del 1983 venga universalmente considerato il suo film "di lancio", vero e proprio manifesto del body horror, in realtà, il genio produttivo di Cronenberg aveva originato opere brillanti come Il demone sotto la pelle, Rabid, Brood e Scanners che già anticipavano le sue idee sugli orrori della carne.
Videodrome ne diventò però l'emblema, con uomini e donne attratti da sesso e violenza, abitanti di un mondo orrorifico dominato da strane ibridazioni di carne, tendini e metallo.
Un incubo ambiguo in cui le perverse onde televisive celebrate dalla Chiesa Catodica instillano tumori e allucinazioni nel cervello dello spettatore, soggiogandolo a volontà troppo grandi e potenti per essere combattute.
Videodrome, nelle sue ambientazioni e dinamiche profondamente disturbanti, denuncia una tendenza malsana dell'epoca: quella di un sistema produttivo votato alla "pulizia" estetica e contenutistica, dove ciò che non era "allineato" o comunque non derivativo dallo standard contemporaneo doveva essere rimosso o nascosto.
E lo fa attraverso una fotografia scura, sporca, popolata da disturbi e glitch televisivi, gemiti lascivi e schiocchi di frusta. Il disagio della carne in mutazione si manifesta soprattutto per mezzo degli effetti speciali e il trucco prostetico del sette volte Premio Oscar Rick Baker,che dispensò escrescenze metalliche, sigarette spente su carne viva e le ormai celeberrime VHS inserite ed estratte dal ventre di Max Renn.
Cronenberg, con questa pellicola apre ufficialmente la poetica della Nuova Carne, dove malattia, malessere psicologico e perversioni sessuali non sono qualcosa da nascondere ma bensì oggetti narrativi necessari, viscerali, da studiare e raccontare per esorcizzare la follia e l'orrore della nostra realtà extra-schermo.
Il cammino tematico del Body Horror apertosi con Videodrome proseguirà per quasi vent'anni, fino alla soglia del 2000, venendo declinato da Cronenberg in diverse forme e generi, esattamente come le mutazioni deliranti e dolorose da lui teorizzate.
[a cura di Adriano Meis]
Posizione 7
Ran
Akira Kurosawa, 1985
"In un mondo folle, solo i folli sono sani"
Akira Kurosawa nel 1985 ha 75 anni: la sua carriera è stata una continua montagna russa, un susseguirsi di successi clamorosi e terribili insuccessi, intervallati da un tentato suicidio.
Dipinge allora un affresco sulla vecchiaia, sulla follia, sul potere: sono quadri geometrici, simmetrici, dai colori sgargianti, anch'essi ricchi di simboli.
Dipinge è il verbo giusto; se c'è un film che davvero dimostra che il cinema è soprattutto immagine questo è sicuramente Ran.
Ran vuol dire Caos.
Un caos interiore ed esteriore che, seppur messo in scena con un ineccepibile rigore formale sulle dolcissime note di Toru Takemitsu, risulta potente e chiaro agli occhi dello spettatore.
Il regista di Tokyo manipola il Re Lear di Shakespeare, lo plasma secondo le istanze della letteratura giapponese, sul caustico e fatalista Ryunosuke Akutagawa in primis (già ispirazione per Rashomon).
Brevissimamente la trama: il monarca feudale Hidetora Ichimonji (Tatsuya Nakadai) decide di dividere il proprio regno tra i tre figli.
Ripudia il terzogenito Saburo (Daisuke Ryu) ma viene maltrattato e respinto dagli altri due (Akira Terao e Jinpachi Nezu), che vogliono acquisire il potere prima della sua dipartita.
Accompagniamo il monarca nella lenta discesa verso la follia, sballonzolato tra calma e caos, tra l'epica e la riflessione, in un continuo rimbalzo tra la vita personale dell'autore sul viale del tramonto e il patimento personale del protagonista.
Ran è la storia di battaglie in grande stile, ma anche del percorso di un uomo che guarda indietro, lì dove giacciono i ricordi e i sensi di colpa, e poi guarda avanti, lì dove sembra non ci sarà nient'altro che sangue e macerie.
L'uomo è accompagnato dal suo fedele giullare, figura grottesca, antitetica alla tragedia messa in scena, ma che ne risalta l'assurdità.
[a cura di Lorenza Guerra]
Posizione 6
Amadeus
Miloš Forman, 1984
Tratto dall'omonima opera teatrale del drammaturgo Peter Shaffer (qui anche sceneggiatore), e a sua volta ispirata al microdramma in versi Mozart e Salieri di Aleksandr Sergeevič Puškin, Amadeus è il ritratto cinematografico più conturbante del maggior genio musicale di tutti i tempi e del suo rapporto con il compositore veronese Antonio Salieri.
Come forse molti sapranno, la rivalità di Salieri nei confronti di Mozart rappresentata nel lungometraggio non è mai stata ufficialmente documentata, ma viene cosí magistralmente impersonata da F. Murray Abraham (premiato con l’Oscar al miglior attore protagonista) da sembrare realmente esistita.
Anche Tom Hulce non è da meno: la sua interpretazione di un Mozart infantile, sguaiato e ridanciano rasenta la perfezione e nel nostro immaginario sarà per sempre accostata alla figura del musicista salisburghese.
Al resto ci pensa la perfetta messinscena di Miloš Forman (Qualcuno voló sul nido del cuculo, Hair, Man on the Moon): un ritmo cinematografico molto marcato accompagnato da una costruzione eccellente dei personaggi e dell’atmosfera settecentesca dentro e fuori i salotti imperiali.
A sostegno, una meravigliosa scenografia (Patrizia Von Brandenstein e Karel Cerný), degli splendidi costumi (Theodore Pistek) e l’elegantissima fotografia di Miroslav Ondříček (Hair, Ragtime) impostata con luce naturale.
Ovviamente la colonna sonora è composta in prevalenza dai più famosi capolavori mozartiani, ma sono da annoverare anche le musiche dello stesso Antonio Salieri e quelle di Giovanbattista Pergolesi.
Il tutto ha portato a un’incetta di riconoscimenti: 8 Premi Oscar (film, regia, attore protagonista, sceneggiatura non originale, scenografia, costume, trucco e sonoro), 4 Golden Globe e 4 BAFTA, per citarne solo alcuni.
Amadeus, inoltre, rappresenta anche una profonda riflessione sull’invidia e sull’eterno contrasto tra i concetti di talento e mediocrità.
Il personaggio di Salieri, infatti, nel riconoscere l’immenso talento di Mozart ammette di conseguenza la propria mediocrità, combattendo con un sentimento che noi tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita.
La grandiosità del lavoro di Shaffer e di Forman sta anche in questo: farci in fondo empatizzare con chi nella pellicola dovrebbe essere l’antagonista, ma che agli occhi dello spettatore altri non è che un semplice essere umano alle prese con una sensazione di inadeguatezza di fronte a un talento maggiore del proprio.
La mediocrità quindi come consapevolezza dei propri limiti e non debolezza: il più grande insegnamento morale che il Salieri di Amadeus - autoproclamatosi “santo patrono dei mediocri” - ci potesse lasciare.
[a cura di Jacopo Troise]
Posizione 5
Fitzcarraldo
Werner Herzog, 1982
"Quando il Nordamerica era ancora sconosciuto, ci fu un trapper, un solitario francese, che partì da Montreal verso Ovest.
Fu il primo bianco che vide la maestosità delle cascate del Niagara.
Quando tornò, raccontò che le cascate erano così incredibilmente grandi che superavano ogni umana immaginazione. Ma nessuno gli credette, anzi lo presero per matto.
Volevano delle prove.
E lui rispondeva: 'La prova è nei miei occhi, nella mia memoria: la mia prova è la mia presenza'".
Brian Sweeney Fitzgerald (Klaus Kinski), chiamato Fitzcarraldo da una tribù di nativi locali del Sudamerica, ha il sogno di creare un teatro d'opera esotico affinché la musica di Enrico Caruso, Giacomo Puccini e Richard Wagner possa risuonare anche nel cuore dell'Amazzonia.
Per finanziare l'impresa, sua moglie Molly (Claudia Cardinale) lo convince a dedicarsi alla raccolta e al commercio del caucciù, la cui elevata concentrazione si trova però nei pressi del fiume Ucayali, difficile da raggiungere in nave.
Il film, oltre che per la sua bellezza, è rimasto celebre nella Storia del Cinema per la sua travagliata produzione, ed è forse la miglior testimonianza visiva dell'ambizione smisurata del regista tedesco Werner Herzog.
L'intera macrosequenza del trasporto della grande imbarcazione attraverso la montagna è tra i momenti più epici e allo stesso tempo più assurdi che si siano mai visti sul grande schermo.
Ed è ancora più incredibile, se si considera il labile confine tra realtà e finzione, tra la follia artistica del personaggio Fitz e quella dello stesso regista Herzog: la titanica realizzazione scenica dell'evento cardine, vale a dire lo spostamento della nave oltre il poggio che divide l'Ucayali e il Rio delle Amazzoni, coincide infatti con quella messa effettivamente in atto dallo stesso protagonista all'interno della storia, cosa che contribuisce al fascino dell'intera opera.
Non ci sono effetti speciali, non ci sono trucchi, non ci sono modellini: quello che vediamo sul grande schermo è quello che accadde effettivamente dietro le quinte, durante le riprese.
Come nel precedente Aguirre, furore di Dio, Herzog racconta ancora una volta il confine tra sogno e ossessione, tra equilibrio e follia, senza rinunciare a immagini di intenso lirismo, come quella di un vecchio fonografo che riproduce la musica del grande tenore Caruso nel silenzio della wilderness amazzonica.
Vincitore del premio per la migliore regia al Festival del Cinema di Cannes.
[a cura di Pierluca Parise]
Posizione 4
Toro Scatenato
Martin Scorsese, 1980
Film sul pugilato ne sono stati fatti tanti: si va da Lassù Qualcuno Mi Ama a Cinderella Man per la boxe maschile, da Million Dollar Baby a Butterfly per quella femminile.
Protagonista del film di Martin Scorsese è il pugile italo-americano Jake LaMotta, campione del mondo nei pesi medi, interpretato da un brillante Robert De Niro, la cui preparazione alla parte del Toro del Bronx (così veniva chiamato Jake LaMotta) ha contribuito ad alimentare gli aneddoti sugli attori che seguono il Metodo.
Jake è completamente fuori forma, ormai da tempo ha appeso i guantoni al chiodo, e si prepara ad entrare in scena per uno dei suoi spettacoli di cabaret.
Lo ascoltiamo ripetere le battute che parlano della sua passata carriera da pugile e proviamo un misto tra pena e tenerezza mentre, solo nel camerino, si motiva allo specchio:
“Sono il più forte, il più forte, il più forte, il più forte, il più forte…"
È con un lungo flashback che scopriamo il passato del Jake LaMotta pugile: la cosa potrebbe sembrare una scelta banale, vista e rivista, ma la grandezza di Scorsese è stata rinnovare completamente il pugilato nel Cinema.
Poche - ma indimenticabili - scene sul ring e la quasi totale assenza degli estenuanti allenamenti a cui un pugile professionista deve sottoporsi (la novità appare lampante se si pensa a Rocky e alle numerose scene che mostrano i suoi allenamenti): il più grande film sul pugilato che... mostra poco pugilato.
Toro Scatenato mostra sì gli incontri di un pugile contro il suo avversario ma, soprattutto, tramite lo sguardo alla vita privata di uomo brusco, geloso, che si scontra instancabilmente contro tutto e tutti, dal fratello alla moglie, fino a trovarsi solo, il film critica la società in cui quest'uomo agisce.
La società è complice dei comportamenti brutali di quell'uomo il quale, da essa, non riceve ammonizioni ma al massimo pacche sulla spalla e un invito a sopportare il peso della vita.
La fatica non viene mostrata tramite infinite serie di flessioni o con stremanti corse su scalinate ma ancora più stancanti risultano le liti famigliari: lo spettatore sente tutto il peso di quelle discussioni in cui Jake vuole avere sempre l’ultima parola, in cui la fiducia nell’altro non esiste e l’unica ragione che ammette è la sua.
Costantemente nervoso per le rigide diete a cui doveva sottoporsi, divorato dalla gelosia nei confronti della moglie e sospettoso di tutti, la vita di Jake è un combattimento in cui il suo peggior nemico è lui stesso.
Questo viene reso poeticamente in quelli che sono tra i più bei titoli di testa nella Storia del Cinema: l’intermezzo di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni ci dà una delicata spinta e ci invita a guardare il pugile Jake LaMotta tra le nove corde di un ring invaso da una onirica nebbiolina.
Saltella, Jake, una nota che si muove tra le righe di un pentagramma.
Danza con le sue scarpette e l’accappatoio, come fosse l’abito di una ballerina, fluttua seguendolo con leggero ritardo nei movimenti.
È solo, nessuno sfidante, una situazione che ricorrerà più in là nella sua vita.
Il bianco e nero lascia che lo spettatore si lasci trasportare ancora più facilmente negli anni ’40 riuscendo ad assistere a degli incontri di pugilato come mai erano stati proposti prima: la camera segue i pugili, i loro corpi e i loro colpi, stando sul ring come fosse un vero boxeur, non come uno spettatore sugli spalti.
È in questo modo che l’esperienza del ring diventa più viva e dinamica ed emoziona anche chi non è fan della noble-art.
Il montaggio di Thelma Schoonmaker coronò il tutto facendo anche vincere a Toro Scatenato l’Oscar per il Miglior Montaggio.
Toro Scatenato è il racconto amaro di uno tra i più grandi atleti che il pugilato abbia mai avuto.
È la storia di un uomo simbolo di una società maschilista, violenta, egoista il quale, messo di fronte a ciò che è stata la sua giovinezza, prova una certa nostalgia - non completamente celata ma neanche mai palesata - per i tempi d'oro passati, un senso di rimpianto per ciò a cui sarebbe potuto arrivare ma non è mai risucito a raggiungere.
Disillusione.
Otto le candidature ai premi Oscar del 1981 tra cui quelle per Miglior attore non protagonista a Joe Pesci, interprete di Joey LaMotta, fratello di Jake, e Miglior attrice non protagonista a Cathy Moriarty nei panni di Vickie LaMotta, la moglie del protagonista.
Con Toro Scatenato, Robert De Niro vinse il secondo Oscar della sua carriera, stavolta come Miglior Attore Protagonista.
Del resto fu il vero Jake LaMotta che, alla domanda su chi fosse secondo lui il più grande pugile mai esistito, rispose:
Per prima cosa, si può dire che abbia ricondotto ad un’unica sintesi visuale le connotazioni del noir anni ’40 e la singolarità immaginativa della fantascienza, unendo così l’investigazione torbida con la distopia futuristica, la pioggia battente con l’illuminazione al neon, l’impermeabile bagnato con le macchine volanti e le avveniristiche armi da fuoco.
Si può dire che abbia riempito lo spazio urbano, quello espressivo e bizzarro tipico dell’architettura ipertecnologica, ovvero della città caotica e dei grandi palazzi coi led pubblicitari, con un altro tipo di spazio, quello umano, abitato da esistenze alle prese con le contraddizioni del mondo e alla ricerca di un significato da attribuire alle cose.
Si può dire, perché no, che abbia assimilato e poi sistematizzato il genere (un po’ come hanno fatto Il Signore degli Anelli col fantasy e Rosemary’s Baby con l’horror), in modo tale da consegnare un carattere definitorio alla prassi testuale del racconto cinematografico sci-fi.
Soprattutto, ed è questa una delle chiavi di lettura più importanti, si può dire che Blade Runner abbia portato a livello di immaginario la necessità di mettere in questione le ingiustizie e le motivazioni stesse della creazione e con essa ogni possibile liminarità fra ciò che è umano e ciò che non lo è.
Perché anche un androide, progettato in laboratorio e commercializzato per servire l’uomo, può reclamare il desiderio di percepire la vita come un’esperienza e non solo come un surrogato.
Perché un androide può attraversare lo spazio, viaggiare su altri pianeti, innamorarsi e sentire dentro di sé l’urgenza di conoscere.
Un androide può vedere cose che noi umani non potremmo nemmeno immaginare.
Nel 2019 Los Angeles è una città che si muove e respira solo di notte; tra le sue strade e i suoi quartieri sovraffollati, il cacciatore di taglie Rick Deckard viene incaricato dalla polizia di trovare ed eliminare un gruppo di androidi serie Nexus 6.
I quattro, in fuga da una colonia extra-mondo e guidati da Roy Batty, sono sbarcati sulla Terra per mettersi in contatto con l’uomo che li ha progettati, Eldon Tyrell.
Siccome in fase di sviluppo i replicanti dell’ultimo modello avevano dimostrato la capacità di sviluppare autonomamente, e senza possibilità di controllo, emozioni e sentimenti propri, Tyrell aveva impostato una limitazione alla loro longevità corrispondente ai quattro anni di vita: Roy e gli altri ribelli vogliono arrivare al loro creatore per ottenere da lui un modo per estendere la propria durata di vita.
Si può dire tanto, appunto. In particolare di quel che riguarda la storia produttiva del film, così complessa e tormentata che sono quasi inspiegabili le ragioni della sua sconsiderata perfezione filmica.
All’uscita nelle sale l’accoglienza fu modesta anche dal punto di vista degli incassi, Ridley Scott non legò con Harrison Ford (il quale in fase promozionale rilasciò pochissime dichiarazioni in merito alla sua partecipazione) ed ebbe divergenze creative con la produzione, che nell’82 distribuì una versione dell’opera non totalmente approvata dal regista.
Erano stati imposti, infatti, un finale consolatorio, un ricorrente commento di Deckard in voice over e un pesante taglio alle scene più violente; tutte scelte poi riconsiderate dieci anni dopo, quando Warner mandò di nuovo in sala il film ripristinando le decisioni editoriali originarie di Scott.
Eppure, nonostante le sue vicissitudini produttive, Blade Runner è scosso da una forza misteriosa, vibra di un’energia inspiegabile, come se avesse in sé il principio di un senso cinematografico e la consapevolezza di una visione del mondo archetipica, sorgiva.
Non solo perché riesce a mettere un genere dentro l’altro senza lasciare traccia di mediazione, non solo perché dà un’iconografia forte all’ambiente e ai personaggi che lo abitano e nemmeno soltanto perché elabora in modo risolutivo il dibattito sul rapporto uomo/macchina.
Far emergere i grandi temi dell’umanità, come la morte, la disillusione, il tormento o la speranza, attraverso la posta in gioco cinematografica è la vera eredità di Blade Runner, un film che si confronta con la profondità e la complessità dei sentimenti umani tramite gli strumenti dell’audiovisivo: un racconto di finzione che parla di caccia ai replicanti, un inseguimento forsennato tra le strade di Los Angeles, un confronto davanti al pianoforte, un monologo indimenticabile sotto la pioggia.
In tutto questo cinema irripetibile, vedere un pezzo di sé.
Ed è forse l’unica cosa che, alla fine, si può davvero dire di Blade Runner.
[a cura di Tommaso Drudi]
Posizione 2
Shining
Stanley Kubrick, 1980
disponibile su Infinity
Shining, il film di Stanley Kubrick uscito nel 1980, è un adattamento del romanzo omonimo scritto qualche anno prima dal maestro del brivido Stephen King.
La pellicola racconta le vicende della famiglia Torrance, custode invernale del sinistro Hoverlook Hotel, situato in Colorado.
Le difficoltà d’adattamento condurranno ben presto il capofamiglia Jack (Jack Nicholson) alla pazzia, dalla quale dovranno difendersi la moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd), in possesso dello Shining, un potere che gli permette di assistere ad eventi del passato.
Se oggi Shining è considerato un cult del cinema, le ragioni sono molteplici: la presenza di Kubrick alla regia e di Jack Nicholson nel ruolo del protagonista è forse la principale.
Shining è un film che colpisce innanzitutto a livello visivo: la vicenda, già di per sé cupa, è resa ancor più tetra dalle fredde inquadrature prospettiche, che ben delineano i grandi spazi dell’Overlook Hotel (e la conseguente solitudine dei personaggi); quando la cinepresa è in movimento, nascono sequenze memorabili, come quella di Danny che gira per l’albergo sul triciclo o l’inseguimento finale nel labirinto di siepi esterno dell’albergo.
La messa in scena è merito di Kubrick, ma un ruolo non meno importante lo hanno avuto il direttore della fotografia John Alcott e l’operatore Garrett Brown, inventore della Steadicam (utilizzata con successo per la prima volta durante le riprese di Rocky).
Se dietro la macchina da presa c’è un maestro della regia, davanti c’è uno degli attori più talentuosi della storia del Cinema, un Jack Nicholson ispirato e a suo agio nei panni del folle capofamiglia Torrance.
Gli sguardi vuoti, i silenzi, l’esplosione della pazzia che culmina nella scena della porta sfondata a colpi di ascia: tutto concorre alla costruzione di una performance semplicemente memorabile.
Sui significati del film, si susseguono da anni le ipotesi più disparate: che sia un’allusione alla teoria dell’eterno ritorno di Friederich W. Nietzsche, un riferimento al genocidio degli Indiani d’America oppure il racconto del falso allunaggio, forse poco importa.
Alcune domande non hanno risposta, ma questa oscurità alimenta il fascino del film, che senza dubbio occupa una posizione privilegiata nella filmografia di Kubrick.
Per mera cronaca, il film non piacque a Stephen King, che non lesinò critiche a Kubrick; quest’ultimo non si scompose: in fondo il libro - a suo dire - non era tutto questo capolavoro!
Incredibilmente, il film ottenne due candidature (peggior regista e peggior attrice) alla prima edizione dei Razzie Awards.
[a cura di Marco Batelli]
Posizione 1
C'era una volta in America
Sergio Leone, 1984
L'utimo film realizzato da Sergio Leone è un affresco poetico e monumentale di un Paese che ha affascinato diverse generazioni di sognatori e di avventurieri, pronti a rinunciare a tutto pur di inseguire le chimere della richezza e del potere.
Anche ad un amore.
La storia di Noodles (Robert De Niro) è quella di uno dei tanti ragazzini dei quartieri popolari che scelgono il percorso della delinquenza, una strada difficile che si rivelerà composta sia da momenti esaltanti che da traumi dolorosi.
La storia è raccontata attraverso i suoi stessi ricordi, che attraversano tre fasi della sua vita.
Le immagini ci vengono mostrate senza ordine cronologico, in modo diretto e genuino, come se si trattasse di un anziano che narra gli aneddoti di una giovinezza perduta e rimpianta, mentre ci lascia sfogliare il suo album di fotografie ingiallite dal tempo.
Leone orchestra magnificamente un intreccio di sensazioni e ricordi che vengono associati in modo istintivo, seguendo la filosofia della Madeleine de Proust, non esitando a far convivere il sacro e il profano, a mettere insieme momenti di poesia altissima e scene che inorridiscono lo spettatore, ad accostare lo sfarzo e la miseria, il passato e il presente, il potere e l'impotenza.
Riuscendo a giocare con i tempi, accorciandoli in un istante o dilatandoli per minuti interi, e a portarci in tre diverse epoche per farci provare uno strano misto di ammirazione, disgusto e pietà per un uomo, le sue azioni e le sue emozioni.
Un film praticamente perfetto in ogni suo aspetto, con interpretazioni memorabili, una fotografia dai toni caldi e pittoreschi, la ricostruzione maniacale della Brooklyn del passato e delle sue strade brulicanti di vita e di memorie, fino alle musiche ammalianti di un Ennio Morricone che ci ha regalato una delle vette più alte della sua carriera.
Accolto con freddezza negli Stati Uniti per via di una versione mutilata e rimontata sciaguratamente seguendo l'ordine cronologico degli eventi, è disponibile oggi in una versione restaurata dalla Cineteca di Bologna con nuove scene inedite, per un totale di 285 minuti da godersi senza interruzioni.
C'era una volta in America è un'opera d'arte senza tempo, che ci lascia viaggiare tra i ricordi di Noodles, partendo da una fumeria d'oppio, dove il sogno è cominciato e terminato, e sembra chiedere a gran voce sempre nuove visioni, capaci di aggiungere ogni volta nuove sensazioni e nuove riflessioni.