In qualunque modo vogliate vederla, La Settima Arte è una costante nella vita di (quasi) ogni essere umano, al pari della musica. Rifletteteci. Quante persone avete avete incontrato nel percorso che vi hanno confessato: "non mi piacciono i film"?
Oppure "non mi piace la musica"?
[Stanley Kubrick e Richard Strauss: uno schiaffone di rara eleganza]
Personalmente, di questi tristi figure (perdonate l'aggettivo tranciante, ma una vita senza musica e senza Cinema proprio non la concepisco) ne ho incontrate pochissime in vita mia. Si potrebbero contare sulle dita di una mano. Credo - e spero - che voi possiate dire lo stesso.
Perché il Cinema - così come la musica - ha una varietà di effetti sulla psiche e sull'inconscio dell'essere umano che pochi altri medium possono vantare.
Il Cinema insegna, emoziona, intrattiene, fa viaggiare, educa.
E lo fa attraverso il meccanismo delle immagini in movimento, della musica in coordinato, della forma narrativa espressa tramite la scrittura, della recitazione, della scenografia o del colpo d'occhio costruito dal Direttore della Fotografia.
E poi c'è il lavoro di macchinisti, elettricisti, montatori, colorist, truccatori, costumisti... il Cinema è un'arte tanto complessa e articolata quanto semplice e immediata.
"Semplice" perché parla per mezzo di storie e concetti che - salvo rare eccezioni - sono accessibili per tutti. Dal ricco al povero, dal colto all'ignorante, dall'acuto al gaglioffo.
[Paprika - Sognando un sogno. Ouverture onirica e ispirazione per Christopher Nolan]
Il Cinema è l'evoluzione del racconto intorno al fuoco di un gruppo di Uomini di Neanderthal.
L'espansione tecnica dei saltimbanchi che popolavano i borghi medioevali.
E come si può rendere memorabile una bella storia se non con un incipit sfolgorante?
8 redattori con 8 sensibilità differenti.
8 ouverture cinematografiche potenti, diverse fra loro, ma egualmente impattanti: i nostri 8 "schiaffi" prima di questo "via", che altro non è che il titolo del film che sta per cominciare.
Abbiamo provato a differenziare il tipo di impatto attraverso la proposta degli otto redattori partecipanti: dallo shock visivo nudo e crudo al dramma che spacca il cuore, dall'adrenalina che ti invade il sistema simpatico alla depressione che non lascia via di scampo.
Va da sé che che la natura di questa Top 8 sia prepotentemente spoilerosa.
L'invito è quindi di scorrere le posizioni, leggere il titolo, guardare l'immagine e, eventualmente, skippare a quella successiva.
Poco meno di un minuto, per la precisione cinquanta secondi.
Questo il tempo per presentare Lord of War e una delle più riuscite interpretazioni del bistrattatissimo Nicolas Cage (sì: proprio lui).
Apre la pellicola, in circa venti secondi, un lento movimento di macchina, che parte ad altezza del terreno.
Ci viene mostrata, con grande calma, una fitta distesa di proiettili, sparpagliati al suolo.
Contemporaneamente, in sottofondo, si odono delle scariche di mitra, dalla provenienza non lontana.
La cinepresa poi si alza, rivelandoci uno scenario disastrato dalla guerra.
Su questo sfondo si staglia un uomo in completo scuro, di spalle, immobile, con la sua ventiquattrore.
La mise elegante stride palesemente col contesto, così come il nero della sua sagoma.
Stesso effetto sortisce l'insolita compostezza delle riprese, vista la circostanza.
D'un tratto l'uomo si volta, e l'inquadratura si stringe, mostrandone il viso, sornione.
È il buon Nicolas.
Le parole che proferisce sono emblematiche:
"Ci sono più di 550 milioni di armi da fuoco in circolazione nel mondo.
Significa che c'è un'arma da fuoco ogni dodici persone sul pianeta".
Un buon tiro di sigaretta confeziona poi l'ultima battuta:
"La domanda è... come armiamo le altre undici?".
Dopo un sorriso beffardo, quasi sprezzante, partono poi i particolarissimi titoli di testa, sulle note di "For What It's Worth" dei Buffalo Springfield, già sentita in Forrest Gump.
Poche frasi introducono dunque il protagonista del film, col suo lampante cinismo.
Si tratta di Yuri Orlov, trafficante d'armi ucraino, totalmente votato alla sua immorale causa.
Nella pellicola assisteremo alla sua triste parabola, con diversi eventi storici a passare sullo sfondo, dalla prima guerra del Libano alla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
L'ottimo incipit non si serve però di grandi effetti, non cerca di far saltare lo spettatore sulla sedia.
Preferisce, piuttosto, puntare su elementi esteticamente semplici e nette antitesi, incorniciando le poche parole pronunciate.
Sei minuti e ventisette secondi: questo il tempo che intercorre tra l'inizio del Film di Bergman e la scritta, su sfondo bianco con il font Florida, PERSONA.
Un tempo cinematograficamente infinito, ma la sua potenza è tale da meritare l'appellativo di schiaffo: o ancora meglio pugno, visto lo stile eisensteiniano con cui è costruita dall'autore di Uppsala.
"Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia."
La dottoressa in Persona
Il Cinema è un trucco: lo sono le immagini statiche che diventano movimento, le porzioni di realtà che la camera sceglie di immortalare, le finzioni che gli attori mettono in scena e le luci che mistificano il visibile.
Persona si apre squarciando questo velo di Maya: tutto, in questi affascinanti sei minuti e ventisette secondi, è fatto per smascherare ciò che si sta per vedere, l'autore che lo sta costruendo e infine lo spettatore che si sta lasciando analizzare.
Per rompere il giocattolo e mostrarci cosa c'è dentro, Bergman sceglie di riprendere la lezione delle avanguardie russe, in particolare il montaggio delle attrazioni di Sergej Ejzenstein, accosta immagini e concetti: il tutto, nonostante una forma così complessa e concettuale, risulta una delle sequenze più immersive e coinvolgenti della sua filmografia.
Un condensato di Bergman.
Luce, proiettore, pellicola, countdown: inizia il film.
Prima il Cinema nella sua forma più fisica, poi i simboli e i temi del discorso bergmaniano: dal ragno-Dio di Come in uno specchio , all'agnello cristiano, dall'animazione estemporanea di Un'estate d'amore , alle foreste innevate di Luci d'Inverno , dal pene-sessualità de Il rito , alla commedia dei gesti di A proposito di tutte queste... signore e ancora la vecchiaia de Il posto delle fragole , il martirio de Il settimo sigillo, il trittico violenza-orrore-erotismo de L'ora del lupo, il Diavolo ironico e ammiccante de L'occhio del diavolo e si potrebbe andare avanti ancora.
Così come vediamo eviscerato l'agnello, allo stesso modo Bergman decostruisce e mostra tutto ciò che lo rende autore.
Come un'aruspice mette tutte le interiora sul tavolo, ma lascia a noi il compito di interpretarle.
Da questa carrellata l'artista giunge al vero centro di Persona e della sua indagine: l'uomo, visto da vicino, spezzettato nei suoi aspetti più intimi e riportato alla sua ingenua purezza, come un bambino svestito in una sala completamente bianca.
Non è un caso che il libro in mano al giovane sia Un eroe dei nostri tempi di Michail Jur'evic Lermontov: russo come i principali riferimenti registici di questa sequenza, un'opera in cui passato e intima natura tendono a confondersi.
Un viaggio dall'esterno all'interno dell'uomo.
Ma l'uomo in scena non è l'unico soggetto di questa analisi: noi, gli spettatori, sfocati e dall'altra parte di uno schermo lo siamo altrettanto.
Siamo rappresentati da una madre sfocata, lontana e imperscrutabile: un'immagine irraggiungibile.
Come una madre genera la vita, creiamo l'opera tanto quanto Bergman: lui è padre, autore e Dio, assente come in tutta la sua filmografia, ma allo stesso tempo raccontato da simboli che acquistano significato, nonostante il suo silenzio.
Diventiamo così allo stesso tempo oggetto e soggetto, come il percorso di sovrapposizione e compenetrazione tra Alma ed Elisabeth al centro del film.
Un flusso di coscienza senza punteggiatura, senza ordine logico o temporale, ma che immerge completamente e porta all'interno di una seduta di analisi di quasi un'ora e mezza, in cui non possiamo opporci allo sguardo giovane e ieratico che ci sta scavando dentro.
Uno schiaffo tanto forte da lasciarci a pezzi su un tavolo operatorio bianco, aperti e pronti per essere analizzati.
“Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità.
Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.”
Così scriveva Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto del Futurismo, e probabilmente si sarebbe eccitato fisicamente guardando i primi sei minuti di Baby Driver, in cui il regista Edgar Wright gira un inseguimento adrenalinico a ritmo di musica.
Uno dei più belli dai tempi di The Driver di Walter Hill, a cui il regista si è ispirato.
Letteralmente la scena è stata scritta, ripresa e montata sulle note di Bellbottoms dei Jon Spencer Blues Explosion, utilizzando i mezzi più raffinati che il Cinema possiede per differenziarsi da tutti gli altri tipi di arte.
Il montaggio è sincopato, l'azione velocissima, ma lo spettatore non è mai disorientrato perché la macchina da presa è sempre al posto giusto al momento giusto.
Il pubblico viene catapultato violentemente nella storia che sarà raccontata di lì a breve tenendolo incollato allo schermo in preda agli spasmi dell'adrenalina.
Il risultato è una sequenza che si mette in tasca uno qualsiasi dei nove Fast & Furious prodotti da Hollywood.
E il motivo è che il regista ha un cervello, quindi delle idee con le quali riesce a trasformare la forma in sostanza, proprio come facevano i futuristi.
Sulle note del preludio di Tristano e Isotta di Richard Wagner la protagonista del film Justine (Kirsten Dunst) schiude gli occhi, a fatica.
Il suo volto è pallido, le occhiaie profonde.
Dietro di lei precipitano uccelli morti, uno dopo l'altro, inesorabilmente.
A una lenta ripresa sul lussuoso e simmetrico campo da golf segue Cacciatori nella neve (1565), quadro di Pieter Bruegel il Vechio, che tornerà anche nel corso nel film, manifestando la volontà di Von Trier di creare un cordone storico e cinematografico con Andrej Tarkovskij.
L'estetica del pittore fiammingo è stata infatti a sua volta ispirazione sia per il regista di Melancholia sia per il suo Maestro russo.
In Solaris (1972), un'altra opera in cui la fantascienza è pretesto per l'esistenzialismo, le memorie, le visioni, le persone e gli oggetti del passato assumono contorni reali. L'uomo, tra coscienza allucinata e lucida follia, materializza il mondo onirico.
In modo simile il prologo di Melancholia introduce questo concetto in modo sontuoso e altisonante: la depressione di Justine e i presagi della catastrofe imminente confluiscono l'uno nell'altra.
Justine presagisce la catastrofe perché assomiglia al dolore, alla melancolia - da mélan (nero) e chólos (bile), la bile nera a cui nell'antichità si associava una tristezza gravosa e immotivata- che porta nel cuore.
Il quadro si accartoccia su se stesso e vediamo, a ralenti, l'avvicinamento tra Melancholia e la Terra.
Vediamo Claire (Charlotte Gainsbourg), sorella di Justine, acchiappare suo figlio, nell'ultimo tentativo di salvarlo dallo schianto.
A questo quadretto familiare segue la caduta del Cavallo nero dell'Apocalisse, simbolo di carestia e morte e poi Justine che accoglie a braccia aperte i presagi della strage.
Ora che il prologo ci ha presentato i tre personaggi principali li vediamo nel campo da golf: sono tutti e tre vestiti a festa.
È la festa di Justine, il suo matrimonio.
A illuminarli ci sono quelle che sembrano due astri, la luna e il pianeta Melancholia.
Continuano a succedersi le scene dei due pianeti e le rappresentazioni dell'interiorità di Justine, prima compiaciuta dalla morte che la sta circondando, addirittura con apparenti poteri paranormali, poi mentre è in fuga dal suo matrimonio, trattenuta dalle radici della terra, le convenzioni e il conformismo che le impediscono la corsa verso una dimensione che non sembra aver luogo da nessuna parte.
Sicuramente la scena più famosa del prologo è quella in cui Justine è rappresentata come Ophelia (1851-1852) di John Everett Millais.
È una scena tratta dall'Amleto di Shakespeare: Ofelia sta annegando in un fiume con uno sguardo indifferente e rilassato. La palude la sta inghiottendo, la flora fittissima pare accoglierla. Come Justine a Ofelia non importa più della vita e della morte.
È, ancora una volta, l'apatia della depressione, il compiacimento nel divenire tutt'uno della natura, caotica e noncurante.
Lars von Trier, come sempre fregandosene di qualsiasi regola di marketing, non ha paura di spiattellare il finale fin dall'inizio.
Nella stanza 36 di un oscuro hotel il pittore Zweick è intento a dipingere.
Un gruppo di uomini minacciosi rema lungo il fiume. Una donna inizia a leggere un misterioso e antico tomo, con parole profetiche e inquietanti.
Raggiunto l’albergo, la gente del posto scende dalle proprie imbarcazioni. Tutti insieme si recano nella stanza numero 36.
Sospettano il pittore di stregoneria, e lo massacrano brutalmente a colpi di catene.
Poi lo iniziano a crocifiggere, piantandogli ferocemente i chiodi nelle vene.
Tutto è mostrato, in un tripudio di orrore e splatter.
Infine lo ricoprono di calce viva, lasciandolo lì, spappolato e fumante, in fetida dissoluzione, inchiodato al muro.
Nel frattempo, proseguendo la lettura, la donna scopre così che l’hotel è costruito sopra una delle sette porte dell’Inferno. Il libro va letteralmente a fuoco.
Titoli di testa.
Vero e proprio classico dello splatter e del cinema di genere italiano, questo film di Lucio Fulci è un cult intramontabile, con una sequenza iniziale che introduce subito al mood dell’opera e che non si dimentica facilmente.
Due ragazze eleganti aprono l’uscio ed escono. Un felice quadretto di famiglia per festeggiare l’undicesimo compleanno della giovane Angeliki.
Due piccoli invisibili argani sollevano impercettibilmente le mie commessure labiali.
Inizia così Miss Violence, film realizzato dalla mano dell’ellenico Alexandros Avranas, Leone d’Argento per la regia alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2013.
Torniamo alla scena.
Tutto è come deve essere: la piccola Alkmini accende lo stereo mentre il fratellino Philippos si appresta a scattare una Polaroid al padre e alla sorella.
La foto… Il sorrisone del papà si contrappone allo sguardo apatico di Angeliki e subito dopo, quando l’uomo chiama la figlia maggiore Myrto, le due si scambiano un’occhiata tristemente complice.
Rimango interdetto.
Quello che sembrava un idilliaco momento di festa inizia ad assumere dei toni profondamente discordanti.
Il volto di Angeliki è scolpito nel granito ma io rimango interdetto dallo sguardo rassegnato di Myrto.
Qualcosa non va.
E che qualcosa non va me lo dimostra la nonna impietrita dalla notizia di una nuova gravidanza di sua figlia.
“È anche vero che la famiglia è già abbastanza grande e magari un altro figlio può essere un problema.
D’altronde ci troviamo nella Grecia della crisi economica”, penso.
Nel frattempo in salotto continuano i balli sulle note di un valzer dolceamaro.
Angeliki fa una piroetta e si becca un bacione e gli auguri dal padre che poi va in cucina a chiamare le altre donne di casa per scattare una foto tutti insieme.
A questo punto mi rilasso un attimo.
“In fondo cosa vuoi che possa succedere?
Certo, non danno l’idea di essere la famiglia del Mulino Bianco, però alla fine il padre mi sembra un uomo premuroso”, mi dico.
L’inquadratura fissa dal balcone ci mostra Angeliki uscire per osservare il mondo sottostante. Un’occhiata a destra, una a sinistra.
Poi scavalca il parapetto e buca la quarta parete fissandomi negli occhi.
Un sorriso amaro prima di saltare.
Il padre chiede “Angeliki dov’è?”.
Angeliki non c’è più.
Dopo questo schiaffo a me restano lo shock e altri novanta minuti di film da affrontare senza armatura, col coltello tra i denti e mezzo stordito.
Il video amatoriale del matrimonio di Katja (Diane Krueger), tedesca, e Nuri (Numan Acar), turco, apre Aus dem nichts, penultimo lungometraggio del regista Fatih Akin.
Nuri, raggiante e vestito di bianco, si muove fra le mura della prigione dove è recluso per spaccio di sostanze stupefacenti. Nel suo cammino verso il parlatorio dove lo aspetta la sua bellisima sposa, i detenuti lo abbracciano, lo coprono di pacche sulle spalle e di auguri.
Poi... raggiunge Katja. Gli sguardi dei due si incontrano, complici e visibilmente emozionati. Si scambiano le promesse.
Ora sono marito e moglie.
Minuto 03:12 La famiglia
Rocco. Gli occhi di Rocco, mano nella mano con mamma Katja.
Nuri è finalmente fuori dal carcere e ha aperto un modesto ufficetto nel quartire turco di Amburgo. La macchina da presa ci guida nella quotidianità della famiglia: Katja accompagna Rocco in ufficio da papà e lì lo lascia per incontrarsi con la sorella in vista di un pomeriggio di relax al bagno turco.
Prima di congedarsi, marito e moglie scherzano, si prendono in giro. Katja bacia figlio e marito e poi guadagna l'uscita.
Dopo qualche ora, la giovane donna torna verso il posto di lavoro del marito.
È sera, la strada è bloccata dalle auto della polizia, la gente si accalca per vedere.
C'è stata un'esplosione.
Katja realizza velocemente e si mette a correre verso il luogo dove ha lasciato i suoi cari. Le forze dell'ordine la placcano.
Una palestra organizzata come punto di soccorso: feriti, paramedici, uomini e donne sotto schock con la testa fra le mani. Katja avanza, sconvolta, ma determinata: mentre gli infermieri tentano di calmarla, lei cerca con lo sguardo Rocco e Nuri. Li chiama forte, con un'angoscia che pare divorarla viva.
Un uomo con un giubbetto con su scritto "polizei" richiama la sua attenzione:
- Signora Sekerci?
"Si."
- Sono Fischer, del dipartimento persone scomparse.
"Dov'è la mia famiglia?"
- I suoi parenti non sono qui.
"Dove sono?"
- Non lo sappiamo. Ci sono delle vittime... un uomo e un bambino.
Katja si accascia, sorretta da due paramedici.
- Signora Sekerci... I corpi non sono identificabili. Abbiamo bisogno del test del DNA.
Urla, occhi senza pace, lacrime.
Mani che si allungano verso Katja per cercare il contatto, per darle coraggio, trasmettere forza.
Siamo nel baratro.
La sberla è violenta e, come suggerisce il titolo originale arriva dal nulla, ci colpisce duro, lasciandoci lì, spaesati e tramortiti, senza che film ci abbia nemmeno svelato il suo titolo.
Quaranta secondi di nero assoluto accompagnati dallo Stabat Materdi Franz Schubert, poi un'inquadratura in plongée, strettissima, su un cuore che batte.
Man mano che scorrono i secondi ecco una zoomata lentissima, che ci mostra sempre di più: le mani guantate dei chirurghi che si muovono con cura, i ferri dell'operazione, lo spago con cui il tutto sta per essere richiuso.
Poi il ritorno dell'oscurità. Ecco, finalmente, il titolo dell'opera: Il sacrificio del cervo sacro.
Di fatto, grazie alla potenza dei primi due minuti della sua pellicola, Yorgos Lanthimos riesce a catapultarci in quello stato di inquietudine, tensione e impotenza che ci accompagneranno per l'intera visione del film.
Il nero ci avvolge e disorienta per la prima volta, la carne nuda ci squassa dentro e le note di Schubert infondono perfettamente il senso di ineluttabilità che Lanthimos vuole fortemente trasmetterci sin dal primo istante.
Il primo movimento di macchina ci mostra il segno dell'operato umano, ma anche questa visione non ci tranquillizza, non ci appaga.
Per l'incipit della sua opera, l'autore greco sceglie la via di uno shock immediato che sgorga vivo nello spettatore non appena il nero lascia il posto alla carne umana, messa a nudo nel suo punto più fragile.
Si tratta di una reazione incondizionata e incontrollabile, che affligge ogni essere umano nel momento stesso in cui riscopre la sua mortalità.
Una condizione di perenne stupore sconvolto al quale l'uomo è soggetto dinanzi alla propria natura imperfetta, alla fallibilità delle proprie azioni e all'inesorabilità del proprio destino.
Gli stessi elementi che sono tema portante di numerose opere tragiche greche, il più alto riferimento a cui Lanthimos ha attinto per la scrittura e la messa in scena del suo film.
L'incipit de Il sacrificio del cervo sacro rispecchia a pieno e con efficacia l'intera potenza del film, riuscendo immediatamente a mettere lo spettatore di fronte alla natura viscerale di un'opera che, com'è chiaro sin da subito, scaverà fino a mettere a nudo le pulsioni nascoste e le dinamiche più oscure di un'umanità che, malgrado il progresso, resterà per sempre incapace di accettare la propria natura fallibile e mortale.
Uno shock dal quale nessun essere umano riuscirà mai a riprendersi.