Sono passati più di cento anni, ma trasporre sul grande schermo le vicende legate al più grande conflitto armato mai combattuto è ancora molto attuale e per certi versi necessario.
Ce lo dimostra Sam Mendes che, con il suo 1917, ha riportato gli spettatori tra le atrocità e sofferenze dei soldati nelle trincee.
Sulla scia del successo che ha riscosso questo film (3 Oscar, 7 BAFTA e 2 Golden Globe) vogliamo riproporre altre 8 pellicole che hanno fatto la Storia del Cinema descrivendo al meglio le ambientazioni della Prima Guerra Mondiale, dalle quali Sam Mendes ha sicuramente preso ispirazione.
Fin dagli ultimi anni del conflitto, il Cinema (ovviamente quello statunitense, perché il vecchio continente doveva ancora rialzarsi dalle macerie) si è dedicato molto attentamente a questo tema, soprattutto nel descrivere in maniera più dettagliata possibile la vita alienante nelle trincee.
Questa classifica ripercorre i migliori film che sono riusciti in questo intento, con una sola eccezione di ambientazione, giusto per ricordare che la Prima Guerra Mondiale non si svolse solo in grandi fossi, tunnel e filo spinato.
Partiamo subito con l’eccezione di cui si parlava nella presentazione della classifica: questo perché la Prima Guerra Mondiale non si svolse solamente nelle trincee del vecchio continente!
Infatti, la trama narra le gesta realmente accadute del tenente dell’esercito britannico Thomas Edmund Lawrence (Peter O’Toole) per organizzare la rivolta araba contro l’invasione turca: gli Alleati avevano promesso agli arabi di aiutarli a raggiungere l’indipendenza dall’impero Ottomano in cambio di un’alleanza nelle file del conflitto mondiale.
In questo caso i protagonisti assoluti sono i paesaggi desertici, immortalati dalla fotografia di Freddie Young premiata con l’Oscar nel 1963.
A contorno, il resto: una sceneggiatura incisiva (Robert Bolt), un montaggio innovativo (Anne V. Coates), interpretazioni coinvolgenti (Peter O’Toole, Omar Sharif, Alec Guinnes, Anthony Quinn) e colonna sonora sublime (Maurice Jarre).
La combinazione di tutte queste caratteristiche è valsa 7 Academy Award: film, regia, fotografia, scenografia, montaggio, sonoro e colonna sonora.
Lawrence d’Arabia sicuramente non si contraddistingue per l’indole antimilitarista delle altre pellicole che verranno menzionate in questa classifica: David Lean, infatti, punta maggiormente sull’epicità della figura militare realmente esistita e sulla spettacolarità del contesto in cui si svolge la pellicola.
Tuttavia, un minimo di critica alla guerra la si può notare proprio nella descrizione del protagonista, ossia un archeologo amante della cultura araba costretto a liberare i popoli che ama solo attraverso la violenza delle battaglie armate.
Posizione 7
Uomini contro
Francesco Rosi, 1970
Tratto dal famoso romanzo di Emilio Lussu Un anno sull’altipiano, Uomini contro racconta le vicende legate alla conquista del Monte Fior da parte di una divisione dell’esercito italiano ai danni di quello austriaco.
Il regista dirige forse il film italiano più "autentico" sul primo conflitto mondiale, quello che accusa in maniera più decisa e diretta la follia della guerra in generale.
Si tratta di una pellicola contro il fanatismo militarista e nazionalista reo di non portare il minimo rispetto verso le vite umane.
L’opera di Rosi punta a fare acquisire coscienza allo spettatore attraverso una prospettiva di classe: gli uomini che si trovano costretti a essere "contro" sono, da una parte, soldati provenienti dalle famiglie più povere di tutto il territorio italiano (e austriaco) e, dall’altra, militari di comandi superiori accecati da un insensato patriottismo senza eguali.
L’atipica struttura "incompleta" del titolo indica la crudeltà della mentalità bellica: i protagonisti in questione non sono contrapposti solo gli uni agli altri, ma anche a loro stessi.
L’incarnazione di questo spirito è rappresentata dal personaggio del tenete Ottolenghi (un sempre superbo Gian Maria Volonté) che spinge i soldati verso la strada della ribellione, spronandoli a sparare sul generale Leone, considerato "il vero nemico".
Uomini contro è un film che, fino alla fine, dimostra il labile confine tra disumanità e pazzia condiviso sia da chi la guerra la combatte in prima linea sia da chi ordina di combatterla.
Anche per questo motivo il film subì forti resistenze sia durante la produzione, che fu costretta a spostarsi in Jugoslavia, sia durante la distribuzione, con il boicottaggio da parte di ambienti di destra, militari e addirittura la denuncia per vilipendio da parte dell’esercito italiano ai danni del regista.
Dalton Trumbo è stato uno tra i più talentuosi sceneggiatori americani del dopoguerra.
Tuttavia, nel 1947 a causa del Maccartismo venne convocato a testimoniare davanti alla Commissione delle attività antiamericane che investigava su possibili infiltrazioni sovietiche nella società e, insieme ad altri 9 artisti (il gruppo denominato Hollywood Ten), si rifiutò di farlo.
Dopo di allora, poté lavorare solo sotto pseudonimo, cosa che lo costrinse a non poter rivendicare le vittorie di due Academy Awards per il miglior soggetto per Vacanze Romane nel 1954 e La più grande corrida nel 1957.
Oltre che comunista, Trumbo fu anche un fervente antimilitarista: la prova è proprio il suo romanzo E Johnny prese il fucile, dal quale decise di trarre un film per dirigerlo personalmente.
Questa sarà la sua prima e unica esperienza come regista, che gli varrà il premio speciale della giuria al Festival del Cinema di Cannes.
La pellicola mostra nel modo più ruvido possibile le atroci conseguenze della guerra: Joe Bonham (Timothy Bottoms) è un giovane americano che, a causa dell’esplosione di una bomba, rimane cieco, sordo, muto e mutilato dei quattro arti.
Il soldato, ancora vivo e cosciente, viene attaccato a un respiratore in un ospedale, ma è ovviamente incapace di comunicare con il mondo esterno e di farsi comprendere.
La trama quindi diventa tutto un viaggio tra il duro presente dell’ospedale, ritratto in bianco e nero, e un’introspezione dei ricordi del passato e dei sogni, prontamente riprodotti a colori.
Tra questi, da annoverare quelli in cui il protagonista conversa con Gesù Cristo (Donald Sutherland).
La critica non è rivolta solo al senso del conflitto in sé, ma anche alla società americana, colpevole di permettere l’accanimento terapeutico sul paziente per scopi medici e di non concedergli l’eutanasia.
Da qui anche l’analisi della questione religiosa in rapporto con il dolore e la morte.
La voce narrante che riprende il punto di vista del protagonista è forse l’emblema più straziante del film.
Posizione 5
La Grande Guerra
Mario Monicelli, 1959
Anche l’Italia ha contribuito ad arricchire il filone cinematografico antimilitarista sulla Prima Guerra Mondiale: nel 1959 Mario Monicelli dirige La Grande Guerra, che viene considerato uno dei più importanti film sul tema.
Il successo della pellicola è dovuto anche alla rivoluzione dell’approccio alle tematiche belliche voluta dal regista e dagli sceneggiatori Age & Scarpelli e Luciano Vincenzoni.
Infatti, questi ultimi decidono di applicare lo stile della commedia all’italiana di cui Monicelli era maestro ai toni drammatici della guerra.
Il risultato è la fusione di due generi opposti che, proprio attraverso la loro contrapposizione, riescono a rendere la pellicola ancora più convincente e significativa.
Nonostante i protagonisti principali siano due (Alberto Sordi e Vittorio Gassmann), è l’esercito che occupa il centro della scena, consegnando al film un profilo quasi corale. Inoltre, Monicelli riesce a fotografare perfettamente le pessime condizioni di quotidianità delle trincee: soldati costretti a sopportare l’indicibile cercando di non farsi ammazzare. Ognuno di loro parla un dialetto diverso, ma tutti sono accomunati dalla stessa classe sociale e dalla leva obbligatoria.
La Grande Guerra è una descrizione impietosa degli effetti del confitto su chi lo combatte in prima linea perché per la prima volta non raffigura i commilitoni solo come personaggi spaventati, malnutriti e malarmati, ma anche come maliziosamente scaltri, egoisti e codardi. Insomma, una rappresentazione a tutto tondo particolarmente sincera e realista dell’umanità dei soldati.
Ciononostante, l’opera di Monicelli dimostra la propria grandezza nel consegnare ai profili dei due protagonisti anche una minima possibilità di riscatto, una parvenza di onore: tuttavia, questa scelta indica allo stesso tempo quanto ciò sia inutile e insensato se imposto dalle folli e stupide logiche della guerra.
Grazie alla commistione di generi, La Grande Guerra riesce nel doppio intento di fare commuovere e divertire, dissacrando la drammaticità dell’evento più disastroso del secolo ma allo stesso tempo rispettando appieno la memoria di tutte quelle persone obbligate a soffrire o consegnare la vita per una causa che nemmeno condividevano.
Per tutti questi motivi, il film fu un successo di pubblico e di critica, vincendo il Leone d’Oro alla 20ª edizione della Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia (ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini) e una candidatura all’Oscar come miglior pellicola in lingua straniera.
Posizione 4
Per il re e per la patria
Joseph Losey, 1964
1917, fronte occidentale.
Il soldato semplice Arthur James Hamp (Tom Courtenay) è l’unico sopravvissuto a un’esplosione che ha eliminato tutta la sua compagnia.
Ancora sotto shock e completamente spaesato, decide di tornare a casa a piedi, ma dopo ventiquattr’ore viene ritrovato dalla polizia militare e riportato al fronte.
Qui, le alte cariche militari hanno già deciso di fucilarlo come esempio, ma solo dopo un processo.
La difesa viene affidata al capitano Hargreaves (Dirk Bogarde), che prima lo considera un vigliacco e poi inizia a provare pietà per lui: da qui il suo impregno a scagionarlo.
Il soggetto è tratto dalla pièce teatrale Hamp di John Wilson e, infatti, il regista Joseph Losey mantiene delle caratteristiche del genere teatrale per raffigurare in maniera più incisiva la vicenda.
L’utilizzo della luce (coadiuvato dal bianco e nero) serve, proprio come a teatro, a dare un senso di profondità o ristrettezza agli ambienti in cui si svolge la scena e, in questo caso specifico, a intensificare gli stati mentali dei personaggi che ci si muovono dentro.
Il cambiamento di opinione di Hargreaves nei confronti di Hamp è il simbolo che la mentalità delle gerarchie militari non deve essere necessariamente vincolata ai valori bellici, ma può anche includere lo spazio per la comprensione delle reazioni dell’essere umano a circostanze estremamente rigide e difficili come quelle che si verificano in guerra.
La dimostrazione alla quale si vuole arrivare è che si possono e si devono legittimare sentimenti come la paura per la mancanza di coraggio.
Nonostante il poco dinamismo della messinscena per ovvi motivi, Losey realizza un’opera coinvolgente e appassionante, anche grazie alle straordinarie interpretazioni di Dirk Bogarde e di Tom Courtenay, il quale si aggiudicherà la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia nel 1964.
Per il re e per la patria è considerato, a ragione, una delle migliori pellicole antimilitariste della Storia del Cinema perché si presenta come un’implorazione non solo contro la guerra, ma anche contro tutte le degenerazioni che essa crea, soprattutto a livello mentale.
Il tragico finale in cui viene compiuto un gesto tanto drastico quanto liberatorio ne è la prova lampante.
Posizione 3
All’ovest niente di nuovo
Lewis Milestone, 1930
Tratto dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, si tratta di uno dei film simbolo sulla Prima Guerra Mondiale e tra i più proiettati nelle scuole durante le lezioni di storia.
Il regista Lewis Milestone, al secolo Lev Milstein, all’inizio del secolo emigra dalla Russia agli Stati Uniti e viene inviato al fronte, dove effettua delle riprese per l’esercito americano.
Da questi ricordi riesce a ricostruire le atrocità della vita nelle trincee e le reazioni alla guerra dei giovanissimi soldati.
La pellicola infatti vede protagonisti un gruppo di studenti tedeschi che, fomentati con idee patriottiche dal proprio insegnante, si arruolano nell’esercito.
Inutile dire che ciò che troveranno non è quello che si immaginavano.
In un periodo storico molto delicato in cui molti (non tutti, per fortuna) cineasti producevano lavori a fini propagandistici, Milestone realizza un’opera controcorrente e all’avanguardia.
Controcorrente perché, per via dell’adattamento del romanzo, per la prima volta dopo L’ultima gioia di John Ford del 1928 i protagonisti sono soldati tedeschi.
All’avanguardia perché Milestone adotta un nuovo linguaggio cinematografico conosciuto solo a pochi colleghi dell’epoca: l’uso della macchina da presa è molto dinamico, e quando è statico punta alla profondità massima di campo; gli stacchi di montaggio creano ellissi; il sonoro include tutte le riproduzioni di suoni più atroci della guerra.
Qualcosa quasi mai visto e sentito prima.
Con tutti questi metodi stilistici il regista ha creato un’analisi introspettiva che provoca il sentimento di angoscia più forte che lo spettatore possa provare.
Un effetto che non smette di essere sortito anche 90 anni dopo.
La potenza visiva e il lirismo disilluso (la sequenza finale ormai è epica per quanto sia metaforica) di All’ovest niente di nuovo sono una delle migliori dimostrazioni cinematografiche di antibellicismo mai prodotte, ed è sicuramente stato un punto di riferimento sul tema per i registi successivi.
Il film, censurato in molti paesi tra cui l’Italia fino al 1956 (!), riscosse grande successo di pubblico e di critica, riuscendo a vincere due Oscar come Miglior Film e Miglior Regia nel 1930.
Tratto dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, Orizzonti di Gloria è ispirato a vicende realmente accadute all’interno dell’esercito francese.
La trama si svolge sul fronte occidentale francese: il generale Mireau (George Mcready), spinto da un ordine superiore in cui intravede una promozione, affida al colonnello Dax (Kirk Douglas) i comandi per preparare un attacco a una postazione tedesca praticamente inconquistabile.
La carica si trasforma in un massacro e il generale decide di punire il comportamento delle truppe chiedendo la fucilazione di dieci soldati.
Gliene saranno concessi solo tre, scelti in parte a caso e sottoposti ad un processo davanti a una corte marziale.
A difenderli il colonnello Dax, l’unico a comprendere il punto di vista dei commilitoni.
Il finale è ovviamente tragico e riassume perfettamente il carattere antimilitarista della pellicola: i gradi alti dell’esercito appartengono ad un mondo privo di qualsivoglia umanità e sono pronti a sacrificare senza la minima remora le vite dei soldati sia sul campo di battaglia, sia fuori.
Al suo quarto film, Stanley Kubrick dimostra già il suo estro nella rappresentazione scenica del soggetto. Il bianco e nero è scelto di proposito per contrapporre le differenze tra le vittime e i carnefici.
Che entrambi facciano parte della stessa fazione è ancora più desolante.
Il gioco dei contrasti usato dal regista va logicamente di pari passo con gli spazi: i generali vengono raffigurati in luoghi spaziosi, luminosi e molto spesso sfarzosi; tutti gli altri in luoghi stretti, semibui e sporchi.
Solo il bianco e nero e un uso mirato delle luci riescono a evidenziare a pieno queste contrapposizioni.
La profonda diversità tra le parti in questione viene risaltata anche tramite un movimento di camera molto caro al regista, la carrellata, in due sequenze che si svolgono nello stesso luogo e seguono lo stesso percorso, ma che hanno due valenze completamente opposte.
Nella prima, il generale Mireau passa in rassegna le truppe: il punto di vista è oggettivo e distaccato, mostrando tutta la freddezza dei gradi alti al comando e la loro concezione patriottica del conflitto; la seconda è un’alternanza tra punto di vista soggettivo del colonnello Dax che riprende i volti terrorizzati dei soldati prima dell’attacco e un’oggettiva sullo sguardo paralizzato del colonnello, come a indicare la vera realtà della guerra da parte di chi è stato costretto a combatterla.
L’anima antibellica della pellicola è rappresentata da due scene in particolare: la disperazione e la sofferenza dei dialoghi tra i tre condannati a morte in attesa della fucilazione e la sequenza finale, che riesce nell’impossibile impresa di donare un po’ di tenerezza a una delle situazioni più violente e crudeli che l’uomo abbia mai vissuto.
Posizione 1
La grande illusione
Jean Renoir, 1937
"Il film è costruito sull'idea che il mondo si divida orizzontalmente per affinità, e non verticalmente per barriere. […]
La grande illusione consiste quindi nel chiedere che questa guerra sia l'ultima."
François Truffaut
La grande illusione di Jean Renoir rimane tutt’oggi non solo un capolavoro, ma anche il manifesto cinematografico pacifista per eccellenza.
Manifesto che Renoir riesce perfettamente a stilare senza raffigurare violenza e distruzione come contrapposizione alla pace: nella pellicola non c’è alcuna traccia di battaglie, atrocità e sangue.
Non ce n’è bisogno. Il contesto è così tragico da parlare sufficientemente per sé.
La trama vede un gruppo di militari francesi, in particolare il capitano de Boëldieu (Pierre Fresnay) e i tenenti Maréchal e Rosenthal (Jean Gabin e Marcel Dalio), cercare la fuga prima da un campo di concentramento e poi da una fortezza presieduta dai tedeschi.
Il messaggio del film rappresenta un’esaltazione della diversità umana, della solidarietà tra le persone e dell’amicizia come uniche chiavi di salvezza.
Nonostante i personaggi della pellicola provengano da diverse classi sociali (aristocratici, borghesi e proletari) e appartengano a ranghi militari differenti, interagiscono senza problemi tra loro al fine di superare assieme le avversità.
I gradi sulle spalle dei loro cappotti valgono allo stesso modo, quindi i prigionieri solidarizzano come mai avrebbero fatto in altre circostanze.
Attraverso la prima parte della pellicola dedicata alla fuga e la seconda, dove i due tenenti trovano rifugio presso la casa di una giovane vedova tedesca madre di una bambina, Renoir vuole indicare inoltre che le divisioni geografiche ("Le frontiere sono un'invenzione degli uomini, la natura se ne infischia", come pronuncia il tenente Maréchal) e quelle sociali possono essere superate grazie ad un profondo senso di fratellanza e umanità.
Il regista attribuisce inoltre alla Prima Guerra Mondiale un’accezione molto decadente, come se si trattasse di un ultimo gesto nobile tra delle classi sociali destinate a scomparire con l’inizio del nuovo secolo.
Con questo si ha come la sensazione che Renoir voglia infonderci la speranza che anche la guerra in generale possa avere lo stesso destino.
Tuttavia, come dice il titolo, questa speranza rimane solo una grande illusione, ma anche grazie a questo capolavoro sappiamo qual è il segreto per sopravvivere a questa delusione: noi stessi.
Nasco a Genova poco più di trent'anni fa, anche se chi mi conosce bene giura che siano molti di più. Sono visceralmente appassionato della settima arte in tutte le sue forme ed espressioni (perfino le peggiori), con una predilezione particolare per il genere Western. Dall'amore per il grande schermo è nato inoltre un forte interesse per le serie televisive coltivato con speciale attenzione. Sono pure un patito di politica, che cerco di capire anche attraverso il cinema. Attualmente in trasferta a Bruxelles.