Proseguono le classifiche assassine di CineFacts.it e questa volta prendiamo in esame i film degli anni '90.
Assassine perché come ognuno può facilmente presumere non è mai facile scegliere solamente 10 film per un decennio, e ogni volta in redazione si assiste a crisi di panico, tendenze suicide, casi di depressione e pianti isterici.
Ma, come già accaduto per la classifica del decennio appena trascorso e per quella degli anni 2000, questo tipo di contenuti aiuta noi a fare il punto su che tipo di Cinema ci ha entusiasmato negli anni e magari può aiutare voi a riscoprire titoli finiti nel dimenticatoio, o a parlare dei film che avete amato e che qui non vedete citati.
O che magari vedete nelle prime posizioni.
Le classifiche non nascono con un'intenzione superba o classista: sono un modo come un altro per parlare di Cinema e come tali andrebbero affrontate e discusse, senza stracciarsi le vesti per la mancanza di tale titolo o inorridire per la presenza di un altro titolo.
[Fuoco cammina con me, di David Lynch (1992): il primo degli esclusi]
Gli anni '90 sono stati un periodo particolare per il Cinema mondiale: a tutti gli effetti è l'ultimo decennio dove la pellicola resta protagonista e unico supporto possibile per chi vuole fare film, prima della rivoluzione digitale.
Per gli USA è il decennio dove esordiscono i cineasti che ancora oggi segnano il passo, quelli nati e cresciuti divorando il Cinema degli anni '70 e che hanno imparato dai Maestri della New Hollywood per poi riplasmare la celluloide con le loro mani.
Negli anni '90 c'è l'humus che ha formato il Cinema che vediamo ancora oggi.
[Le Iene: il debutto del 1992 di Quentin Tarantino non è entrato in classifica per poco, ma il regista ha di che consolarsi]
È il decennio dell'esordio di Quentin Tarantino, di Christopher Nolan, di Paul Thomas Anderson, di David Fincher, di Denis Villeneuve, di Nicolas Winding Refn, di Sofia Coppola, di Takashi Miike, di Kim Ki-duk, di Darren Aronofsky, di Ang Lee, di Alfonso Cuarón, di Robert Rodriguez, delle sorelle Wachowski.
E di Guillermo del Toro, Gaspar Noé, Danny Boyle, David O. Russell, Wes Anderson, Kevin Smith, Noah Baumbach, Guy Ritchie, Sam Mendes, Spike Jonze, Park Chan-wook, Susanne Bier...
Nomi che letti tutti insieme mettono i brividi.
Tutti nomi che oggi definiscono il Cinema, non solo hollywoodiano, e tutti nomi figli di quel Cinema che li ha preceduti.
In ognuno di questi autori si può riconoscere l'influenza dei cineasti che hanno diretto i capolavori dei decenni passati, eppure ognuno di questi registi è riuscito a modo suo a reinterpretare quel Cinema e renderlo proprio, spesso diventando esso stesso fonte di ispirazione per i cineasti che arriveranno.
[Perfect blue, di Satoshi Kon (1997): fuori dalla classifica finale per un soffio]
Gli anni '90 per il Cinema italiano sono quelli più fortunati come riconoscimento all'estero: è il decennio più bello sul fronte Oscar, dove dai tempi di Federico Fellini e Vittorio De Sica non eravamo più così considerati.
Tre Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera su 5 nomination: il decennio si apre con l'Oscar nel 1990 per Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e si chiude con l'Oscar nel 1999 per La vita è bella di Roberto Benigni - vincitore anche della statuetta come Migliore Attore Protagonista e di quella per la Miglior Colonna Sonora, andata a Nicola Piovani: in mezzo c'è l'Oscar a Gabriele Salvatores per il suo Mediterraneo nel 1992 e le nomination per Porte aperte di Gianni Amelio e per L'uomo delle stelle, ancora di Tornatore, rispettivamente nel 1991 e nel 1996.
E non si può non menzionare Il postino: l'ultimo film con il grande Massimo Troisi ottenne oltreoceano 5 nomination: Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Attore Protagonista, Miglior Sceneggiatura non Originale e Miglior Colonna Sonora, vincendo la statuetta per quest'ultima.
[Anche Il postino, film di Michael Radford e Massimo Trosi del 1994, non è entrato in Top 8 davvero per poco]
Nonostante ciò, per il grande pubblico italiano è il decennio della caduta e della resa: mentre i Grandi resistono e i nuovi talenti si confermano e vengono premiati all'estero, il botteghino interno insegue inesorabilmente la richiesta di commediole sempre uguali e di bassa lega, proseguendo su quella china intrapresa nel decennio precedente.
Ma gli anni '90 sono stati rivoluzionari principalmente per due motivi.
Il primo è l'apertura di Hollywood alle stelle dell'estremo oriente: John Woo, Chow Yun-fat, Jackie Chan, Michelle Yeoh, Jet Li...
L'industria statunitense del Cinema si è appropriata di volti e stili del Cinema orientale per farli propri, e anche se il risultato è stato quello di fagocitarli e renderli a stelle e strisce - annullandone quindi la potenza espressiva e la novità che stavano portando - è indubbio che si trattò dei primi passi di quella camminata che ha avuto compimento in questi ultimi anni, che ha portato all'apertura totale del mercato asiatico nei confronti del Cinema occidentale.
E del contrario, come abbiamo visto quest'anno con Parasite.
[Lanterne rosse, di Zhāng Yímòu (1991): escluso eccellente fuori dalla Top 8 finale per pochissimi voti]
L'altra rivoluzione sono gli effetti digitali.
Negli anni '90 si completò un percorso iniziato vent'anni prima e, nonostante la pellicola fosse ancora il principale supporto cinematografico, la CGI cominciò a fare la voce grossa.
Gli effetti nei film cambiarono radicalmente e gli spettatori in tutto il mondo rimasero a bocca aperta vedendo le meraviglie presenti in Terminator 2 - Il giorno del giudizio (1991), dove gli effetti digitali resero possibili cose altrimenti nemmeno pensabili, ne Il tagliaerbe (1992), film che si reggeva pressoché totalmente sulla novità della realtà virtuale, in Jurassic Park (1993) dove il digitale era combinato con gli animatronic, in Forrest Gump (1994), dove si vede Tom Hanks interagire con personaggi storici del passato e dove lo vediamo giocare con una pallina da ping pong che nella realtà non esiste, in Titanic (1996), dove a un'incredibile ricostruzione del transatlantico venivano mescolate immagini ricreate con la computer grafica.
Fino ovviamente ad arrivare all'esplosione totale in Matrix (1999), che alzò l'asticella degli effetti di qualche metro e che divenne subito pietra di paragone e fenomeno mondiale.
[Ultimo film ancora oggi ad aver vinto i Big 5 agli Oscar: Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991) non è riuscito a entrare in Top 8]
Nello stesso anno ci fu il primo esperimento di scene girate nativamente in digitale nel Cinema mainstream grazie a George Lucas: in occasione dell'Episodio I della sua saga di Guerre Stellari il regista effettuò delle riprese non in pellicola, aprendo la strada a quello che sarebbe poi esploso nel decennio successivo.
Senza ovviamente dimenticarci di citare l'altra gigantesca rivoluzione digitale: è il 1995 e nei cinema di tutto il mondo esce Toy Story, il primo film in assoluto creato dal nulla, realizzato interamente con i computer e con il supporto digitale.
Capite bene dunque che per i redattori che hanno voluto cimentarsi nella scelta di 10 film rappresentativi degli anni '90 non è stato per niente un lavoro facile.
Tanta è stata la disperazione nel dover lasciare fuori titoli importanti, fondamentali, film a cui si è legati in modo particolare.
Ma è il gioco delle classifiche: posti limitati, scelte obbligatorie, tanta indecisione... e un'incredibile tristezza leggendo gli esclusi.
[Introduzione a cura di Teo Youssoufian]
[A David Lynch è andata male: Strade perdute (1997) è il suo secondo film del decennio che è rimasto fuori dalla Top 8, per appena 4 punti]
Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.
Le regole imposte erano due:
- i film devono essere prodotti tra il 1990 e il 1999
- si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno
Ne è uscito un totale di 94 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori:
Francesco Amodeo
Eyes Wide Shut (1999)
Quei bravi ragazzi (1990)
America Oggi (1993)
Matrix (1999)
La sottile linea rossa (1998)
Hong Kong Express (1994)
Le Iene (1992)
Pulp Fiction (1994)
Il Postino (1994)
Il Silenzio degli Innocenti (1991)
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Emanuele Antolini
Pulp Fiction (1994)
Carlito's Way (1993)
Quei bravi ragazzi (1990)
Eyes Wide Shut (1999)
Heat - La Sfida (1995)
Le Iene (1992)
Il grande Lebowski (1998)
Sonatine (1993)
L'odio (1995)
Una vita al massimo (1993)
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Marco Batelli
Forrest Gump (1994)
Tutto su mia madre (1999)
Pioggia di ricordi (1991)
Il postino (1994)
Pulp Fiction (1994)
American History X (1998)
Il silenzio degli innocenti (1991)
Will Hunting - Genio ribelle (1997)
The Truman Show (1998)
Mediterraneo (1991)
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Simone Braca
Hong Kong Express (1994)
L'odio (1997)
Tre Colori - Film bianco (1994)
Caro Diario (1993)
Prima dell'alba (1995)
Perfect Blue (1997)
Trainspotting (1996)
La Doppia vita di Veronica (1991)
Fuoco cammina con me (1992)
Harry a Pezzi (1997)
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Fabrizio Cassandro
Prima dell'alba (1995)
Perfect Blue (1997)
Hong Kong Express (1994)
Eyes Wide Shut (1999)
Underground (1993)
Pulp Fiction (1994)
Lanterne rosse (1991)
Tre Colori - Film bianco (1994)
Ghost in the Shell (1995)
Boogie Nights - L'altra Hollywood (1997)
[Il miglior Brian De Palma degli anni '90: il suo Carlito's Way (1993) con un grande Al Pacino non è in Top 8 per poco]
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Simone Colistra
Dead Man (1995)
Fuoco cammina con me (1994)
Prima dell'alba (1995)
Lanterne rosse (1991)
Una storia vera (1999)
Porco Rosso (1992)
Fargo (1996)
Ombre e Nebbia (1992)
Pulp Fiction (1994)
Quei bravi ragazzi (1990)
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Morena Falcone
Quei bravi ragazzi (1990)
Il Postino (1994)
Trainspotting (1996)
La Leggenda del Pianista sull’oceano (1998)
Apollo 13 (1995)
L’odio (1995)
Shakespeare in Love (1998)
Titanic (1997)
Matrix (1999)
Forrest Gump (1994)
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Fabrizio Fois
Eyes Wide Shut (1999)
Lanterne rosse (1991)
Pulp Fiction (1994)
Il grande Lebowski (1998)
Il seme della follia (1994)
Quei bravi ragazzi (1990)
Strade perdute (1997)
Toy Story 2 - Woody e Buzz alla riscossa (1999)
L'armata delle tenebre (1992)
Edward mani di forbice (1990)
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Jacopo Gramegna
Quei bravi ragazzi (1990)
Pulp Fiction (1994)
Tutto su mia madre (1999)
Strade perdute (1997)
Eyes Wide Shut (1999)
Tre colori - Film rosso (1994)
Cuore Selvaggio (1990)
Boogie Nights - L'altra Hollywood (1997)
Le Iene (1992)
L'odio (1995)
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Lorenza Guerra
Hong Kong Express (1994)
Lanterne rosse (1991)
Sogni (1990)
Fuoco cammina con me (1992)
Tre colori - Film bianco (1994)
Perfect Blue (1997)
Principessa Mononoke (1997)
Il re leone (1994)
Magnolia (1999)
Audition (1999)
[Il re leone (1994) è il Classico Disney più votato dalla redazione, ma per una manciata di punti va a ingrossare le fila degli esclusi eccellenti]
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Kevin Hysa
Titanic (1997)
Edward mani di forbice (1990)
Eyes Wide Shut (1999)
Il re leone (1994)
Ed Wood (1994)
Nightmare before Christmas (1993)
Soldi sporchi (1998)
Terminator 2 - Il giorno del giudizio (1991)
Principessa Mononoke (1997)
Il seme della follia (1994)
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Lens Kuba
Eyes Wide Shut (1999)
Ghost in the Shell (1995)
Satantango (1994)
Crash (1996)
Principessa Mononoke (1997)
Perfect Blue (1997)
Baraka (1992)
Fargo (1996)
Solo contro Tutti (1998)
Lanterne rosse (1991)
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Adriano Meis
Magnolia (1999)
Strade perdute (1997)
Le Iene (1992)
Audition (1999)
Heat - La Sfida (1995)
Il cattivo tenente (1992)
Baraka (1992)
Hana-bi - Fiori di fuoco (1997)
Funny Games (1997)
Nightmare before Christmas (1993)
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Sebastiano Miotti
Prima dell'alba (1995)
Eyes Wide Shut (1999)
Funny Games (1997)
Racconto d'autunno (1998)
La sottile linea rossa (1998)
Strade Perdute (1997)
Il re leone (1994)
Titanic (1997)
Le onde del destino (1998)
American Beauty (1999)
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Natasha Nussenblatt
Velvet Goldmine (1998)
Nightmare before Christmas (1993)
Natural Born killers (1994)
Trainspotting (1996)
Seven (1995)
American beauty (1999)
Clerks - Commessi (1994)
American History X (1998)
Edward mani di forbice (1990)
Il Silenzio degli Innocenti (1991)
[Capolavoro della stop motion: Nightmare before Christmas (1993) prende anche un 2° posto, ma non basta]
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Yorgos Papanicolaou
L’odio (1995)
Pulp fiction (1994)
Il grande Lebowski (1998)
Il re leone (1994)
Eyes Wide Shut (1999)
Sonatine (1993)
Underground (1995)
Trainspotting (1996)
Le onde del destino (1996)
Magnolia (1999)
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Pierluca Parise
Eyes Wide Shut (1999)
Casinò (1995)
Il sapore della ciliegia (1997)
Lezioni di piano (1993)
Racconto d’autunno (1998)
America oggi (1993)
Pulp Fiction (1994)
Un ragazzo, tre ragazze (1996)
L’età dell’innocenza (1993)
Una storia vera (1999)
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Paolo Riggio
Trainspotting (1996)
Pulp Fiction (1994)
Fight Club (1999)
Forrest Gump (1994)
Quei bravi ragazzi (1990)
Gli spietati (1992)
Matrix (1999)
American History X (1998)
Qualcosa è cambiato (1998)
Il grande Lebowski (1998)
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Angelo Tartarella
Toy Story - Il mondo dei giocattoli (1995)
Toy Story 2 - Woody e Buzz alla riscossa (1999)
Fuoco cammina con me (1992)
Ricomincio da capo (1993)
Last Action Hero - L'ultimo grande eroe (1993)
Hercules (1997)
La Bella e la Bestia (1991)
Tarzan (1999)
Mulan (1998)
Heat - La Sfida (1995)
[Un voto al primo posto per Forrest Gump (1994), film rimasto nell'immaginario collettivo mondiale... ma fuori dalla nostra Top 8]
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Enrico Tribuzio
Pulp Fiction (1994)
Eyes Wide Shut (1999)
Il grande Lebowski (1998)
Il seme della follia (1995)
Fuoco cammina con me (1992)
Casinò (1995)
Matrix (1999)
Hana-bi - Fiori di fuoco (1997)
Paura e Delirio a Las Vegas (1998)
L'Armata delle Tenebre (1992)
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Jacopo Troise
Quei bravi ragazzi (1990)
Gli spietati (1992)
Eyes Wide Shut (1999)
Il dolce domani (1997)
Pulp Fiction (1994)
Il sapore della ciliegia (1997)
Carlito's Way (1993)
Il ladro di bambini (1992)
Essere John Malkovich (1999)
Tutto su mia madre (1999)
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Teo Youssoufian
Pulp Fiction (1994)
Eyes Wide Shut (1999)
L’odio (1995)
Il Silenzio degli Innocenti (1991)
Quei bravi ragazzi (1990)
Carlito’s Way (1993)
Il grande Lebowski (1998)
Strade perdute (1997)
Fargo (1996)
Hong Kong Express (1994)
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1 di 8
Posizione 8
Il grande Lebowski
Joel Coen, Ethan Coen 1998
Personaggi geniali, caratterizzati e interpretati benissimo, intreccio a orologeria, dialoghi memorabili, colonna sonora clamorosa, regia impeccabile, citazioni che vanno da Raymond Chandler a Busby Berkeley.
Ne Il grande Lebowski c'è tutta l'idea di Cinema dei fratelli Coen, tutta la loro poetica e tutte le loro capacità di sceneggiatori e direttori di interpreti.
Provare a riassumere il film è pressoché impossibile, perché si tralascerebbe qualcosa: in poche parole è una surreale rivisitazione del Percorso dell'eroe con al centro un personaggio indimenticabile attorniato da comprimari che lo sono altrettanto, il tutto miscelato travalicando i generi e prendendosi gioco del Cinema stesso.
Il grande Lebowski è un delizioso esempio di utilizzo del MacGuffin di hitchcockiana memoria in un noir che gira al contrario dei noir.
Una commedia degli equivoci, ma senza storia d'amore.
Un film zeppo di cliché nella forma e nella presentazione dei personaggi caratterizzati allo stremo, ma totalmente privo di cliché nella sostanza e nella struttura.
Se lo spettatore vuole seguire il giallo alla base della storia può farlo perché il plot è avvincente e ricco di capovolgimenti di fronte; se ci si vuole abbandonare alle situazioni fuori dalle righe di una Los Angeles schizoide ci si gode il Drugo che si trova in una situazione sempre più incasinata.
A tratti sembra un inno all'indolenza compiaciuta e una critica al capitalismo vanesio.
Altre volte pare un divertissement senza niente da dire.
Ma non è niente di tutto ciò... e lo è, comunque.
Il film dei Coen è un incredibile ritratto della società molle che vive ai margini dello show business losangelino dove però i perdenti alla fine non perdono nulla e i vincenti non sono in grado di vincere, ribaltando quindi completamente il senso dell'American Dream e del Self Made Man tanto caro a Hollywood e agli Stati Uniti.
Il grande Lebowski è un film costruito sulle singole scene che appaiono tutte studiate come fossero dei cortometraggi, dove si ha la sensazione guardandole che siano tutte sacrificabili, tutte superflue e tutte fini a loro stesse, ma quando a fine visione si ripassa col pensiero a cosa si è visto ci si rende conto che non esiste neanche un'inquadratura gratuita.
Impreziosito da almeno una decina di interpretazioni impressionanti - per molti degli attori partecipi in questo film c'è il ruolo iconico di un'intera carriera - e fotografato da Roger 'Divinità' Deakins, Il grande Lebowski è un film che si infila dentro l'anima con lentezza, perché può non essere immediato e può risultare vacuo a una prima visione.
Ma ogni volta che lo si vede lo si apprezza più della precedente, e l'unico rammarico che provoca nasce dalla consapevolezza di non poter mai incontare nella vita quei meravigliosi personaggi, per giocarci a bowling o per sorseggiare assieme un White Russian pensando che, insomma, quel tappeto dava davvero un tono all'ambiente.
[a cura di Teo Youssoufian]
Posizione 7
Trainspotting
Danny Boyle, 1996
Edimburgo, anni '80.
Una corsa a perdifiato, le percussioni di Lust for Life di Iggy Pop a scandirne i passi e una voce fuoricampo che recita uno dei monologhi più famosi della Storia del Cinema.
Se avete visto Trainspotting almeno una volta non potrete non ricordarlo.
"Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera, scegliete la famiglia. Scegliete un maxi televisore del cazzo. Scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici."
È così che si apre il secondo lavoro del regista inglese Danny Boyle che, con questo film tratto dall'omonimo romanzo di Irvine Welsh e diventato un vero e proprio cult, ha raggiunto la notorietà con il grande pubblico.
E non è stato l'unico a raggiungere la fama: Trainspotting è stato il trampolino di lancio per un all'epoca poco conosciuto Ewan McGregor che troviamo nel film nei panni di Mark Renton.
Tossicodipendente, disoccupato, Renton è un ventiseienne la cui unica preoccupazione è proprio non avere preoccupazioni, non essere succube di tutto ciò che la società in cui vive considera felicità e che, paradossalmente, è lo stesso mucchio di roba che porta i singoli individui a sentirsi servi, schiacciati.
È di Renton l'iniziale voce fuori campo e da quelle parole capiamo che la sua è una tossicodipendenza volontaria, un abbraccio alla passività:
"Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?"
Con Renton troviamo i suoi compagni di siringa e/o risse: Spud, Sick Boy, Begbie.
L'originale caratterizzazione dei co-protagonisti riesce a creare dei personaggi molto diversi tra loro, nonostante l'appartenenza allo stesso luogo geografico, ambiente sociale e alla passione per le stesse "attività ricreative".
Ciò che viene messo in scena è lo squallore e il degrado di una vita vissuta esclusivamente in funzione della prossima dose da spararsi in vena, dove trovarla, quando e quanto farsi, ma sempre e comunque farsi.
Conta solo quello, il resto scompare, gli altri sono invisibili e tu stesso ti eclissi diventando trasparente per tutti.
Un discorso già iniziato nel 1981 con Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Uli Edel, ma proposto con toni diversi. Mentre nel film di Edel il tossicodipendente è simbolo di una società marcia, è il giovane disagiato e sconfitto in cui nessuno vorrebbe mai immedesimarsi, in Trainspotting l'eroinomane ha tutte le caratteristiche dell'antieroe.
È vero che manca di tutte quelle nobili virtù tipiche dell'eroe, non ha forza di volontà, coraggio, zero ideali, ma non è di natura crudele e in un certo senso sembra forte essere come lui. Simpatizziamo per lui e siamo intrigati dal suo atteggiamento punk nei confronti del sistema.
"Le strade schiumano di droghe contro il dolore e l'infelicità. Noi le prendevamo tutte. Ci saremmo sparati la vitamina C se l'avessero dichiarata illegale."
Così Boyle compie un'eccellente mossa: prima ci fa chiudere un occhio su ciò che combinano Renton e i suoi amici, facendoci sorridere, ridere, poi d'un tratto ci mostra lo schifo che c'è dietro, la melma che si nasconde sotto tutto quel solitario, eccitante divertimento.
Colori freddi dominano la fotografia - con la costante presenza del verde in tutte le sue tonalità - e trasmettono ancora di più una sensazione di repulsione proveniente dagli ambienti stessi che circondano i personaggi, quasi a voler rappresentare il rifiuto della società nei confronti di quella feccia drogata.
L'unica eccezione è il colore rosso che in alcune scene spicca su quei toni perennemente pallidi e abbraccia calorosamente gli individui ricordandoci che la loro unica fonte di felicità è nel loro sangue.
[a cura di Morena Falcone]
Posizione 6
Hong Kong Express
Wong Kar-wai, 1994
Hong Kong Express è una di quelle opere che trascende una normale realizzazione, è una di quelle idee improvvise che fa tremare le mani degli artisti, quelle che bisogna buttar giù subito prima che svanisca in mezzo alle incombenze della vita.
Wong scrisse la sceneggiatura in poche notti mentre dirigeva lo sfortunato wuxiaAshes of Time, rinunciando al sonno per non lasciar fuggire l’intuizione, in coppia con Christopher Doyle, fidato direttore della fotografia.
Proprio come un’idea potente, ma labile, l’intero film trasmette l’evanescenza di un contatto fugace, di un pasto rapido ma gustoso, la condivisione di un drink con una bellissima e misteriosa sconosciuta.
La traduzione del titolo originale in cantonese è letteralmente “la giungla di Chungking”, riferito alla Chungking Mansions: un complesso di edifici nel cuore di Hong Kong in cui persone di ogni nazionalità, in particolare indiani e pakistani, si riuniscono per pernottare e nutrirsi in modo veloce ed economico.
Il piccolo film-gioiello di Wong Kar-wai è composto da due episodi: il primo tratta proprio di un rapporto a mezz’aria, romantico proprio perché inesorabilmente inconcludente, tra l’agente 223 (Takeshi Kaneshiro) e una misteriosa spacciatrice borderline con parrucca bionda (Brigitte Lin).
Il secondo episodio, il cui nucleo è situato sempre nello stesso fastfood, racconta la storia tra l’agente 663 (Tony Leung) che condivide con gli oggetti la malinconia di una casa ormai priva della presenza di una donna e Ah Fei (Faye Wong) cameriera che non vuole ascoltare i propri pensieri e preferisce ballare al ritmo di una musica assordante.
Gli oggetti, le attenzioni, le parole, sono sempre significative.
Il cuore delle cose, l’essenzialità delle parole, la scarnificazione e la liberazione del superfluo rende Hong Kong Express un affresco pop incredibilmente umano, dove l’incompiutezza, la goffaggine dell’umanità funge da pittura dai colori acidi.
I personaggi si affannano a seguire il ritmo della vita, cercando di riacquisire il tempo, affamati di ricordi e di attimi persi.
Il tempo si configura nuovamente come il perno della poetica di Wong, trovarsi al momento giusto nel luogo giusto diventa il più romantico e il più utopico dei miraggi.
I personaggi si sfiorano, si incrociano, si sovrappongono, sospirano e soffrono a pochi metri di distanza, condividono senza conoscersi e forse si rincontreranno in California, simbolo del sogno, sulle note di California Dreamin' dei The Mamas & the Papas.
Il cinema del regista cinese taglia pezzi di realtà e li dilata in modo da soffermarsi su pochi personaggi, le storie di Hong Kong Express potrebbero essere replicate all’infinito con infinite combinazioni tra variabili infinitesime.
Wong applica lo zoom su quei punti in cui la vita scorre troppo veloce, ad esempio rallentando l’individuo su uno sfondo in step-framing e insegue i protagonisti con la macchina da presa.
Hong Kong Express forma con Angeli perduti un dittico sulla Hong Kong metropolitana e caotica dove le solitudini si affiancano, si spintonano e a volte si sovrappongono.
[a cura di Lorenza Guerra]
Posizione 5
Prima dell'alba
Richard Linklater, 1995
Gli anni '90 sono il decennio del grande esordio di Richard Linklater, regista texano tra i più importanti e tra i più acclamati dalla critica negli ultimi decenni.
Eccetto It's Impossible to Learn to Plow by Reading Books uscito nel 1988, proprio in questi anni mette a segno i suoi primi tre grandi colpi: Slacker, film in grado di dare nome a uno dei più importanti movimenti cinematografici post-2000, ovvero il Mumblecore (i cui registi vengono chiamati anche slackvetes), La vita è un sogno e, il progetto che più di tutti è in grado di rappresentarlo, Prima dell'alba, il primo capitolo della Before Trilogy.
Una trilogia - al cui primo capitolo si aggiungono Before Sunset -Prima del Tramonto nel 2004 e Before Midnight nel 2013 - che è un vero e proprio manifesto del cinema linklateriano: l'unione di genere e autorialità, l'utilizzo esasperato della parola, il rapporto con il tempo sia a livello produttivo sia all'interno del film, il rapporto totalizzante con gli attori e molto altro.
16 giugno 1994; Jesse (Ethan Hawke) e Celine (Julie Delpy), due ragazzi intorno ai venticinque anni, si trovano sullo stesso treno per Vienna: lui è all'ultimo giorno del suo viaggio in Europa e il mattino dopo dovrebbe prendere l'aereo per tornare negli USA, lei è in viaggio verso Parigi, dove studia alla Sorbonne, dopo esser a visitare sua nonna a Budapest.
In una sorta di Aurora di Friedrich W. Murnau lui riesce a convincerla a scendere dal treno e a trascorrere la serata e la nottata insieme esplorando la città: due sconosciuti in giro per Vienna che il giorno dopo si divideranno senza addii o rimpianti.
Tra giochi, dialoghi, poesie, strade e piazze i due giovani si innamorano e, lasciandosi alla stazione, si danno appuntamento nello stesso luogo sei mesi dopo, contravvenendo ai propositi iniziali.
Il film, scritto insieme ai due attori (che non figurano nei titoli del primo capitolo ma solo dei successivi, pur avendo partecipato alla scrittura sin dall'inizio), riesce a restituire tutta la naturalezza tipica del cinema linklateriano: Jesse e Celine sono costruiti attraverso ricordi e conoscenze e per questo risultano come persone reali e già conosciute.
Questo, unito al fatto che i due giovani sono costantemente a nudo non solo rispetto all'altro, ma anche rispetto allo spettatore, fa sì che poco a poco impariamo a conoscerli come se avessero sempre fatto parte della nostra vita: i loro segreti, le loro inclinazioni, i loro difetti, le loro debolezze e il loro modo di concepire la vita e il mondo diventano, se non lo erano già, parte del nostro universo.
Linklater li crea, ma poi li lascia liberi e non mette sulle loro bocche nulla che non direbbero, non devono convincerci dell'una o dell'altra posizione, ma essere persone senzienti che ci divertiamo a conoscere e con le quali proviamo gusto nel discutere.
I due non sono, però, solo la rappresentazione perfetta e reale di due giovani del loro tempo, che ben esemplificano, ma sono un vero e proprio archetipo degli innamorati, come avveniva nel film di Murnau: i loro litigi, il modo in cui si difendono se sotto pressione, il modo in cui mentono o quello in cui si vergognano.
In Prima dell'alba, come poi avverrà in maniera ancora più netta in Prima del tramonto, Linklater sceglie di mostrarci ciò che avviene negli stessi tempi in cui accade: per quasi tutto il film seguiamo i due innamorati senza ellissi o accelerazioni temporali: sono gli eventi e i sentimenti stessi a piegare il modo in cui percepiamo il tempo.
Un film rohmeriano in cui la parola è un vero e proprio terzo personaggio e in cui i luoghi, insieme ai dialoghi, diventano colonna sonora, tanto quanto le canzoni ascoltate dai due giovani innamorati.
Una storia d'amore, tra le più belle che la settima arte ha saputo regalarci, che vive di silenzi e di parlato, passeggiando per le città, sconosciuti che si conoscono e che allo stesso tempo guidati in un ineluttbile destino (quanto è bello il Cinema in cui tutto è possibile) si innamorano e poi si lasciano in attesa del luogo e del momento giusto.
"Credo che se esiste un qualsiasi Dio non sarebbe in nessuno di noi, né in te, né in me, ma solo in questo piccolo spazio nel mezzo."
[a cura di Fabrizio Cassandro]
Posizione 4
L’odio
Mathieu Kassovitz, 1995
Scritto e diretto da Mathieu Kassovitz, vincitore del Prix de la mise en scène al Festival del Cinema di Cannes 1995, L’odio ci mostra in un’istantanea una generazione francese.
La generazione multietnica delle banlieue perennemente in guerra con il futuro e con la polizia.
Impressionante, in questo senso, la sequenza introduttiva con immagini di repertorio degli scontri e Burnin’ and Lootin’ di Bob Marley.
A seguito di un controllo da parte di un agente di polizia, il giovane Abdel rimane ferito a morte.
Da quel momento la periferia insorge manifestando e scontrandosi con le forza dell’ordine.
In questo ambiente seguiamo la giornata di tre amici: Vinz (uno strepitoso Vincent Cassel), Saïd e Hubert.
I tre passano la loro giornata cercando di divertirsi, ma volenti o nolenti si ritrovano a confrontarsi sull’avvenimento che polarizza la banlieue.
Vinz voglioso di scontrarsi per vendicare Abdel, Hubert intenzionato ad abbassare i toni per il bene della comunità e Saïd, a metà tra i due, sempre attento al proprio interesse.
I tre vivono una giornata sopra le righe tra periferia e centro di Parigi, fino a quando non si trovano davanti al momento decisivo, agire o non agire.
La sceneggiatura brillante di Kassovitz è ricca di citazioni pop come Vinz à la RobertDe Niro in Taxi Driver, e momenti cult come la scena del bagno o quella sul tetto ammirando la Tour Eiffel illuminata nella notte parigina.
Il tutto reso indimenticabile dalla fotografia in bianco e nero di Pierre Aïm.
In definitiva L’odio "È la storia di una società che precipita, e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui… tutto bene”.
Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio."
[a cura di Yorgos Papanicolaou]
Posizione 3
Quei bravi ragazzi
Martin Scorsese, 1990
"Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster."
Con una delle frasi più celebri dell'intera filmografia di Martin Scorsese si apre Quei bravi ragazzi.
A pronunciarla è Henry Hill - interpretato da un Ray Liotta all'apice della carriera - e nel preciso istante in cui viene scandita lo spettatore si trova davanti a tutta la potenza rivoluzionaria dell'opera che sta per cominciare.
La narrazione del protagonista in pieno stile noir, la zoomata improvvisa della macchina da presa verso gli occhi verdi di Liotta, una velata ironia nella scelta musicale e quell'ostentato senso di orgoglio verso la scelta di una vita, appunto, da bravi ragazzi.
La scena di apertura di Quei bravi ragazzi è un microcosmo della pellicola stessa, uno scorcio perfetto di un viaggio di quasi tre ore al termine del quale ci ritroviamo a dover fare i conti con la completa ridefinizione delle regole di un gangster movie.
Pur pagando tutti i dovuti omaggi al genere, infatti, Scorsese continua a riscriverne completamente i canoni, perfezionando un operazione già iniziata con Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno: abbandona la classicità nella messa in scena tipica dei mob-movies in favore della propria personalissima mano autoriale, controbilancia la centralità dei crimini messi in scena giustapponendoli a scene di vita comune, calca la mano nella caratterizzazione dei personaggi e innerva la sceneggiatura con picchi di ironia nera.
La forza della pellicola, che narra nell'arco di circa trent'anni l'epopea gangster di Henry Hill, Jimmy Conway (Robert De Niro), Tommy DeVito (Joe Pesci), Paul Cicero (Paul Sorvino) e del loro clan di riferimento, la famiglia Lucchese, è proprio quella di sorvolare ogni avvenimento, anche il più complesso e sanguinoso, con leggerezza, indugiando invece sui piccoli dettagli che rendono l'essere gangster "Meglio di essere Presidente degli Stati Uniti d'America", come dice a un certo punto lo stesso protagonista.
Questo non vuol dire, però, che la violenza non sia grafica o venga relegata al fuori campo, anzi: è l'incredibile bilanciamento tra le contrapposizioni estreme della pellicola a renderla forse l'opera più apprezzata tra quelle realizzate dall'autore italo-americano negli anni '90.
Attraverso il sapiente utilizzo della macchina da presa Scorsese e il fido Michael Ballhaus alla fotografia riescono, dunque, a trasfigurare il mondo reale e a filtrarlo attraverso gli occhi di Henry Hill e di sua moglie Karen (interpretata da Lorraine Bracco), che sedotti dall'aspetto fintamente glamour della vita da gangster, man mano si ritrovano a essere risucchiati nel vortice della malavita vedendo le proprie vite cambiare definitivamente.
Esattamente ciò che ci viene mostrato nel meraviglioso piano sequenza al Copacabana.
L'esasperazione di quell'alone glamour attorno alla malavita è continuamente cercato per riuscire a mostrare la vacuità di tale bellezza e la reale bruttezza di quel mondo.
Forma e sostanza, narrazione sincopata e battute a effetto, grande recitazione e sequenze entrate di diritto nella Storia del Cinema: sono questi gli ingredienti equamente distributi in Quei bravi ragazzi
Tratto dal libro Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi (che ha anche contribuito a sceneggiare la pellicola insieme a Scorsese) Quei bravi ragazzi è, con ogni probabilità, il film attraverso il quale la poetica dell'autore italoamericano trova il proprio pieno compimento.
Con quest'opera il Cinema degli antieroi tradizionalmente prodotto da Scorsese si è arricchito di una dimensione corale e corrosiva: ogni personaggio è graffiante, ogni interpretazione memorabile.
Premiato con il Leone d'argento per la Miglior Regia alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e con un solo Premio Oscar (per Joe Pesci come Migliore Attore non Protagonista) a fronte di sei nomination, Quei bravi ragazzi è solo l'ennesimo esempio di come un grande film non vada assolutamente giudicato attraverso i premi vinti.
Anche se, in questo caso, possiamo anche sbilanciarci: Quei bravi ragazzi non è solo un grande film.
Qui stiamo proprio parlando di un Capolavoro immortale.
[a cura di Jacopo Gramegna]
Posizione 2
Pulp Fiction
Quentin Tarantino, 1994
Chi parla degli anni ‘90 cinematografici non può astenersi dal parlare di Pulp Fiction: indiscusso capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, all’epoca la sua sola seconda regia.
Come suggerisce il titolo, la pellicola racconta diverse storie a tinte pulp ricche di colpi di scena, sangue e violenza, che si intrecciano fra di loro, non rispettando l’ordine cronologico: certamente il film è uno degli esempi più fulgidi di discordanza fra fabula e intreccio (insieme a C’era una volta in America di Sergio Leone, da Tarantino più volte riconosciuto come Maestro).
Con un cast all star che va da John Travolta a Uma Thurman, passando per Bruce Willis e Samuel L. Jackson - che più degli altri si dimostrerà essere un attore-feticcio per il regista originario del Tennessee - Pulp Fiction attinge a piene mani dal passato (come dimostra la sequenza del ballo di Vincent e Mia, un chiaro omaggio a 8½, diretto da Federico Fellini nel 1963), per diventare nel giro di breve tempo un cult.
Innumerevoli sono i momenti e le battute rimaste impresse nella mente di milioni di spettatori cinefili; ad esempio, come non conoscere il celebre passo biblico (reinventato) "Ezechiele 25,17" o non ricordare la casuale morte di Marvin in auto per mano di Vincent, scena che è stata ripresa anche da Aldo, Giovanni e Giacomo in Così è la vita?
Da sottolineare inoltre come Pulp Fiction non sia solo un'opera da guardare, ma anche da ascoltare, con la sua colonna sonora composta da brani ormai senza tempo, come Misirlou di Dick Dale & The Del-Tones e You never can tell di Chuck Berry: nella scelta delle musiche per i suoi film, innegabili sono il buon gusto e l’intelligenza di Tarantino, capace di associare le giuste canzoni ai toni della pellicola.
Il film non fu solo un successo di pubblico, ma anche di critica, arrivando a vincere la Palma d’oro a Cannes nel 1994 (evento più unico che raro per un film hollywoodiano) con una premiazione ormai leggendaria: al momento del canonico discorso di ringraziamento, Tarantino mostrò il dito medio a una signora del pubblico che gridava allo scandalo!
L’anno successivo arrivò anche l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, premio condiviso dal regista con il suo collaboratore Roger Avary.
Ad oggi nella filmografia di Tarantino non c'è un altro Pulp Fiction.
Nel 1999 Stanley Kubrick ci lasciava il suo testamento cinematografico che, per certi versi, rappresenta la summa di tutte le sue tematiche e i suoi stilemi.
Il lungometraggio è tratto da Doppio Sogno, un romanzo breve di Arthur Schnitzler del 1926, la cui ambientazione viene cambiata per mano del regista e dello sceneggiatore Fredric Raphael da Vienna a New York.
Qui troviamo come protagonisti gli Harford, famiglia benestante formata dalla gallerista Alice (Nicole Kidman) e il medico Bill (Tom Cruise).
A seguito di una discussione, Alice confessa al marito di avere fantasticato di tradirlo. L’uomo, ovviamente sconvolto, intraprende un’odissea notturna che assume i tratti di una vera e propria discesa nei meandri della natura dell’essere umano.
Per Kubrick alla base di questa natura vi è la sessualità intesa come espressione di corpi ma soprattutto di forma di potere. Infatti, il cineasta americano presenta una critica morale al sistema sociale dominante che consegna il potere – in tutti i suoi aspetti – solo in alcune mani.
In questo caso le mani sono quelle dei patriarchi della classe borghese che impongono la loro presunta superiorità sulle donne per dominarle attraverso il sesso o per trattarle come merce di scambio. Ma l’espressione di potere si manifesta anche nei rapporti di classe tra tutti i personaggi che interagiscono tra di loro: il ricco borghese Victor Ziegler (interpretato da Sydney Pollack, che sostituì Harvey Keitel) sul suo medico Bill e sulle prostitute, il medico Bill sull’amico pianista Nick, i misteriosi personaggi altolocati della setta su Bill.
L’intensitá della concatenazione di eventi che travolgono il protagonista viene risaltata dalla sensuale colonna sonora curata da Jocelyn Pook e caratterizzata dagli icastici passaggi di Dmitri Shostakovich e György Ligeti.
L’opera si poggia su un solido dualismo di contenuti e forma: dal punto di vista dei contenuti, si tratta di un intrigante e accattivante viaggio all’interno di una dimensione sospesa tra sogno e realtá.
Questo si intende a partire proprio dal titolo: la traduzione di Eyes Wide Shut potrebbe essere “occhi spalancati chiusi”, un ossimoro volto a indicare l’accostamento tra i due elementi opposti.
Dal punto di vista della forma, la dicotomia viene evidenziata dalla fotografia di Larry Smith e dal particolare uso simbolico dei colori, un marchio di fabbrica di Kubrick.
I colori predominanti sono infatti proprio due: se il blu è il colore associato ad Alice e a una sensazione di conosciuto, il rosso viene invece associato alla passione, al sesso e al mistero.
Eyes Wide Shut può essere visto anche come un’analisi profonda e realistica del matrimonio e di tutte le sue caratteristiche comuni.
Kubrick lo mette a nudo svelando sia le ipocrisie, sia i punti di forza. La fedeltà ne è considerata il fondamento, ma cosa succede quando si scontra con la vera natura umana?
La risposta è da trovare nella realtà oppure nel sogno?
Con questo lascito Kubrick descrive infine, attraverso il suo distintivo stile e immensa eleganza, tutte le contraddizioni e fragilità dell’essere umano in una controversa e conturbante avventura in cui realtà e sogno si fondono per mezzo della fantasia, che rimane l’unico modo che ci resta per sognare ad occhi aperti.
Se si trova in questa top8 ""ai danni"" di altri filmoni vuol dire che non riconosciamo la sua bellezza solo noi 3😂 anzi ringrazio io voi perché se non fosse finito negli otto avrei rimandato ancora la visione a chissà quando!! 😱
Non ho saputo resistere, sono andato a leggere il tuo post: pienamente d'accordo!
Sono passate ormai 24 ore ma li ho ancora impressi nella mente come avessi appena spento la tv, sto pensando a quei due come fossero due conoscenti... E non ho ancora visto il terzo!
Assolutamente, infatti era l'incipit di un mio vecchio articoletto sul gruppo di cinefacts che prima o poi riproporrò anche sul sito su tutta la trilogia, però dispiace perchè dietro a quella semplicità c'è un film filosoficamente e contenutisticamente ben più stratificato di tanti titoli molto più blasonati
Grazie delle info, cercherò magari già stasera per sapere come va a finire.
Forse viene messo in discussione perché rispetto ad altri in classifica è più "semplice" e "delicato", meno d'impatto...
Grazie di esistere!
Sono giorni che il pubblico di questa Top8 si divide tra chi non nota Before Sunrise e chi si lamenta perchè è in classifica!
Comunque dovrebbe esserci su RaiPlay, sennò l'anno scorso è uscita una bellissima edizione di Criterion Collection con tutta la trilogia
Andrea the Neon
4 anni fa
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Adriano Meis
4 anni fa
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Yuri Palamini
4 anni fa
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Yuri Palamini
4 anni fa
Sono passate ormai 24 ore ma li ho ancora impressi nella mente come avessi appena spento la tv, sto pensando a quei due come fossero due conoscenti... E non ho ancora visto il terzo!
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Simone Colistra
4 anni fa
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Fabrizio Cassandro
4 anni fa
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Yuri Palamini
4 anni fa
Forse viene messo in discussione perché rispetto ad altri in classifica è più "semplice" e "delicato", meno d'impatto...
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Fabrizio Cassandro
4 anni fa
Sono giorni che il pubblico di questa Top8 si divide tra chi non nota Before Sunrise e chi si lamenta perchè è in classifica!
Comunque dovrebbe esserci su RaiPlay, sennò l'anno scorso è uscita una bellissima edizione di Criterion Collection con tutta la trilogia
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Lenù
4 anni fa
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