Voi che leggete queste righe avete risposto con incredibile entusiasmo alla nostra classifica dei Migliori Film degli anni '10 del secolo corrente, quindi in redazione è scattata immediatamente la domanda: "Perché non fare allora una classifica per ogni decennio andando a ritroso nella Storia del Cinema?".
Eccoci dunque a parlare del Cinema degli anni 2000.
Un decennio denso, che ha portato la Settima Arte in quello che sulla carta è il suo terzo secolo di presenza: nato convenzionalmente nel 1895 con la famosa proiezione pubblica dei Fratelli Lumière al Grand Café sul Boulevard des Capucines a Parigi, il Cinema passa la soglia del terzo millennio.
Il mondo lo fa con una tragedia di portata storica: l'11 settembre 2001 l'attacco alle Torri Gemelle di New York ribalta completamente il pianeta, proiettando il mondo occidentale nel terrore e in una paranoica paura del diverso che ancora oggi fatichiamo a scrollarci di dosso.
Il Cinema hollywoodiano non poteva non venire toccato da quell'evento: i tempi di Forrest Gump e dell'American Dream sbiadiscono e lasciano spazio a temi più cupi, alle paure più ataviche insite nell'uomo rappresentate sul grande schermo.
Ma il Cinema non è soltanto Hollywood, e la nostra Top 8 lo può testimoniare.
Gli anni 2000 hanno visto la nascita di nuovi autori che negli anni a seguire hanno consolidato la propria poetica e al contempo ha dato modo ai "vecchi" di raccontare il mondo dal loro punto di vista, tra fantasmi del passato che ritornano all'assalto e rinnovati temi lasciati nel tempo che vengono riproposti in una nuova veste.
Sguardi pessimista sul passato, sul presente e sul futuro, caduta delle illusioni, amori che non si risolvono e metafore sull'esistenza: i Migliori Film degli anni 2000 secondo la redazione di CineFacts.it sono un insieme di tutto ciò, e ben rappresentano un periodo storico che la società si è trovata costretta ad affrontare di petto, senza forse avere in mano gli strumenti necessari per decifrarlo e sicuramente senza avere il tempo di fermarsi a riflettere.
Ma se la società non ha tempo per riflettere, chi lo ha è il Cinema, che da sempre in quelle due o tre ore di storytelling ci mette a nudo e ci racconta ciò che siamo, forzandoci a (ri)pensare il nostro mondo.
Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.
Le regole imposte erano due:
- i film devono essere prodotti tra il 2000 e il 2009
- si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno
Ne è uscito un totale di 92 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.
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Alfonso Cuarón dirige la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo della scrittrice britannica P.D. James.
Il film è ambientato in Inghilterra e racconta un futuro prossimo in cui la specie umana non riesce più a riprodursi, portando il mondo allo sfacelo economico e sociale e con governi che sopprimono l’immigrazione illegale con la violenza.
Paradossalmente, anche se nel film vi è un problema del tutto opposto a uno dei problemi futuri del pianeta ovvero la sovrappopolazione, la pellicola sembra comunque un affresco del mondo contemporaneo: le scene di rivolta nelle città e quelle nei campi profughi con il controllo militare sembrano quasi prese da un documentario sulle guerre del mondo odierno, grazie al realismo con cui sono state girate tutte le inquadrature del film.
Realismo dato dalla fotografia di Emmanuel Lubezki, che grazie all’utilizzo della macchina a mano realizza numerosi long take, anche in interni, che danno un completo senso di immersione nella narrazione.
Immersione data inoltre dall’illuminazione che tende sempre a quella naturale delle location in cui vengono ambientate le varie scene.
Film contro la guerra, contro il fascismo, contro ogni forma di disumanità.
A riguardo è emblematico Guernica di Plablo Picasso sulla parete della casa di un collezionista d’arte, che cerca di preservare le ultime opere d’arte rimaste in un mondo ormai allo sfacelo.
Con I figli degli uomini Cuarón realizza uno dei film più importanti degli anni 2000, sia da un punto di vista tecnico che da un punto di vista sociale, mostrando quanto sia sottile la linea tra ordine e caos, libertà e oppressione, con una pellicola che è di genere fantascientifico ma che sembra, se non una fotografia, un dipinto del mondo contemporaneo.
[a cura di Kevin Hysa]
Posizione 7
Love Exposure
Sion Sono, 2008
Love Exposure di Sion Sono è un inno: alla vita, al cinema, all’amore!
Difficilmente al termine di una pellicola di ben quattro ore si resta freschi, inebriati, eccitati come durante i titoli di coda di questa lezione di postmodernismo.
Non si fa in tempo ad abituarsi a un registro stilistico che un capitolo è già concluso, siamo strattonati da una colonna sonora a dir poco eclettica tra l’Allegretto della Sinfonia n.7 di Beethoven, meditativo, estatico, rabbioso, bellissimo, e musica j-pop, giovanile e canzonatoria degli Yura Yura Teikoku; si alternano nel giro di pochissimi minuti picchi altissima di pura poesia e di combattimenti volutamente esagerati, figli di una lunga tradizione di b-movie orientali.
Ed ecco che i personaggi utilizzano le arti marziali per fotografare le mutandine di passanti ignare, ma ciò non ci limita nel valutare il loro dolore profondissimo e quasi atavico, descritto perfettamente dai loro passati tragici.
L’alternanza di generi non stride: è fluida, magica.
Love Exposure è puro Cinema perché è libertà, crea delle regole per poi infrangerle, il rigore tecnico e contenutistico è solo un muro da distruggere, ricostruire e distruggere nuovamente.
Alla ricerca di intricati simbolismi che hanno così ben plasmato il Cinema contemporaneo mondiale, spesso sottovalutiamo l’importanza di ciò che può sembrare scontato: raccontare una storia, che sia banale, paradossale o complicatissima è poco importante.
L’importante invece è riuscire a piegare, controllare, gestire il mezzo filmico con tutte le sue appendici al potere immenso della fantasia. Ed ecco che l’avventura di Yu Honda, protagonista di Love Exposure, per quanto assolutamente fuori di testa tiene attaccati allo schermo, si lascia vivere, senza lasciarci il tempo o la voglia di interrogarci sulla sua verosimiglianza.
Il film lascia una scia di felicità; e per felicità non intendo solo risate solitarie nel ricordo dei momenti comici, la lacrimuccia commossa o il sospiro di sollievo nei momenti di riconciliazione finali, intesa effettivamente pura catarsi, la capacità del film di lasciare in dotazione energia vitale.
Love Exposure è un’esperienza filmica di sincerità e purezza.
Sincera e pura è anche l’erezione del giovane, buono e religiosissimo Yu dedicata solo ed esclusivamente a una ragazza, dichiarazione d’amore buffa e spontanea nei riguardi di Yoko, ai suoi occhi incantevole come lo può essere soltanto la Vergine Maria.
In un mondo alienato e anti-comunicativo come quello nipponico, ulteriormente condizionato da una religione dogmatica come quella cattolica - che ricordiamo essere davvero una minoranza in Giappone - un’erezione adolescenziale è l’unico metodo diretto in cui Yu riesce a esplicitare il suo amore incondizionato, altamente spirituale quanto visceralmente fisico, verso Yoko, la Maria misandrica che ha stima solo di due uomini: Gesù e Kurt Cobain.
Come in una fiaba grottesca, il principe Yu affronta prove incredibili per salvare la sua principessa dalla cima di una torre.
[a cura di Lorenza Guerra]
Posizione 6
Grizzly Man
Werner Herzog, 2005
Nel 2005 Werner Herzog realizzò un film montando il materiale ripreso da uno dei personaggi statunitensi più controversi e chiacchierati degli ultimi decenni: Timothy Treadwell.
Chi era costui?
Treadwell è stato un giovane americano, appartenente alla middle class, con trascorsi abbastanza anonimi tra una famiglia amorevole e problemi di alcolismo.
Tim, da sempre animalista convinto, per 13 estati consecutive (dal 1990 al 2003) visse in Alaska in mezzo a una delle creature più pericolose del globo terracqueo: il grizzly.
Fermamente convinto di essere stato scelto dalla provvidenza come “paladino” di una specie a rischio, realizzò circa 100 ore di riprese della sua vita insieme ai mastodontici animali in una cornice spettacolosamente ostile e selvaggia come quella del parco nazionale di Katmai.
Nel corso degli anni diventò una celebrità nazionale: presentò nelle scuole una campagna di sensibilizzazione verso i grizzly (senza mai chiedere un soldo), parlava con la gente, si batteva per i diritti dei suoi amici ursidi e fu intervistato persino da David Letterman che ne predisse la morte.
“È un film quasi ‘sensazionalistico’: vuole che attendiamo la morte di Tim, che è indicata fin dall’inizio con le date di nascita e decesso”
Raccontare in poche righe il rapporto fra Treadwell e la natura è deleterio. Fu un sognatore dal cuore d’oro - amante della bellezza del mondo - o semplicemente un mitomane incallito? O entrambe le cose? Difficile dirlo.
“La follia di Treadwell è la follia di tutti i personaggi di Herzog”
Quello che fece il buon Werner fu di "riorganizzare" i filmati a disposizione e, nel mentre, ripercorrere la storia di Tim attraverso le parole degli amici e dei parenti, dall’infanzia fino alla sua morte.
“Herzog ha l’incoscienza di mettere mano su questo materiale […] E questa situazione gli sfugge di mano, come era già sfuggita di mano a chi la filmava.
E sfugge ai nostri occhi.”
Nel percorso biografico de "l’uomo dei grizzly" si scontrano gli universi dei due protagonisti: Treadwell con il suo amore fanatico e viscerale per l’ambiente e per le creature che lo popolano, dove tutto è in armonia e meraviglioso; e poi quello di Herzog, con una natura matrigna conosciuta nell’ostilità dell’Amazzonia e nei deserti bruciati di mezzo mondo.
Luoghi dove ogni elemento è dominato "non dall'armonia, ma da caos, ostilità e omicidio".
“Grizzly Man è un film che ci lascia una grandissima chance, la sola chance che abbiamo rispetto al Cinema: quella di non sapere. Di non conoscere nulla rispetto a questo ‘vedere’. Questa è la forza del Cinema: toglierci la sicurezza dei sensi, e questo è un film-limite rispetto questa direzione”
In tutte le sue piccole imperfezioni (l’artificiosità di certe interviste è più che evidente, e probabilmente anche voluta) Grizzly Man racchiude in sé tutta la magia, la potenza visiva ed emotiva del mezzo cinematografico, stillate con maestria dal regista tedesco fino all’ultima goccia.
Qui si parla di morte, di limiti, di natura, di mutazioni e di Cinema.
In Grizzly Man Herzog parla di se stesso (forse addirittura a se stesso) e del suo lavoro come regista. E lo fa specchiandosi in Tim.
In tutto ciò, la macchina da presa è un partecipante scomodo e ingombrante, ma allo stesso tempo affascinante: se ne sente il peso, lo spirito voyeuristico e morboso mentre attendiamo la tragica fine del morto-parlante che si agita sullo schermo.
“Uccide più il Cinema che non l’orso.
Uccide più il Cinema che non la volontà palesemente suicida del personaggio, che evoca costantemente questa condizione da saltimbanco sempre in bilico fra la vita e la morte”
Nel labile confine tra fiction e realtà - elemento che caratterizza da sempre il Cinema del regista bavarese - e impreziosito da una colonna sonora da brividi, Grizzly Man si esprime con tutti gli stilemi propri di un'opera totalizzante, eterna, fallace e potentissima, in grado di parlare di molto e di mostrare una storia impossibile e vera allo stesso tempo, muovendo lo spettatore verso la meraviglia e l'orrore.
[a cura di Adriano Meis, sotto la guida spirituale di Enrico Ghezzi]
Posizione 5
Oldboy
Park Chan-wook, 2003
“Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo.”
Un uomo viene rapito senza un apparente motivo il giorno del quarto compleanno di sua figlia, si risveglia in una squallida stanzetta e, guardando il notiziario sul piccolo televisore presente nella camera, apprende che sua moglie è stata uccisa.
E lui è stato incolpato dell'omicidio.
Disperato, la famiglia ormai distrutta, senza poter stabilire alcun contatto con il mondo esterno, Oh Dae-su (interpretato dall’attore sudcoreano Choi Min-sik) inizia ad interrogarsi su chi possa detestarlo fino al punto di uccidere sua moglie, incastrarlo per l'omicidio e poi tenerlo prigioniero, in isolamento in quei pochi metri quadrati.
Qual è il motivo?
Qual è lo scopo di tutto ciò?
Passano i giorni, scanditi da quell’unico pasto a base ravioli al vapore, ogni giorno sempre gli stessi, da quella musica e da quella nube di gas che si spandono in camera e precedono un sonno forzato.
Passano i mesi, giorno e notte si confondono e il tempo inizia a perdere di significato.
Passano gli anni.
Quindici anni.
Oldboy è il dramma di un uomo la cui vita viene sconvolta, privata di tutti gli affetti, un doloroso intreccio di amore e vendetta che, proprio quando ci dà l’impressione di allentarsi, ecco che si tende nuovamente spezzandoci il fiato.
E' la messa in scena dell'incapacità al perdono, dell'ossessione per un regolamento di conti che porterà solo altro male.
Il celebre critico cinematografico Roger Ebert su Oldboy:
"Powerful film not because of what it depicts, but because of the depths of the human heart which it strips bare.".
Film potente non per ciò che ritrae, ma per i meandri del cuore umano che mette a nudo.
Categorizzarlo come thriller non è certo sbagliato ma risulta riduttivo in quanto l’originalità di Oldboy risiede anche nel presentare elementi tipici del Cinema noir, dei film d’azione, del genere pulp con pennellate di splatter non indifferenti.
Di pari passo, le musiche seguono questo mix di generi andando dalla classica, passando dall'elettronica, fino anche a regalarci un maestoso valtzer.
Oldboy, diretto da Park Chan-wook (I’m a Cyborg, but That’s OK, Mademoiselle), è il secondo film della cosiddetta Trilogia della Vendetta, preceduto da Mr. Vendetta (Sympathy for Mr. Vengeance) e seguito da Lady Vendetta (Lady Vengeance).
Arrivato ad essere il più famoso dei tre anche grazie alla vittoria del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival del Cinema di Cannes nel 2004 (che quell'anno vedeva presidente di giuria un Quentin Tarantino a cui non poteva non piacere un film del genere) è uno dei film degli anni 2000 assolutamente da non perdere.
[a cura di Morena Falcone]
Posizione 4
In the Mood for Love
Wong Kar-Wai, 2000
"Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare; e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto."
In the Mood for Love è un'opera che vive costantemente di indefinitezza, di frammenti e dissolvenze, sia visive che di scrittura; il film stesso non è altro che una sensazione pervasiva di sentimento, incerto e distante e così vivido e presente.
I lunghi rallentamenti, gli incontri casuali per le affollate e strette strade di Hong Kong, i dialoghi essenziali e appena accennati, la volontaria costrizione interiore alla quale si sottopongono i personaggi, il loro desiderio e i loro dubbi vanno a ricostruire il mood del titolo, ulteriormente valorizzato dalla sapiente scelta delle musiche di sottofondo che accompagnano il racconto nei diversi momenti della narrazione (elemento, questo, del resto quasi fondativo della poetica di Wong Kar-Wai, sin dai tempi del grandioso Hong Kong Express).
La trama è molto semplice: si tratta della storia di due persone che hanno scoperto il vicendevole tradimento da parte dei propri coniugi.
Eppure proprio questa circostanza frena la loro reciproca attrazione, e vivono una relazione che è costantemente in bilico tra la volontà di evolversi e la paura di perdersi, nel timore di risultare sconveniente, di essere intimamente riparatoria, non spontanea.
Attraverso questo filtro possiamo osservare i loro comportamenti, le loro emozioni, il loro sentire, mentre ripetono le frasi che i loro consorti potrebbero aver detto, e le azioni che potrebbero aver fatto, vivendole come un gioco, come una catarsi, ma anche come un’esperienza originale.
È la passione che cerca di vivere, di risultare accettabile, nella costante paura di non esserlo: nessuno dei due sa come dire all’altro che, quella sera, a casa non ci vuole ritornare.
Insieme si ritrovano spesso, lontano da occhi indiscreti, in una stanza d’albergo, la 2046, per scrivere un romanzo.
2046 sarà anche il titolo del seguito spirituale di questo film, nel quale il protagonista cercherà nella memoria, nelle altre donne, nel sogno, nella scrittura, la donna di questo film – l’unica di cui sia mai stato innamorato.
È da ricordare che tra i due non succede mai nulla, e in questo senso è interessante notare come questo sia un film d’amore senza però alcuna scena che si muova in questa esplicita direzione, neppure in maniera vaga.
È proprio in questo sentimento sotterraneo e mai veramente mostrato nel film che siamo capaci di cogliere il tormento dei due protagonisti, che a fasi alterne si cercano senza mai trovarsi, mancando sempre per poco il tempo dell’altro.
D’altra parte, come poi verrà detto in 2046,
"In un’altra epoca, in un tempo diverso, la nostra storia sarebbe stata diversa."
[A cura di Simone Braca]
Posizione 3
Dogville
Lars von Trier, 2003
È un'umanità che mostra la sua vera natura, quella di Dogville.
A chi l'ha accusato di eccessivo cinismo, di misantropia, di catastrofismo, si potrebbe rispondere: è l'umanità, in tutte le sue fragilità e le sue debolezze.
Il paesino di Dogville, in cui è ambientata tutta la vicenda, è il palco teatrale dalla scenografia estremamente minimalista in cui possiamo trovare qualsiasi villaggio primitivo, paesello contadino o metropoli industriale.
La comunità deve fronteggiare, per la prima volta, l'arrivo del Diverso, impersonato da una ragazza di nome Grace.
C'è chi vuole accoglierla e integrarla, interpretando il suo arrivo come il simbolo di una possibile crescita morale, c'è chi apertamente si dichiara contrario, impaurito dalla minaccia dell'ignoto che viene dall'esterno.
La presenza di Grace inizia a far emergere tutti i problemi latenti della comunità, che arriverà a mostrare il suo lato più oscuro e violento.
Lars von Trier, come nei suoi film precedenti, ci mostra la sua visione dell'essere umano, spogliata di tutti i filtri che la civiltà ha costruito e rivelata nella sua nudità.
L'istinto di sopravvivenza è ciò che la porta ad annichilire il prossimo, approfittandosene per un proprio tornaconto.
Homo homini lupus è il motore che alimenta Dogville e i suoi abitanti, senza nessuna eccezione.
L'anziano, la madre di famiglia e il bambino sono proprio quelli che si accaniscono nella maniera più crudele nei confronti del prossimo, mostrando come il male non sia soltanto una costruzione della società, ma una presenza originaria nell'animo umano, pronta ad emergere non appena si presenta l'occasione.
Con Dogville, Lars von Trier non sembra volerci concedere nessuna speranza.
Ci lascia spiazzati, inorriditi e sgomenti di fronte alla crudeltà gratuita delle azioni dei personaggi.
Ci fa ripensare il concetto stesso di umanità, ribaltandone il significato e mostrandone il lato peggiore.
Ci sbatte in faccia la sua realtà senza filtri, con una violenza emotiva dolorosa, utilizzando una fiaba allegorica postmoderna che ci spinge a riflettere sulla natura dell'umanità e sul suo legame indissolubile con il Male.
[a cura di Simone Colistra]
Posizione 2
Il Petroliere
Paul Thomas Anderson, 2007
5 anni dopo la parentesi più smaccatamente votata alla commedia di Ubriaco d'amore Paul Thomas Anderson torna al dramma - velato comunque da sprazzi di humor - e all'attacco frontale nei confronti del capitalismo nordamericano e del dollaro come principale scopo nella vita, temi che da sempre hanno caratterizzato la sua filmografia.
Il Petroliere, tratto liberamente dal romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, mette al centro del proprio racconto la figura di Daniel Plainview e la sua ascesa nel mondo dei giacimenti petroliferi a cavallo tra il XIX e XX secolo.
Un mastodontico Daniel Day-Lewis (ma è mai stato qualcosa di diverso dal mastodontico?) incarna in un unico personaggio l'ambizione e l'avidità, la grettezza e la furbizia, l'abnegazione e il sacrificio: il sogno americano di chi si fa da solo trova in Plainview un perfetto esponente che mette a nudo tutte le contraddizioni e le storture del sistema che mette al centro il capitale.
Anderson dosa i tempi fin dalle prime immagini del film, che sembra essere costruito per uscire dal binario del tempo reale e collocarsi in un tempo cinematografico: il petroliere inizia dal basso, dalle viscere, dalla terra e dal fango ed è solo grazie al colore e all'aspect ratio che ci rendiamo conto che si tratta di un film contemporaneo; fotografia, regia e montaggio ci riportano indietro di un secolo, a quel Cinema che i coevi di Plainview stavano per scoprire.
Il petroliere inizia con i tempi del Cinema muto dove ogni azione è racconto, dove ogni espressione è dialogo.
Al potere del dio denaro Anderson contrappone un'altra divinità, quella cristiana: il prete impersonato da Paul Dano - qui in un doppio splendido ruolo che sottolinea la dualità dell'animo umano - si scontra con Plainview e la cosa si trascinerà segnando i destini di entrambi.
Gli USA sono ritratti con ferocia, e non è un caso se alla base di tutto ci sia proprio un elemento che ancora oggi governa il mondo: il cosiddetto Oro Nero, in grado di accendere guerre internazionali, capace di modificare gli equilibri delle economie mondiali e di distruggere irrimediabilmente le bellezze naturali in caso di incidente.
E gli incidenti ne Il Petroliere sono all'ordine del giorno, colpiscono gli uomini e le città, in quel mondo che non aveva sicurezze né riteneva importante averne, focalizzato sul lavoro e sullo sfruttamento del prossimo nel nome di una ricchezza che non a tutti era garantita.
Impossibile non restare ipnotizzati dal protagonista e dal suo incedere rapace, dal suo accento così marcato e da quella luce sinistra nel suo sguardo: ci attrae ma ci ripugna, invidiamo la sua fortuna ma mai vorremmo essere nei suoi panni.
A un certo punto pensiamo addirittura che abbia un cuore, ma ci rendiamo presto conto che si trattava solo di una bugia che raccontava a noi, agli altri, ma mai a se stesso perché calcolatore fin da subito: ogni mossa è pensata per raggiungere il successo.
E il successo conquistato terreno dopo terreno, paese dopo paese, è tristemente materiale e non permette pause nemmeno per commuoversi, perché chi ti tallona potrebbe sorpassarti e in quel sistema la concorrenza non deve semplicemente arrancare, ma soccombere.
La fotografia da Oscar di Robert Elswit e la colonna sonora di Jonny Greenwood contribuiscono a rendere Il petroliere uno dei film più riusciti e più importanti del suo decennio, e molto probabilmente uno dei migliori film di Hollywood del secolo attuale.
Il titolo originale There Will be Blood suggerisce un percorso inevitabile, che PT Anderson non ha nessuna intenzione di addolcire.
Per fortuna.
[a cura di Teo Youssoufian]
Posizione 1
Mulholland Drive
David Lynch, 2001
"Silencio... No hay banda.
È tutto registrato.
È tutto un nastro.
È solo un'illusione."
All'interno di queste poche parole pronunciate all'interno dell'iconica scena del Club Silencio si nasconde l'essenza stessa di Mulholland Drive.
La nona pellicola di David Lynch esplora il doppio, l'illusione dei nostri sensi e la disillusione nei confronti della realtà, il nostro rapporto con i sogni e con gli incubi, la materializzazione delle nostre paure, i desideri più nascosti, gli istinti primoridiali, l' esaltazione e l'annullamento dell'ego, e ovviamente scandaglia gli aspetti più oscuri del Cinema.
Mulholland Drive, però, non si ferma qui: va ancora oltre.
Già Prix de la mise en scène (ex aequo con L'uomo che non c'era) al Festival di Cinema di Cannes del 2001 e già situata al primo posto della classifica stilata nel 2016 dalla BBC sui migliori film del XXI secolo, Mulholland Drive è, per noi di CineFacts.it, la più importante pellicola del primo decennio degli anni 2000.
E lo è proprio per la sua capacità di mostrarci i chiaroscuri della vita, di costringerci a interrogarci su ciò che c'è oltre l'apparenza, di portarci anche oltre il suo stesso medium: il Cinema.
Mulholland Drive,dal punto di vista etimologico, è pienamente aderente all'essenza più pura di meta-cinematografia.
Un'opera d'arte che va oltre l'idea stessa del Cinema da ogni punto di vista: è oltre il concetto di pellicola grazie alla sua potenza metacinematografica che ci trasporta all'interno dei lati oscuri di un'industria attraverso lo sguardo visionario del suo regista, ma è anche oltre la concezione ordinaria di film grazie alla sua struttura, che ci permette di poter scorgere tanti inizi diversi al suo interno, uno dei quali addirittura situato ben prima dei titoli di testa.
Mulholland Drive è oltre il Cinema perché è un'opera d'arte nella quale confluisce tutta la potenza onirica della poetica di David Lynch, un artista tout-court che ha dedicato la propria intera carriera all'esplorazione dei meandri della mente umana, alla ricerca sensoriale e alla deformazione dei contorni della reale.
E uso il termine artistaper scelta, perché in Mulholland Drive convergono e si bilanciano perfettamente le numerose anime dell'autore di Missoula: dal suo spiccatissimo talento pittorico rintracciabile nella forza delle composizioni, alla profondità surreale della scrittura e nella sapienza della regia.
Un bilanciamento che si perfeziona grazie all'abilità di Lynch di dar fondo a tutti i mezzi e gli espedienti narrativi propri della Settima Arte: l'uso magistrale di MacGuffin e jumpscare, la forza di osare in fase di montaggio e la continua deformazione delle sensazioni dello spettatore ottenuta grazie alla colonna sonora.
Un appunto speciale lo meritano la direzione degli attori e la scrittura dei personaggi: Naomi Watts, Laura Harring e Justin Theroux devono le loro intere carriere ai ruoli meravigliosi che interpretano in quest'opera, ma anche i personaggi secondari risultano memorabili e fortemente impressi nella memoria degli spettatori.
In particolare Naomi Watts ci regala quella che è ancora oggi, con ogni probabilità, la miglior prova della sua meravigliosa carriera.
Se a distanza di quasi vent'anni Mulholland Drive riesce ancora a toccarci nel profondo e a generare in noi quell'inquietante senso di fascinazione è proprio grazie alla sua capacità di fondere tutti questi elementi, continuando comunque ad avere degli angoli oscuri che si prestano a una nuova esplorazione.
Mulholland Drive continua a dirci che ogni lettura può prestarsi a più inquadramenti, che ogni sensazione può essere un'illusione, che c'è sempre un'ulteriore interpretazione.
Uò, ho visto solo Adaptation (Il ladro di orchidee, nella mia top10)
e Dancer In The Dark, che ho amato, quindi STIMA. Grazie per la lista di prossimi film che devo recuperare.
sicuramente ha diviso il pubblico, mi ritrovo d'accordo con te. Bellissimo film Il petroliere, ma non rientra nella mia top10. (Davvero difficile fare una top10 comunque.)
Be', hemm...
Amo sicuramente il film, ero arrivata a saperlo doppiare dall'inizio alla fine.
Per la canzone diciamo che quella c'era, me la facevo andare bene e si adattava anche non male al film ma...non mi sarei offesa se ci fosse stato altro! 😅
😂 magari! Dei 92 totali ne avrò visti più o meno la metà. Dei tuoi quello che mi incuriosisce di più è La pianista, che non avevo mai sentito nominare prima, ma che mi sembra molto interessante
Fra
4 anni fa
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Francesco Broccoli
4 anni fa
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Marta Savastano
4 anni fa
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Lenù
4 anni fa
e Dancer In The Dark, che ho amato, quindi STIMA. Grazie per la lista di prossimi film che devo recuperare.
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Lenù
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Lenù
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Lenù
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Adriano Meis
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Marta Savastano
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Morena Falcone
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Morena Falcone
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Francesco Broccoli
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Morena Falcone
4 anni fa
Amo sicuramente il film, ero arrivata a saperlo doppiare dall'inizio alla fine.
Per la canzone diciamo che quella c'era, me la facevo andare bene e si adattava anche non male al film ma...non mi sarei offesa se ci fosse stato altro! 😅
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Francesco Broccoli
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Morena Falcone
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Adriano Meis
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Benito Sgarlato
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Adriano Meis
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Pierluca Parise
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