8 registi esplosi artisticamente nell'ultimo decennio
Scopriamo i registi che hanno saputo costruirsi, annata dopo annata, film dopo film, un ruolo da protagonisti della scena cinematografica mondiale di questi ultimi dieci anni
La fine di un decennio cinematografico, la redazione di CineFacts.it lo sa bene, porta con sé una lunga serie di riflessioni sullo stato e sulla salute del Cinema; su come il suo rapporto con il pubblico si sia evoluto; su come siano cambiate le abitudini dello spettatore; su quali siano i film realizzati in quest’arco temporale che verranno maggiormente ricordati; e, aspetto che ci interessa ora per questa Top 8, su quali siano i registi esplosi artisticamente e giunti al successo internazionale negli ultimi anni.
Non si tratta di registi che hanno necessariamente esordito nell’arco del decennio in questione ma di coloro che, pur avendo iniziato la propria carriera nel mondo del Cinema qualche anno prima del 2010, hanno realizzato le loro principali e più celebri opere, ad oggi, esclusivamente nel corso degli ultimi dieci anni.
Cosa che li pone sotto la lente di ingrandimento per il decennio a venire e che li rende soprattutto registi già affermati, probabilmente all’apice della loro carriera e tra i migliori in circolazione, proprio grazie ai titoli da loro diretti in quest’ultima decade (ignorando quindi eventuali altre opere realizzate nel decennio precedente).
[The Tree of Life di Terrence Malick è il miglior film del decennio secondo la redazione di CineFacts.it]
Se in quel caso, infatti, il perimetro da considerare era evidentemente quello dei film, al di là dei nomi e dell’età di chi li ha diretti (e infatti in quella Top potete trovare film diretti da registi over 60 come da altri under 40), per la stesura di questa lista, invece, l’accento viene inevitabilmente posto sui quei registi che hanno saputo costruirsi, annata dopo annata, film dopo film, un ruolo da assoluti protagonisti della scena cinematografica mondiale di questi ultimi dieci anni.
Non deve sorprendere, quindi, se i film diretti da questi otto registi lungo il decennio 2010-2019 coincidano, quasi totalmente, con le rispettive filmografie.
Definire i registi esplosi artisticamente in questa fase non vuol dire solo considerare un perimetro ristretto - in media, un regista realizza tre, massimo quattro film lungo un periodo di dieci anni - ma significa soprattutto escludere tutta una serie di registi, anche celeberrimi, che pur avendo diretto opere di inestimabile valore nel decennio che sta per concludersi, sono in realtà nati artisticamente nei decenni precedenti - anni ’90 o 2000 - con opere altrettanto celebri e importanti, e che per questo non potrebbero trovare spazio in questa sede.
Questo fa sì che Malick, che è attivo da circa quarant’anni e che ha diretto capolavori in decenni diversi, anche prima del 2010 (La rabbia giovane nel 1973 e La sottile linea rossa nel 1998, per dirne due), possieda quei requisiti fondamentali per essere preso in considerazione in questa particolare classifica?
No, naturalmente.
Lo stesso discorso vale anche per Lars von Trier, che ha esordito nel 1984 e ha conquistato quello che è ad oggi il premio più importante della sua carriera nel 2000, la Palma d’oro al Festival del Cinema di Cannes con il film Dancer in the Dark.
[Parasite di Bong Joon-ho è il miglior film del 2019 secondo la redazione di Cinefacts.it]
La stessa cosa vale per l’americano Richard Linklater, che nel decennio corrente ha realizzato il clamoroso Boyhood ma che già negli anni ’90 aveva diretto alcuni dei suoi titoli più celebri, come La vita è un sogno e Before Sunrise - Prima dell’alba, primo capitolo della delicata trilogia sull’amore con Ethan Hawke e Julie Delpy.
E vale per il russo Aleksandr Sokurov (chi non ha amato il piano sequenza di Arca Russa, del 2002?).
E per il francese Jacques Audiard, la cui definitiva consacrazione era avvenuta già nel 2009, grazie al capolavoro Il profeta, vincitore del Grand Prix Speciale al Festival di Cannes e di ben nove premi César in patria.
Vale anche per i messicani Alejandro González Iñárritu e Alfonso Cuarón.
La loro assenza potrebbe forse sorprendere, considerando anche che sono entrambi recenti pluri-vincitori agli Oscar (con Birdmane Revenant - Redivivo il primo, con Gravity e Romail secondo), ma ho scelto di dar spazio a quei registi che si sono fatti conoscere al mondo proprio nel corso del decennio.
Iñárritu e Cuarón, invece, già negli anni 2000 potevano vantare opere autoriali di pregevole valore (Amores Perros il primo, I figli degli uomini il secondo), che hanno permesso loro di vincere i primi premi della carriera (ricordiamo che nel 2007 Iñárritu trionfò ai Golden Globe nella sezione Miglior Film Drammatico con Babel).
E così per molti altri.
[Il tris di messicani: Alejandro G. Iñárritu, Guillermo del Toro, Alfonso Cuarón: tra i principali trionfatori alle edizioni degli Oscar degli ultimi anni]
A maggior ragione, non credo occorra spiegare l’assenza dei mostri sacri e grandi maestri ancora in attività, quali Martin Scorsese, Steven Spielberg, i fratelli Coen, Clint Eastwood, Michael Mann, David Lynch, il già citato Malick.
E lo stesso Quentin Tarantino, che quest’anno ha ulteriormente impreziosito la sua già straordinaria carriera, iniziata nel 1992, con C’era una volta a… Hollywood.
E non aspettatevi nemmeno di trovare Christopher Nolan e Paul Thomas Anderson: due cineasti che hanno esordito tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000, ora all’apice di fama e bravura ma che si sono presentati all’inizio del decennio 2010-2019 con un’aura già definita e con diversi riconoscimenti in bacheca, sia da parte del pubblico che della critica.
Una posizione in una Top 8 come questa, probabilmente, sarebbe stata stretta a entrambi.
I successivi film diretti nel decennio corrente, come The Master e Il filo nascosto (capolavori assoluti e in generale, per me, tra i migliori dieci-venti film del nuovo secolo) nel caso di P.T. Anderson, o come Inception, Interstellar e Dunkirk nel caso di Nolan, non hanno fatto altro che stigmatizzare ancora di più, se ce ne fosse bisogno, la grandezza artistica e l’originalità dei loro rispettivi registi.
È certamente merito anche di questi ultimi titoli, se oggi Nolan e Anderson sono due nomi talmente sacri da far drizzare le antenne ai cinefili di tutto il mondo, in occasione degli annunci di ogni loro nuova opera (come sta accadendo anche per Tenet, in uscita nel 2020).
Se questa fosse una Top sui migliori registi ad oggi in circolazione in termini assoluti, tra quelli under 50, probabilmente si giocherebbero entrambi il gradino più alto del podio.
E dietro di loro, sono certo che non sfigurerebbero nemmeno tre-quattro nomi inseriti in questa Top che siete in procinto di scoprire...
Ma la classifica che sto presentando qui nasce con un’esigenza diversa: quella di rendere omaggio ai quei registi che sono stati in grado solo negli ultimi dieci anni, vuoi per motivi anagrafici (alcuni di loro sono giovanissimi), vuoi per una “tarda” maturità artistica raggiunta - tarda rispetto alla loro età, naturalmente - di entrare nell’Olimpo dei migliori registi del mondo, grazie a una serie di opere concentrate, esclusivamente o quasi, nel lasso temporale 2010-2019.
Nello scrivere “una serie di opere”, chiarisco indirettamente un altro fattore di cui ho tenuto conto nello stilare la lista: aver diretto almeno due film importanti nell’arco dei dieci anni.
Sorry, Leos Carax.
Tutti e otto i registi che ho scelto per questa Top hanno in verità esordito prima del 2010, ma con dei titoli che perderebbero il confronto con quelli realizzati nel corso del decennio che sta per concludersi, garantendo così la legittimazione a figurare nella classifica finale, in ragione della loro piena esplosione artistica avvenuta prevalentemente negli ultimi anni.
Ci tengo infine a fornire due anticipazioni, che non solo disvelano i miei gusti, ma che credo possano anche dire molto sul Cinema contemporaneo in generale.
La prima è che nella classifica è presente soltanto un regista di nazionalità statunitense - fuori dal podio, tra l’altro.
Questo si spiega, da una parte, con il personale desiderio di voler dar spazio a registi aventi tutti nazionalità diverse (per una questione di giustizia), dall’altra, con gli oggettivi cambiamenti che hanno interessato Hollywood in questa decade, con il definitivo affermarsi delle piattaforme streaming e degli universi espansi (MCU in primis) e il trionfo a tinte coloniali della Walt Disney Company, assoluta mattatrice del Cinema d’intrattenimento del decennio e indiscussa regina nei box-office di tutto il mondo.
Questi fattori hanno portato le varie major a uniformare la propria offerta, tentando spesso di seguire e copiare il modello Disney, e le piccole-medie case di produzione americane, quali ad esempio A24, Annapurna e Blumhouse, a utilizzare ancor di più rispetto al passato le finestre dei vari festival (Cannes, Venezia e Berlino su tutti) per far emergere i propri gioielli autoriali nel gigantesco mare della serialità.
Se questo, da una parte, non può che far del bene al Cinema contemporaneo, per l’offerta variegata e il generoso numero di titoli portatori di aria fresca, dall’altra, non può che rendere più ardua l’identificazione di un singolo nome, in particolare, che possa ergersi sopra gli altri in modo inoppugnabile.
Da segnalare, a questo proposito, l’esordio di molti giovani registi, più o meno di pari valore, che nel genere horror (in evidente ripresa, rispetto al decennio 2000-2009) hanno trovato il terreno perfetto per dimostrare le propri doti artistiche.
Jordan Peele (Scappa - Get Out, Noi); tutti nomi esclusi a malincuore dalla Top.
Non me ne vogliano gli appassionati del genere, se fosse stata una Top 20 sarebbe stato certamente più semplice inserire alcuni di loro.
[Jordan Peele, vincitore dell'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, edizione 2018, per l'horror satirico Scappa - Get Out]
La seconda anticipazione riguarda la triste assenza di nomi italiani.
Pensiamo ai migliori film italiani del decennio: troverebbero sicuramente spazio La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, Dogman di Matteo Garrone e Il Traditore di Marco Bellocchio.
Film grandiosi, ma diretti da registi che non si può certo dire siano esplosi artisticamente negli ultimi anni: Sorrentino aveva già ricevuto nomination e premi nella prima decade del 2000, grazie a titoli quali Le conseguenze dell’amore e Il Divo; Garrone veniva premiato nel 2008 con la Palma d’Oro a Cannes con il suo capolavoro Gomorra; e credo non sia necessario disquisire sulla lunga carriera di Marco Bellocchio, che ha esordito nel lontano 1965 con il potenteI pugni in tasca.
Questo dato ci dice molto non sullo stato di salute del nostro Cinema (buono, nonostante tutto), bensì su un ricambio generazionale che dietro la macchina da presa fatica ancora a compiersi.
Uno specchio dell’Italia intera, insomma.
[Paolo Sorrentino, Nanni Moretti, Matteo Garrone: i tre registi italiani contemporanei attualmente più conosciuti e apprezzati all'estero]
Gli ultimi anni hanno visto sì l’esordio di giovani talentuosi registi, ma meno di quelli che speravamo, soprattutto se si fa un confronto con gli altri paesi europei (come la Francia).
Si consideri ad esempio Lo chiamavano Jeeg Robot: un gioiello assoluto made in Italy, ma che, concorderete con me, non può costituire, da solo, un motivo valido per includere il nome del suo regista, Gabriele Mainetti, in una Top 8 come questa.
Un regista italiano che invece avrebbe meritato un posto è Luca Guadagnino, che ha raggiunto il successo internazionale proprio nelle ultime due stagioni, con il bellissimo dramma sentimentale Chiamami col tuo nome e il riuscito remake di Suspiria (che ha pure trovato spazio nella Top 8 sui Migliori Film del 2019 secondo la redazione).
Perché quindi non leggerete il nome di Guadagnino in questa lista, visto che rispetta tutte le “regole” che mi sono imposto?
Per puro gusto personale, molto sinceramente.
È lo stesso motivo per cui non ho inserito altri amati registi degli ultimi anni, come il danese Nicolas Winding Refn (Drive, The Neon Demon) e il canadese Xavier Dolan (Mommy).
[The Act of Killing, bellissimo film di denuncia sulla purga anticomunista avvenuta in Indonesia negli anni '60]
Provo invece sommo dispiacere per l’esclusione dello straordinario documentarista Joshua Oppenheimer (The Act of Killing, The Look of Silence), non entrato in classifica per un soffio.
È una Top 8: è naturale dover fare delle scelte, anche dolorose, ed escludere così nomi importanti, ma che meritano comunque menzione.
Questa lunga introduzione era fondamentale, sia per chiarire meglio i criteri utilizzati per selezionare i registi, sia per anticipare risposte a eventuali vostri dubbi in merito.
Come tutte le classifiche, anche questa va presa alla leggera, come un gioco, senza però dimenticare che, se fatte con lucidità e valide argomentazioni a sostegno (e mi piace pensare che quelle di CineFacts.it lo siano), tutte le classifiche cinematografiche svolgono comunque una funzione fondamentale, quella cioè di definire, seppur in maniera sintetica e sistematica, dei punti fermi, nell’ambito della complessa critica cinematografica, anch’essa in continua evoluzione, fuori e dentro i social network.
In questa mia Top 8 troverete probabilmente nomi che non vi aspettavate sarebbero stati considerati, magari perché poco noti (perché ancora poco esplorati dal grande pubblico); ugualmente, non troverete nomi che magari vi aspettavate sarebbero stati inseriti.
Ma questo è il bello (e il brutto) di tutte le Top, che siano di redazione o meno.
Ecco la classifica: scopritela, tenendo conto di quanto spiegato finora.
1 di 8
Posizione 8
Paweł Aleksander Pawlikowski
Polonia, 1957
Il primo dei tre europei presenti nella Top; il più anziano e, probabilmente, il meno conosciuto.
Appena due film importanti diretti nel decennio (su un totale di tre), ma entrambi di una bellezza disarmante, realizzati in un malinconico bianco e nero, una scelta adottata sempre più spesso nel Cinema europeo autoriale degli ultimi anni.
La prima opera è Ida, del 2013, vincitrice dell’Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera, del BAFTA come Miglior Film in Lingua Straniera e di ben 5 European Film Awards (tra cui Miglior Film e Miglior Regia).
Ida è il vero nome di Anna, una giovane orfana ebrea prossima a prendere i voti: l’incontro con una sua vecchia zia, unica sua parente in vita, le farà perdere tutte le certezze oltre a farle scoprire i piaceri della vita fuori dal convento.
Esemplare racconto di formazione, Ida è il primo film di Pawlikoski a mostrare al mondo il suo incredibile rigore della messa in scena, paragonabile forse a quello di Robert Bresson.
La ricerca dell’inquadratura perfetta, l’assenza di una qualsivoglia spettacolarizzazione del dolore, i lunghi silenzi, sono tutte caratteristiche che ritroviamo anche nel successivo capolavoro della sua ristretta filmografia, Cold War, del 2018, straordinario dramma sentimentale ambientato nell’Europa avvolta dalla cortina di ferro.
Lungo un arco temporale di circa dieci anni, il film racconta l’amore maledetto tra due artisti polacchi, Zula e Viktor, separati prima da ideologie politiche (siamo in piena guerra fredda, come suggerisce il titolo), poi da diverse aspirazioni di carriera, infine da gelosie e contrasti di coppia.
Riusciranno a unirsi solo alla fine, ma a un prezzo troppo alto.
Vincitore del premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2018 e nominato a tre premi Oscar (tra cui quello a Miglior regista, il primo in assoluto nella categoria per Pawlikoswki), Cold War coinvolge lo spettatore e lo rende partecipe delle vicende drammatiche dei protagonisti in appena 85 minuti: una rarità, di questi tempi.
Coraggiosa anche la scelta di adottare un aspect ratio di 4:3 com’era d’uso nel Cinema muto, finalizzato a rendere ancora più opprimente lo spazio dei due amanti, in costante balìa di eventi esterni.
Kore'eda è l’unico regista della Top su cui ho tentennato.
Non perché non riconoscessi le sue indubbie capacità registiche, ma per il fatto di aver esordito nel lontano 1995.
Presso il grande pubblico, è un nome che potrebbe dire poco; ma gli amanti del Cinema nipponico non lo scopriranno di certo oggi.
Riporto, a tal proposito, un commento della redattrice Lorenza Guerra, che a proposito di Kore'eda scriveva qualche tempo fa:
“Il Cinema di Kore'eda è molto delicato.
È un Cinema delle piccole cose, della quotidianità, familiare, in cui possiamo vedere la cultura giapponese più radicata, quella dei lunghi silenzi e dell'ineluttabilità, ma anche in quante cose si è simili in tutto il mondo.
A differenza di Ozu, del quale Koreeda è senza dubbio l'erede più diretto, in molti casi viene dato risalto ad alcuni temi più forti, come ad esempio l'approccio al lutto (la trilogia Maborosi-Wandafuru Raifu-Distance), la disumanità del più forte sul più ingenuo (Air Doll), la vera tragedia dell'abbandono (Nobody Knows)”.
È però indubbio che la sua esplosione a livello internazionale sia avvenuta solo negli ultimi dieci anni, grazie a titoli quali Father and Son (2013), Little Sister (2015), Ritratto di famiglia con tempesta (2016), Il terzo omicidio (2017) e, soprattutto, Un affare di famiglia (2017): capolavoro premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes e nominato agli Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera.
Le riflessioni sul nucleo familiare, già presenti in alcuni titoli precedenti (come il già citato Father and Son) trovano qui la massima esplicitazione, attraverso un racconto malinconico e agrodolce, in cui il senso della famiglia, in quanto istituzione, viene svuotato totalmente del suo significato letterale, lasciando spazio a un’idea talmente semplice, da risultare oggi rivoluzionaria: si diventa famiglia per scelta, non per linee di sangue.
Nell’ambito della nuova scuola cinematografica d’oltralpe, che ormai da anni sforna il miglior Cinema del vecchio continente, un posto d’onore è riservato al franco-tunisino Abdellatif Kechiche, straordinario cantore dei drammi adolescenziali, fervido ricercatore dell’autentico e abile maestro nel dar forma ai sentimenti più puri.
Celebratore dell’amore senza alcuna distinzione di genere, Kechiche utilizza l’occhio della macchina da presa per fotografare una realtà complessa ed eterogenea, e ricreare le dinamiche adolescenziali senza cadere nella trappola dello stereotipo.
Quello del regista è uno dei più fulgidi esempi di un nuovo tipo di Cinema che punta tutto sul dare fattezze autentiche e realistiche ai personaggi e alle storie che li riguardano.
La schivata, straordinario film del 2003, è solo il primo tassello di un percorso di estremo realismo che il regista continuerà, con ancor più convinzione e bravura, nel decennio 2010-2019.
Una maturità artistica raggiunta nel 2013, in quello che è probabilmente il capolavoro della sua carriera, La vita di Adele.
Il film, meritata Palma d’oro al Festival di Cannes, racconta la scoperta dell’amore – e di sé – di Adele, giovane quindicenne che si invaghisce di un’estrosa ragazza dai capelli blu, Emma.
Il sentimento impetuoso che ne scaturisce offre a Kechiche l’occasione per indagare il percorso verso l’età adulta e la maturità, che non può che passare attraverso l’esperienza dell’amore vero.
Quello che provano le due donne, riprese dal regista con un naturalismo esasperato in una delle più lunghe (e già celebri) scene di sesso del Cinema contemporaneo.
I critici e cinefili più ingenerosi hanno contestato l’eccessiva lunghezza dell’amplesso, sottolineandone l’inutilità, oltre che una buona dose di morbosità.
Io credo semplicemente sia stato un modo come un altro per impressionare l’autenticità di un momento intimo, riprendendo due amanti che si abbandonano alla passione più sfrenata, come se intorno non vi fossero telecamere o spettatori.
Ne La vita di Adele il sesso non è mostrato per eccitare o far discutere, ma per essere esplorato con gli occhi dell’autenticità, in tutta la sua manifestazione.
Il non indietreggiare davanti alla vita è da sempre la qualità principale del regista franco-tunisino.
Una qualità che uscirà fuori in tutta la sua genuinità anche nei successivi Mektoub, My Love: Canto Uno del 2017 e Mektoub, My Love: Intermezzo del 2019, fluviali capitoli di una trilogia sull’amore ambientata in Costa Azzurra negli anni '90, dove sono ancora una volta i giovani protagonisti a dettare i tempi della narrazione, senza che Kechiche, spettatore silente, intervenga per censurare o interrompere.
La scelta di lasciar scorrere gli eventi, unitamente alla resa autentica dei sentimenti, contribuisce a raffigurare le opere del regista francese come dei veri e propri inni.
Nella scelta di un rappresentante del Cinema statunitense di qualità di quest’ultimo decennio mi sono trovato davanti a un dilemma dovuto non alla mancanza di nomi validi, quanto piuttosto alle argomentazioni che avrei dovuto presentare per aver scelto un determinato regista invece che un altro - si veda quanto scritto nella seconda parte dell’introduzione, a proposito dell'eterogeneità di titoli e registi diversi.
Alla fine, ho optato per l’enfant prodigeDamien Chazelle.
Non è stata la vittoria all’Oscar per la Miglior Regia nel 2017 per La La Land a convincermi - che pure non è poco, visto che ha reso Chazelle il più giovane regista di sempre ad aver vinto la statuetta - quanto la sua capacità di dirigere tre film straordinari in così poco tempo, appartenenti a generi diversi, ma accomunati da un’attenzione smisurata per i dettagli e per la tecnica da far invidia anche a registi più anziani.
Nelle tre opere del decennio di Chazelle (il cui vero esordio, specifichiamolo, risale al 2009) emerge con chiarezza la volontà di raccontare il sottile confine che intercorre tra passione e ossessione, facendo emergere i timori e le frustrazioni di uomini e donne comuni.
Se in La La Land i sogni di Mia e Seb di diventare artisti di successo a Los Angeles vengono messi in scena attraverso uno sguardo dolce e leggero, complice anche la formula narrativa adottata, quella del musical, in Whiplash e First Man l’introspezione psicologica dei due protagonisti emerge con ancor più durezza.
Lo spirito tormentato di Andrew Neiman e di Neil Armstrong affiora attraverso la resa realistica delle immagini: così come in Whiplash la macchina da presa indugiava sul sangue del batterista, sulle sue bacchette, sulle sue dita, sulle sue smorfie di dolore e fatica, in First Man sono i bulloni, gli interruttori e gli strumenti artigianali delle cabine a riempire spesso le inquadrature.
Entrambi i titoli, raccontando storie di ossessioni che perseguitano i rispettivi protagonisti e che li spingono fino all’orlo di rottura, palesano il rigore della messa in scena del regista, per il modo in cui decide di accompagnare lo sguardo e i movimenti dei personaggi, schiacciati in una missione più grande di loro.
Nella breve ma già importante filmografia del regista americano emerge allora una morale chiara: tenendo bene a mente che nell’inseguire i propri sogni ci si possa scontrare svariate volte con la realtà, spesso più forte della perseveranza, se si desidera davvero raggiungere un traguardo nella vita, non ci dev’essere spazio né per l’indolenza, né tantomeno per la rassegnazione.
Whiplash, La La Land e First Man non sono indirizzati quindi solo a musicisti, attrici o aspiranti astronauti.
I mestieri, o presunti tali dei personaggi sullo schermo fungono solo da pretesto, per portarci a riflettere su qualcosa che dovrebbe interessare tutti noi: il sacrificio e il peso delle motivazioni.
Nel Cinema europeo dell’ultimo decennio sono emersi numerosi e talentuosi registi che si sono rivelati essere al passo coi tempi nel cercare di indagare temi attuali e questioni irrisolte dei propri paesi d’origine, realizzando quindi opere che, battendo strade nuove, costituissero anche ricognizioni storiche e sociali, senza preoccuparsi di utilizzare modelli narrativi e stilistici preesistenti.
Un tipo di operazione che può essere fatta senza troppi giri di parole, con crudezza e taglio documentaristico (come nel Cinema di Jacques Audiard, per esempio), oppure in maniera più velata e metaforica, come avviene ad esempio nel nuovo filone del Cinema autoriale greco, che nel contesto del dissesto finanziario che ha toccato tutti gli ambiti della società del paese, è riuscito a dar voce a una nuova generazione di artisti che attraverso le proprie opere, in questo caso cinematografiche, si sono fatti portatori dell’esigenza di parlare dell’oggi senza retorica o manierismi.
Nell’ambito di questa nuova onda, il regista greco che più di tutti ha saputo imporsi fuori dai confini nazionali, riuscendo a diventare un punto di riferimento anche per Hollywood, è Yorgos Lanthimos.
Quattro i film realizzati nel decennio: Alps (2011), ancora legato alla società e cultura greche, e i primi tre film della sua carriera diretti in lingua inglese, vale a dire The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017) e quello che ritengo essere ad oggi il suo film migliore: La favorita (2018).
Nominato in dieci categorie agli Oscar del 2019 (tra cui Miglior Film e Miglior Regia) e premiato con il meritatissimo Oscar perla Miglior Attrice Protagonista andato a Olivia Colman, quest’ultima anche vincitrice della Coppa Volpi a Venezia.
Quello che emerge con chiarezza nelle ultime opere del regista, Il sacrificio del cervo sacro e appunto La favorita, è il tentativo di riflettere sulle diverse forme di potere e il suo abuso.
Se con il primo titolo l’operazione avviene nelle forme di un horror quasi sovrannaturale, attraverso l’uso della violenza fisica e psicologica, è con il secondo che l’ingegno di Lanthimos si manifesta a pieno: utilizzando un contesto storico particolare - siamo nel primo '700 presso la corte della regina inglese Anna - e un tono decisamente più caustico e ironico, Lanthimos mette in scena la rappresentazione del potere più antico del mondo, quello del sesso e della seduzione.
I lunghi corridoi ripresi con continue carrellate a procedere e seguire, sia dell’ospedale dove opera il chirurgo Steven ne Il sacrificio del cervo sacro, sia del palazzo regale della regina Anna ne La favorita, non devono essere letti esclusivamente come omaggi di Lanthimos a Stanley Kubrick (le ispirazioni sono comunque cristalline), ma anche come un modo, l’ennesimo, per amplificare ancor di più il senso, ora di inquietudine, ora di straniamento, che costituisce da sempre un punto fermo nella visione pessimistica e crudele del regista greco, sin dalle origini.
Il biopic, tradizionalmente, è un genere che ha sempre avuto caratteristiche ben definite: una regia totalmente al servizio della star protagonista, una struttura narrativa rodata che si componeva di almeno tre momenti chiave - presentazione del personaggio da giovane, vicenda centrale, trionfo e/o morte dello stesso - e il predominio della trama, intesa nella sua accezione più tradizionale su tutto il resto.
Un genere di questo tipo, strutturato in tal senso, ha sempre corso due rischi: risultare troppo romanzato e sacrificare ogni componente del film in nome dell’esagerata chiarezza espositiva.
Il risultato si traduceva spesso con un racconto agiografico, che si prefiggeva come primo fine quello di accontentare lo spettatore, mostrandogli ciò che si aspetta e facilitandogli la fruizione.
A questo sono infatti riconducibili i difetti dei molti biopic tradizionali - incluso il recente, e a mio parere mediocre, Bohemian Rhapsody(2018) - per i quali la sceneggiatura è piegata alla volontà mistificatoria di mettere in scena le gesta del protagonista, con un’enfasi così marcata da renderlo come schiacciato dal peso della Storia.
Quella vera.
In quest’ottica, è encomiabile il lavoro svolto dal cileno Pablo Larraín nel tentativo di superare un’impostazione narrativa classica - in cui la biografia di un personaggio è affrontata dalla nascita fino alla morte, con il pilota automatico, senza sorprese e/o guizzi registici - e nella volontà di raccontare una storia senza avere la preoccupazione di soddisfare desideri e aspettative dei fan più accoliti.
Dopo Post Mortem (2010), lo straordinario No - I giorni dell’arcobaleno (2012), che racconta con tono cronachistico il prebiscito cileno del 1988 sulla presidenza di Pinochet, e il drammatico Il club (2015), Larraín realizza, a distanza di meno di un anno, due tra i migliori biopic del nuovo secolo: Neruda e Jackie.
Due ritratti di personaggi tanto straordinari quanto diversi tra loro: il poeta Pablo Neruda e la first Lady Jacqueline Kennedy, moglie del compianto John Fitzgerald.
I due titoli seguono la medesima ricetta narrativa, che si rivela vincente: concentrarsi su un episodio specifico delle vite di entrambi - la fuga dalla dittatura nel primo e l’attentato e la morte di JFK nel secondo - e sfruttare il contesto storico per poter dare massimo risalto alle personalità dei protagonisti, che nella storia del XX secolo hanno lasciato un segno, loro malgrado.
In Neruda e Jackie siamo lontani anni luce dal carattere agiografico che dominava invece i biopic dei decenni precedenti.
Nell’impostazione neomoderna del regista cileno, non troviamo un protagonista dipinto come fosse un santino al centro dell’universo, ma uno dei tanti testimoni degli eventi storici e dello scorrere del tempo, la cui immagine viene delineata anche grazie agli occhi di uomini e donne che gli ruotano attorno.
Le due, straordinarie opere di Larraín suggellano dunque un punto di non ritorno del genere, grazie all’innovativa formula narrativa adottata.
Il focalizzarsi solo su una parte delle loro rispettive vite permette al regista di volgere lo sguardo attorno e analizzare anche la società coeva; siamo lontani dai racconti di piacere fine a se stessi, dove tutto è esibito e mai suggerito, e dove la riflessione nasceva più dalla natura stessa del personaggio realmente esistito (si veda Ghandi), piuttosto che dal modo di raccontarla del regista.
L’avvento del nuovo regime iraniano di stampo conservatore-laico a firma Maḥmūd Aḥmadinežād – in carica come presidente del paese dal 2005 al 2013 – sembrava aver disperso tutto ciò che di buono era stato realizzato negli anni precedenti da cineasti quali Abbas Kiarostami e Jafar Panahi, attivi soprattutto negli anni '90 e inizi 2000.
Fortunatamente, come spesso accade, la realtà tragica di un paese in un determinato contesto storico si carica l’onere di un contrappeso artistico, che cerchi di riscattarla e se non possibile umanizzarla, attraverso una messa in scena cinematografica nel caso del film o letteraria nel caso di un romanzo, che restituiscano dignità a un popolo e alla sua cultura.
La nascita artistica di Asghar Farhadi è figlia proprio di questa esigenza: c’è l’Iran di oggi al centro della sua visione, raccontato attraverso uno sguardo lucido e distaccato, senza retorica o propaganda.
Se con About Elly del 2009, il regista iraniano si è fatto conoscere per la prima volta a livello internazionale, è con i successivi film diretti nel decennio corrente che è entrato ufficialmente nel novero dei migliori registi in circolazione al mondo.
A cominciare da quello che è forse il capolavoro della sua carriera: Una separazione, vincitore tra gli altri del Premio Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera (il primo dei due, per Farhadi).
Operando per espedienti, il regista ci mostra una nazione profondamente segnata nelle disuguaglianze sociali, portandoci a riflettere sul peso determinante dell'Islam nella vita iraniana di tutti i giorni e sul complesso ruolo della donna all'interno di una realtà dichiaratamente antifemminista.
Ma allo stesso tempo Farhadi cerca anche di attuare un processo di normalizzazione, come a volerci comunicare che la storia raccontata non ha confini geografici – potrebbe infatti riguardare ciascuno di noi – e che i sentimenti veri, come l'amore tra un padre e una figlia, non hanno né bandiera né credo religioso, ma sono universali.
Le tre caratteristiche principali che scaturiscono con limpidezza dal film - la critica all’Iran contemporaneo, la messa in discussione del nucleo famigliare tradizionale e un mistero da risolvere, che aziona la narrazione - le ritroviamo anche nell’opera successiva di Farhadi, altrettanto meritevole: Il passato.
Per formalizzare la procedura di divorzio, l’iraniano Ahmad arriva a Parigi dopo quattro anni, per incontrare la sua ex-moglie, Marie e le sue figlie.
Qui scopre che Marie ha una relazione con un arabo di nome Samir, il quale ha già a proprio carico un figlio, avuto dalla precedente compagna, che ora è in coma.
La situazione, già di per sé delicata, rischia di esplodere definitivamente quando la figlia maggiore di Ahmad rivela qualcosa che le attanaglia la coscienza.
In una Parigi irriconoscibile – i momenti più importanti della storia sono ripresi in interni – Farhadi dà nuovo sfogo ai tormenti che nascono e si sviluppano nel sottobosco di segreti che compongono il nucleo familiare.
Così come nel precedente Una separazione, anche qui la causa giudiziaria che aziona la narrazione – un divorzio – funge solo da pretesto per rivolgere uno sguardo a 360° gradi sulla cultura iraniana e il difficile ruolo della donna.
Lo spostamento di location in Europa che fa da sfondo agli eventi – si passa da Teheran a Parigi – non distoglie Farhadi dall’esigenza di riflettere sui temi che gli stanno più a cuore in patria: una società che sta cambiando giorno dopo giorno, il ruolo dei clandestini, le unioni promiscue.
La componente dolorosa della storia, che sgorga dai dialoghi, lunghi e intensi tra i vari personaggi, è figlia anzitutto della sfiducia che Farhadi nutre nei confronti dell’istituzione della famiglia, vista come radice di ogni male e ben testimoniata dalle separazioni e le crisi che interessano entrambe le famiglie protagoniste di Una separazione e Il passato.
Meritano menzione anche le ultime due opere: Il cliente (2016), che ha permesso a Farhadi di portarsi a casa la seconda statuetta dell'Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera, e Tutti lo sanno (2018), primo film della sua carriera in lingua inglese (con il duo Javier Bardem-Penelope Cruz).
Le opere di Farhadi, che è evidentemente un proselito del Neorealismo e del Cinema d’autore europeo, è straordinario nel mettere in scena delle vicende che potrebbero interessare ognuno di noi, cambiandoci la vita in qualunque istante.
Forse è per questo che ci sentiamo così vicini al suo Cinema, che scavando in profondità nell’animo dei personaggi, anche grazie alla purezza formale di cui fa uso, stimola lo spettatore a un confronto con realtà e politiche diverse.
È quello che succede quando un regista ha davvero qualcosa da raccontare.
Indipendentemente dalla sua nazionalità o religione.
Credo che su questo nome non sia necessario dilungarsi troppo, sia perché tanto è stato scritto nel corso del tempo (fate un giro sul sito e guardate voi stessi), sia perché la qualità e la grandezza dei sei film diretti nel decennio (una media di un film ogni anno e mezzo, circa) parlano francamente da soli.
L’affascinante dramma La donna che canta (2010), i due thriller consecutivi interpretati da Jake Gyllenhaal, Enemy (2013) e Prisoners (2013), la cruda spy story a sfondo bellico di Sicario(2015), gli straordinari e ambiziosi sci-fi di fine decennio, Arrival (2016) e Blade Runner 2049 (2017).
Denis Villeneuve, dopo un inizio in sordina nel Cinema autoriale nazionale, è riuscito nel miracolo che solo in pochissimi oggi (Christopher Nolan è uno di questi) sono riusciti a compiere: unire con grande successo l’autorialità personale all’esigenza d’intrattenimento di massa.
Il suo è per definizione un grande Cinema, in grado di emozionare, intrattenere, portare gente in sala e far riflettere, senza per questo perdere una propria impronta autoriale.
È uno dei migliori esempi (come quello di James Cameron, di Steven Spielberg, del già citato Nolan) di Cinema commerciale che riflette allo stesso tempo la visione personale del proprio creatore, coniugando dunque le principali esigenze in gioco, qualità oggettiva e successo, e di mettere d’accordo quasi tutti: pubblico e critica, cinefili di nicchia e appassionati vari.
È con gli ultimi due titoli, quelli con cui ha affrontato con successo il complicato genere della fantascienza, rinnovandola con tinte filosofiche e metafisiche, che il regista canadese mi ha portato non solo a considerarlo per questa Top 8, ma addirittura ad assegnargli la posizione più alta del podio.
Arrival e Blade Runner 2049 mostrano come nell’andare avanti con le sempre più cospicue possibilità che la tecnologia offre, non bisogni dimenticarsi dell’uomo nella sua accezione più universale, che è dunque ancora al centro del discorso.
Ecco che allora la sua fantascienza non si racchiude su se stessa, ma volge antropologicamente il proprio sguardo alla società, in cui il linguaggio diventa l’unico ponte possibile tra culture diverse e mezzo principale per la pace e l’equilibrio mondiale (Arrival), o dove la sofferenza d’animo, dettata da un passato doloroso e da un futuro incerto, non deve distogliere l’uomo dalla ricerca della verità (Blade Runner 2049).
Il coraggiosissimo sequel di Blade Runner di Ridley Scott, tra l’altro, riesce pure nell’intento (non semplice) di porsi come opera a sé stante, di ricercare una propria qualità e indipendenza, senza volgere l’attenzione al passato.
Ed è per questo motivo che Blade Runner 2049, prima ancora di essere un sequel, è da considerarsi anzitutto come il nono lungometraggio di un regista che ha saputo imporsi in tempi rapidi tra la ristretta cerchia di innovatori contemporanei.
Il film del regista canadese manifesta sin da subito l’aspirazione di porsi come opera autosufficiente, staccata dal cordone ombelicale del film di Scott, perché in aperta rottura con il vecchio regime postmoderno, anzi aperto a un nuovo tipo di racconto fantascientifico.
Credo sia la giusta premessa da cui partire, per poter guardare, ma soprattutto analizzare al meglio quest’opera, che costituisce certamente una novità nel panorama cinematografico attuale, proprio per il suo tentativo (riuscito) di staccarsi di dosso la mera etichetta di opera derivata (sequel/remake/reboot/crossover, a seconda dei casi), che oggi come oggi è considerata a priori, ed erroneamente, come sinonimo di mediocrità e mancanza di idee originali.
Nel Cinema contemporaneo, Villeneuve è diventato quindi uno dei grandi protagonisti, proprio per la sua intelligenza e capacità di leggere e capire il presente, cercando di offrire nel modo più chiaro possibile un’interpretazione del mondo (sua, o attinta da altri), che parta da un presupposto fondamentale: il Cinema è lo specchio del nostro stare nel mondo in questo momento.
Già con l’enigmatico e metaforico Enemy, il regista canadese aveva cercato di trasmettere un messaggio ben preciso e attuale – il ragno e la sua tela che tiene prigionieri gli esseri umani del mondo moderno, intrappolati nei ruoli costruiti dalla società; ma è proprio con i suoi due ultimi lavori fantascientifici, che Villeneuve spinge all’estremo la capacità dello spettatore di scovare una chiave di lettura al mondo in cui viviamo oggi.
Arrival e Blade Runner 2049, opere ambiziose quanto il loro regista, sono accomunate da un certo spirito umanista e sincero, che hanno contribuito all’innovazione di un filone, quello sci-fi intimista.
Un nuovo percorso intrapreso all’interno del genere, che mai come in questi anni ha (ri)posto al centro delle sue storie l’uomo nella sua accezione più universale, senza perdere il contatto con la realtà, ma anzi esprimendone una nuova, che è dunque filtrata da sentimenti autentici e moti dell’animo.
Insieme a Tenet, di cui ho fatto menzione nella lunga introduzione della Top 8, l’altro film attesissimo in uscita del 2020 sarà Dune, nuovo adattamento del romanzo di Frank Herbert dopo lo sfortunato film di David Lynch del 1984.
Riuscirà Villeneuve anche questa volta (l’ennesima) a sorprendere lo spettatore e impreziosire ancor di più la sua già straordinaria carriera?
Non resta che aspettare, ma le sensazioni, come sempre con lui, sono positive.
Ex redattore di CineFacts.it (2018 - 2020). Giurista di professione, cinefilo per passione. Crede nel Dio Kubrick, nel potere terapeutico del cinema e nel viaggio come forma di arricchimento personale. Vorrebbe vivere in un film della Nouvelle Vague.
A luglio 2019 ha pubblicato il suo primo libro di cinema, dal titolo "La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì", in cui tenta di spiegare in che modo gli eventi tragici del terzo millennio abbiano cambiato il cinema e influenzato i registi contemporanei.
Antonio Marino
4 anni fa
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Pierluca Parise
4 anni fa
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