#SuldivanodiAle
Su Netflix è arrivato Cyberpunk: Edgerunners, anime in dieci puntate realizzato dallo Studio Trigger e prodotto in collaborazione con CD Projekt, software house dietro il chiacchieratissimo videogame Cyberpunk: 2077.
La casa di sviluppo polacca ha già lavorato con il gigante dello streaming per la serie live-action di The Witcher, il cui successo ha fatto un discreto rumore attorno al globo, raccogliendo i consensi degli amanti della serie videoludica così come quelli di qualche appassionato della saga letteraria.
Cyberpunk: Edgerunners arriva con premesse molto diverse e nonostante non siano mancati estimatori di Cyberpunk 2077, l’opera è stata al centro di molte polemiche a causa di una realizzazione non proprio lodevole.
La campagna promozionale estremamente aggressiva, basata interamente sulla cultura dell’hype, è divenuta un boomerang per CD Projekt e la storia di Cyberpunk 2077 è divenuta una cautionary tale per l’industria.
[Il trailer di Cyberpunk: Edgerunners]
Rimanendo nei margini del mezzo di nostra competenza, ovvero quello dello storytelling - più consono per un sito di Cinema e TV - Cyberpunk 2077 pecca nello sviluppo del world building e in una scrittura laconica e poco ispirata, nella quale i rapporti di causa ed effetto sono spesso traballanti (a margine, come postilla per i lettori appassionati di gaming, si potrebbe aggiungere come l’opera manchi di tutti quelle diramazioni narrative da GDR evoluto, promesse e sponsorizzate dalla casa di sviluppo polacca).
Il dubbio che attanaglia chiunque abbia amato le vibrazioni dell’universo di Cyberpunk, magari conosciuto tramite il gioco di ruolo da tavola inventato da Mike Pondsmith nel 1988, è: com’è Cyberpunk: Edgerunner?
Rende giustizia alle premesse del mondo di appartenenza?
Prima di rispondere a queste domande per addentrarci nella valutazione dell’opera, una dovuta premessa per i babbani del gaming: nonostante le connessioni molto labili con l’opera videoludica, Cyberpunk: Edgerunners è perfettamente godibile senza alcuna conoscenza di questa.
Quindi, qualora dovesse titillarvi l’idea di guardarla, accomodatevi pure.
[Il trailer di Cyberpunk 2077]
Il genere Cyberpunk, la fantascienza e un futuro crudele
Scrivere fantascienza significa spesso esercitare la dote migliore di ogni bravo artista: guardare al presente, intuire possibili derive future, sondare le peggiori paure sollevate da esse e a quel punto utilizzare il tutto per gettare le basi di un complesso scheletro narrativo fondamenta del mondo in cui i personaggi si muoveranno, al fine di raccontare una metafora - probabilmente pessimista ma molto accattivante - il cui scopo è quello di dare una morale superiore al fruitore, portandolo a riflettere.
Spesso scrivere fantascienza significa giocare con dadi dalle molte facce che formano le chance evolutive della società e, state pur certi, è uno svago parecchio complesso.
Tuttavia, di quando in quando, alcuni artisti dall’intelletto particolarmente arguto, o parecchio fortunato, considerando le molte variabili, riescono in buona parte a fare delle giuste previsioni.
Per quanto li si possa ammirare, considerando la natura grottesca e pessimista di queste storie, non è una buona notizia.
Quando Mike Pondsmith nel 1988 idea il GDR da tavolo Cyberpunk, riesce a sfruttare magnificamente la poetica del filone (quello Cyberpunk) per costruire prima di tutto un’esperienza da gioco di ruolo profonda e stratificata.
Veniamo però al world building e allo scheletro narrativo dell’opera che si riempe grazie all’estro dei giocatori aderendo a molti degli stilemi del genere, come la decadenza sociale, la violenza incontrollata, il rapporto ossessivo con la tecnologia e la fusione tra uomo e macchina, il sorgere delle megacorporazioni a sostituirsi alle istituzioni.
In questo Cyberpunk riesce a costruire una specifica poetica portata al pubblico contemporaneo da CD Projekt grazie al magnifico lavoro di design del mondo di gioco (per i meno avvezzi alle terminologie: si parla di estetica).
Cyberpunk, contrariamente a Blade Runner (il romanzo di Philip K. Dick e il film sono una forte influenza) e altre opere, prende le distanze dalle elucubrazioni legate al rapporto dell’uomo con il concetto di anima e quindi con la figura dell’androide (o robot, se volete).
[In Cyberpunk: Edgerunners viene mostrato tutto lo spettro delle ingerenze della tecnologia rispetto all'evoluzione umana]
Questo universo evolve l’architettura neon e futuristica di Tokyo per trasportarla negli Stati Uniti, concentrandosi sulle vere devianze dell’evoluzione della razza umana.
Il pianeta è devastato e la pioggia si alterna a un clima desertico e ostile.
L’essere umano, o quello che ne rimane, ha spostato la sua ossessione per la chirurgia estetica verso quella cibernetica e, quasi come in una parabola cronenberghiana, vede nella nuova carne cyberpunk e negli impianti per sostituire ossa e tessuti l’unica via per sopravvivere in un mondo dove o si nasce corporativi - quindi ricchi - o poveri e senza speranze, impossibilitati a evadere dalla propria condizione sociale, annichiliti dalla violenza incontrollata che domina le strade delle metropoli.
Le strade di Night City, la metropoli teatro di questo mondo, è affascinante di giorno quanto terrificante al calare del sole.
Si sviluppa in verticale in grattacieli che coprono il cielo e stipano milioni di persone.
Le gang che si dividono i quartieri della città sono l’illogica selezione naturale degli ultimi, il sesso è più libero che mai, la masturbazione virtuale si fa anche per le strade, e un prematuro, violento - quanto mitico e romantico - decesso è per i cyberpunk, i criminali di Night City amanti degli impianti e del cromo, quello che è sempre stato per i rocker il biglietto d’ingresso per l’olimpo delle leggende.
L’universo di Cyberpunk è davvero molto affascinante e la sua ossessione per la violenza estrema è sintomatica della paura generata dalla spaventosa e crescente aggressività incontrollata esplosa negli anni ‘90 negli Stati Uniti, e che non ha influenzato solo Cyberpunk.
Per mettere in scena visivamente e narrativamente un mondo del genere, cosa che in parte il videogame non riesce a fare, serve la consapevolezza di chi sa giocare con gli eccessi e con la scrittura di un racconto che sicuramente non può avere molta luce, tendendo a un tipo di racconto crime/sci-fi/noir nel quale la speranza è la vera utopia.
In un presente dove tutti vogliono sentirsi rassicurare e ci si chiude a riccio appena sorge un problema per noi spaventoso (pandemia, guerra, incertezza economica e yada yada yada), il mondo di Cyberpunk sembra destinato all’ennesima edulcorazione (non che in passato, nel pieno del consumismo, Blade Runner se la sia passata bene).
[Il rapporto con la violenza di Cyberpunk: Edgerunners ricorda anche alcune opere HBO anni '90]
Lo Studio Trigger e il suo segno fondamentale
Fortunatamente per noi la serie Netflix è stata affidata allo Studio Trigger, realtà dell'animazione giapponese del quale mi sono innamorato nel momento in cui ho posato i miei occhi sui loro corti per Star Wars: Visions (The Elder e The Twins).
Lo Studio Trigger ha però lavorato anche a Kill la Kill (VVVVID), Little Witch Academia (Netflix) e al particolare, quanto divertente nelle sue ovvie e cercate ingenuità, Promare (Netflix).
La particolarità dello Studio Trigger sta nella sperimentazione di nuove espressioni dell’animazione classica, trovando spesso soluzioni affascinanti.
In Cyberpunk: Edgerunners la ricerca visiva dello Studio Trigger diventa essenziale e traduce meravigliosamente la poetica dell’opera, ispirandosi anche a Ghost in the Shell e Akira, fondamentali quando si parla del genere.
Sfruttando tutte le influenze profuse nello sviluppo visivo del videogame, riesce a descrivere Night City: i grattacieli vertiginosi; gli umori dei neon e delle architetture futuristiche fuse con una città sporca e decadente; l’anatomia sgraziata e letale dei maniaci della chirurgia cyberpunk; le forme affascinanti, e a volte estranianti, delle donne cyberpunk.
La violenza esplosiva e scenica delle teste che esplodono e dei corpi mozzati.
Cyberpunk: Edgerunners sembra figlia di Blade Runner 2049, della messa in scena al neon di Nicolas Winding Refn, della ricerca poetica di Ghost in the Shell e delle deformazioni di Akira.
Il dubbio e la croce con il quale convive ogni consumatore di anime risiede in alcune peculiarità ormai riconoscibili come maniera e idiosincrasia produttiva di molte opere nipponiche: la "sessualizzazione fan service" e la mediocrità delle animazioni nel dettaglio, rispetto al totale.
Vado con ordine.
Anime e manga tendono a usare il sesso e l’erotismo, anche e in particolar modo, come mezzo di fanservice.
Se da una parte è uno dei marchi dell’industria, spesso è anche una leva per rabbonire lo spettatore a discapito del tessuto del racconto.
In Cyberpunk: Edgerunners non ho riscontrato questa voglia di distribuire a casaccio erotismo: nudità e sesso sono utilizzati sempre con uno scopo narrativo ben preciso e anche per questa ragione poco sopra facevo riferimento a Ghost in the Shell.
Venendo alla seconda questione, è noto come gli studi d’animazione nipponici lavorino spesso con budget ridicoli, ritmi senza senso e sostanzialmente vivano il crunch (ovvero l’impiego compulsivo di straordinari, spesso non pagati) come la normalità.
La conseguenza è riscontrabile in opere mediocri, nelle quali l’incuria di certe animazioni e l’utilizzo estremo di mezzucci votati a risparmiare tempo e risorse minano qualità e riuscita delle opere.
Lo Studio Trigger lungo i dieci episodi applica invece un approccio spesso intelligente e lodevole quando il problema delle ambizioni di budget bussa alla porta dello studio. Da un lato l’animazione è sempre curata, ricercata nella costruzione delle immagini e mai sciatta.
Dall’altro, dove serve fare economia, il linguaggio non viene intaccato e precise scelte stilistiche di regia e narrazione di Hiroyuki Imaishi e Hiromi Wakabayashi ovviano senza svilire la produzione.
È anche vero che in (solo) un paio di circostanze ho trovato alcune scelte un po’ convenienti e non proprio aderenti all’affermazione appena fatta; mi sento però di perdonare lo Studio Trigger, poiché nel panorama del settore risulta comunque uno sforzo più dignitoso di altri.
Nota a margine legata alla produzione, inoltre, la colonna sonora di Cyberpunk: Edgerunners rimarrà con voi per diverso tempo, a partire dalla sigla dei Franz Ferdinand.
Benvenuti a Night City
Parlando invece di scrittura e narrazione, i due sceneggiatori, Yoshiki Usa, Masahiko Ôtsuka, vanno dove altri non osano andare e riescono a descrivere il mondo di Cyberpunk e i protagonisti della storia con un trasporto ben superiore rispetto al videogame.
Forse anche per merito della storia scritta da Bartosz Sztybor, autore polacco che ha dato agli sceneggiatori una base con una coscienza più occidentale.
Cyberpunk: Edgerunners, per quanto aderisca ad archetipi narrativi classici delle storie crime e neo-noir, consegna al pubblico un racconto romantico e dolente, senza risparmiare alcun colpo ed evitando di compiacere lo spettatore.
La dolcezza passa per le braindance (ricostruzioni virtuali di ricordi o esperienze di ogni natura) come per il rapporto che si costruisce tra i protagonisti, le cicatrici lasciate dal loro passato, da Night City e dalla Arasaka (la megacorporazione che domina questo mondo).
Vi ritroverete molto velocemente a voler bene allo sperduto David, manifesto della natura di Night City e di questo universo, alla dark lady Lucy, allo smanaccione Pilar, alla psicotica Rebecca, al fratellone Maine e al resto del mucchio selvaggio.
Quello che più mi ha colpito, in positivo, è l’assenza di alcune ingenuità di scritture tipiche della poetica nipponica: l'estremizzazione del dramma.
Molto spesso mi ritrovo intrappolato in racconti che hanno il problema di appesantire eccessivamente gli elementi drammatici.
Sembra di guardare opere scritte da un William Shakespeare nato oggi per essere segregato nella writing room delle peggiori pecionate di Shonda Rhimes e il cui scopo è solo quello di far piangere il pubblico senza soluzione di continuità e senza dare dignità alla costruzione drammatica e di conseguenza alla sua credibilità che passa per lo studio e l’evoluzione dei personaggi e delle situazioni delle quali sono protagonisti.
In Cyberpunk: Edgerunners si insegue una storia senza speranza, dai toni melanconici, cupi e adulti figli del racconto classico di un certo cinema fatto di anti-eroi, ossessioni, decadenza e la cui dimensione drammatica è già tutta nel destino scelto a monte dal mondo nel quale si muovono i personaggi.
Cyberpunk: Edgerunners
Nonostante Netflix sia foriera del modello binge watching, chi vi parla lo detesta follemente per una serie di ragioni che non trovano spazio in questa recensione.
Sappiate solo che quasi mai mi ritrovo a divorare le puntate come i capitoli di un buon libro.
Eppure esistono le eccezioni e con Cyberpunk: Edgerunners mi sono trovato al cospetto di un’opera che mi ha appassionato al punto da avermi catturato in una due giorni di visione da cyber psicosi.
Con mia grande sorpresa, ancora una volta un’opera tratta da un videogame riesce non solo a risultare ottima (rendendo anche omaggio a qualche personaggio tratto dal lavoro di CD Projekt), ma a distinguersi nel suo medium (in questo caso gli anime), grazie alla sua capacità di trattare un genere e degli stilemi narrativi raramente percorsi (come quelli del neo-noir e del crime) senza appesantirsi con alcune idiosincrasie tipiche della narrazione pop nipponica o scadere nelle peggiori abitudini delle loro produzioni animate.
Cyberpunk: Edgerunners è una serie appassionante che vi trasporterà, lungo le dieci puntate autoconclusive, nel filone cyberpunk toccato da molti e steccato da quasi tutti.
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