#SuldivanodiAle
Dopo un oblio che sembrava interminabile è stata distribuita in streaming C'è sempre il sole a Philadelphia e dentro di me è risorta, come una fenice che rinasce dalla monnezza, la gioia!
La serie TV ideata da Rob McElhenney, attore che molti di voi conosceranno per la docu-serie Welcome to Wrexham e per la serie Apple Mythic Quest, e sviluppata insieme a Glenn Howerton, ha debuttato sul canale statunitense FX nel 2005 e conta ben 16 stagioni per un totale di 170 episodi.
C'è sempre il sole a Philadelphia è diventata un fenomeno di culto che ha reso popolari i suoi protagonisti: i già citati Rob McElhenney e Glenn Howerton (già conosciuto per That ‘80s Show), Kaitlin Olson e Charlie Day.
Tuttavia Hollywood ha da sempre snobbato lo show e la “Gang” (così il gruppo si apostrofa nella serie) è riuscita a salire sul palco degli Emmy Awards solo grazie ai molti riconoscimenti guadagnati da Rob McElhenney per Welcome to Wrexham, nonostante nel cast ci sia Danny DeVito, vincitore di un Golden Globe e di un Emmy per la serie TV Taxi, del 1978.
Di rimbalzo la serie è giunta in Italia con la classica distribuzione a caso tipica dei palinsesti televisivi pre-streaming; i bei tempi andati!
C'è sempre il sole a Philadelphia debuttò da noi nel 2008 sul canale FX (network statunitense che produce e distribuisce la serie), ma una volta chiuso traslocò su Cielo per andare in onda in fascia notturna, come se fosse una produzione dedicata alle linee telefoniche erotiche con le signorine vestite con calze a rete e mascherine di pizzo; i bei tempi andati!
La gang del Paddy’s Pub si sarebbe poi spostata prima su Fox e successivamente su Fox Comedy, per poi venire fagocitata dall’oblio.
In Italia C'è sempre il sole a Philadelphia non ha avuto vita facile, nonostante la sua costante presenza nella TV statunitense l’abbia resa uno degli show più longevi e di successo di Hollywood.
A questo punto vi starete legittimamente chiedendo perché ne sto parlando al fine di spingervi a guardare C'è sempre il sole a Philadelphia e scoprire uno show che, a mio dire, vi farà ritrovare tutti i colori della vita, della satira, della commedia e della carica distruttiva dei suoi raggi UV.
[C'è sempre il sole a Philadelphia e i suoi bravi ragazzi che bevono caffè sul divano]
Non è facile convincere qualcuno a guardare l’ennesima serie TV in un mare di produzioni tempestose ma, se me lo permettete, vorrei sottolineare quanto sia difficile trovare una buona sit-com.
Anzi, in particolare, una commedia il cui esercizio alla risata passa per qualcosa di caustico, truce, surreale, così ferocemente scomposta da incarnare lo spauracchio di qualsiasi network che non voglia inciampare in una noiosa, quanto intangibile, sh*tstorm mediatica da social media.
C'è sempre il sole a Philadelphia è contraddistinta da uno stile satirico assurdo, la cui fonte comica deforma tutto quello che teoricamente è uno stilema di commedia televisiva e che può essere racchiusa in una domanda postami un giorno da mia moglie, sedutasi distrattamente accanto a me per guardare un episodio: "Perché la guardi? Sono personaggi orribili!"
Guardo C'è sempre il sole a Philadelphia proprio perché sono personaggi orribili e soprattutto perché questo aspetto, questa costruzione di base, permette agli autori della serie di far ridere a crepapelle il suo pubblico senza evangelizzarlo riguardo la morale odierna, veicolando la critica attraverso personaggi così palesemente sbagliati e truci che diventano comicamente grotteschi.
Nel corso del podcast dedicato alla serie Charlie Day parla di come larga parte di C'è sempre il sole a Philadelphia e delle sue trovate comiche giri attorno all’ignoranza dei protagonisti, ovvero un sottoprodotto della loro arroganza.
Nel 2005 C'è sempre il sole a Philadelphia anticipò uno dei più grandi problemi del presente, mettendo in scena maschere anti-sociali protagoniste delle inquietudini di oggi.
Il vero agente distruttivo del tessuto sociale non è rappresentato dai redneck che spacciano metanfetamina nelle province più rurali degli Stati Uniti o dal ceto popolare, quanto da un gruppo socialmente eterogeneo vittima dell’ormai famigerato effetto Dunning-Kruger.
I protagonisti di C'è sempre il sole a Philadelphia sono seriamente convinti che tutto sia loro dovuto e le posizioni (orribilmente errate) che tengono riguardo qualsiasi meccanismo della società sono mosse da un moto perpetuo alimentato dall'ignoranza e dall'arroganza.
Noi spettatori ci divertiamo a guardare un gruppo di sociopatici, spesso perdenti, che si misura con imprese via via sempre più storte e distruttive verso chiunque invece rappresenti una persona equilibrata e di buone intenzioni, che il più delle volte finisce per schiacciarli o venire deformati dalla loro carica deflagrante.
[C'è sempre il sole a Philadelphia vanta da sempre grandi camei]
Prendiamo uno dei personaggi ricorrenti: Matthew “Rickety Cricket” Mara, interpretato da David Hornsby, autore di molti episodi della serie.
È il prototipo dell’effetto devastante della Gang su chi li circonda.
Un personaggio che lungo le stagioni viene sempre più distrutto dal gruppo, generando risvolti comici improbabili. Il primo di una lunga serie di maschere che entrano in C'è sempre il sole a Philadelphia per formare il ritratto di un paese che si è sempre identificato nel peggio tramite gli hillbilly dei contesti rurali quando invece nelle grandi comunità urbane, come Philadelphia, si annidano i campioni più pericolosi del tessuto sociale.
C'è sempre il sole a Philadelphia deforma tutti gli stilemi di scrittura televisivi.
Hollywood insegna che ogni sit-com di successo deve presentare allo spettatore dei personaggi con i quali è possibile empatizzare.
I loro difetti sono spesso degli elementi utili per generare risvolti comici, ma in linea di massima la costruzione di ogni personaggio deve vestire una maschera che sia riconoscibile da una fetta di pubblico.
Che sia Friends, Cin cin, Scrubs o How I Met Your Mother, noi spettatori finiamo per ritrovarci nelle idiosincrasie come nei tratti distintivi dei personaggi e delle loro situazioni.
Allo stesso modo anche in una serie come The Office, la cui comicità tende al demenziale, abbiamo storyline e personaggi che in un modo o nell’altro entrano piano piano nel cuore del pubblico.
Stanley Hudson è il collega che punta alla pensione stanco delle follie del suo lavoro dalle 9 alle 17 e desideroso di ritirarsi su un faro che possa essere sparato nello spazio: se pensate che Stanley possa parlare soltanto ai boomer ripensateci, perché sono sicuro che tra voi lettori qualcuno, come il sottoscritto, desidera spesso nutrire la propria natura introversa e un po’ misantropa per sedersi su quel faro SpaceX fluttuante in orbita.
Rimanendo ancora su The Office, eccetto per la prima stagione, lo stesso Michael Scott e i suoi tratti egocentrici, così come Dwight e le sue stramberie, hanno finito per conquistare una parte dell’affetto dello spettatore.
In C'è sempre il sole a Philadelphia ogni stilema del protagonista delle sit-com viene ribaltato come un calzino.
Possibilmente di spugna e usato per diversi giorni.
[Glenn Howertonin in C'è sempre il sole a Philadelphia]
Dennis Reynolds (Glenn Howerton) è la forma fincheriana del Barney Stinson di How I Met Your Mother.
Più che un latin lover è un maniaco del controllo psicotico, un vanitoso che oggettifica le donne, un egomaniaco che lo porta a mistificare la sua persona, il suo intelletto e le sue conquiste che non sfigurerebbe come protagonista di una stagione di Mindhunter.
[Kaitlin Olson in C'è sempre il sole a Philadelphia]
Deandra “Sweet Dee” Reynolds (Kaitlin Olson), sorella di Dennis, è altrettanto fuori di testa.
Contrariamente a quanto suggerisce il suo soprannome, di dolce non ha nulla: come avrete intuito la serie è un ossimoro di follia comica.
Dee si mescola perfettamente bene in un gruppo di maschi alcolizzati il cui unico scopo è cercare di fregare il prossimo, o il sistema, per fare due soldi.
Il suo sogno di diventare una famosa attrice è un disperato grido d’aiuto, la voglia di essere notata a tutti i costi e recuperare una terrificante adolescenza da bullizzata.
Peccato che Deandra non sia propriamente dotata, la convinzione che tutto le sia dovuto scorre in lei prepotentemente e il suo ruolo di donna del gruppo è tutt’altro che stereotipato: non ha grazia, non è l'interesse amoroso di nessuno - anzi viene continuamente schernita, insultata e svilita - e soprattutto, come il fratello, viene mostrato come riesca a irretire molti partner piegandoli psicologicamente.
[Rob McElhenney e... beh, lo scoprirete in C'è sempre il sole a Philadelphia]
"Mac" (Rob McElhenney), il cui nome non anticipo per intero perché sarebbe un crudele spoiler, dovrebbe essere il maschio alfa del gruppo e il suo personaggio, insieme a quello di Charlie Day, è uno di quelli che attraversa l'evoluzione più affascinante lungo la serie.
Di alfa "Mac" non ha nulla.
È convinto di conoscere le arti marziali, di essere un duro, di incarnare la mascolinità con i suoi muscoli e i suoi discorsi da conservatore cattolico, tuttavia è un insicuro cronico e la sua fede è un rifugio utile per non riconoscere alcune parti della sua persona (e delle sue convinzioni) che fin dalla prima stagione vengono immediatamente messe in discussione.
Lungo la serie, inoltre, Rob McElhenney ha avuto una delle idee più folli mai viste in una sit-com e andando in controtendenza a tutti quegli show dove i protagonisti diventano sempre più belli, lui decide di punto in bianco di ingrassare e far deragliare "Mac" per un’intera stagione.
[Charlie Day e il meme più meme di Internet grazie a C'è sempre il sole a Philadelphia]
Charlie Kelly (Charlie Day) rappresenta insieme a "Mac" la parte più urbana e tutt’altro che solare di Philadelphia.
Charlie è un labirinto di problemi psicologici creati dalla madre, da uno zio un po’ troppo intrusivo durante la sua infanzia e dal continuo abuso di qualsiasi sostanza chimica o droga.
Charlie nasconde il genio dell’artista, ma al Paddy’s Pub, il locale che gestisce insieme alla Gang, fa da inserviente e cacciatore di ratti, tenendo la struttura in moto con metodi discutibili.
Vive nello squallore più totale in un orribile stabile di Philadelphia, mangia cibo per gatti prima di addormentarsi e la sua istruzione è così sbiadita da aver prodotto una dislessia moltiplicata per mille, riflettendo le schematiche mentali di un adorabile matto. Quello che dovrebbe essere l’amore della sua vita, la sua Rachel, Robin, Pam o Penny, è una ragazza che lo disprezza visceralmente e che, per tutta la serie, viene chiamata The Waitress, la cameriera.
Charlie la perseguita, la segue come un’ombra e la venera, ma lungo tutto lo show ogni tentativo è seguito da una delusione sempre più crudele e tragica.
[Danny DeVito in C'è sempre il sole a Philadelphia]
Frank Reynolds (Danny DeVito) entra come personaggio principale nella seconda stagione e interpreta il padre di Deandra e Dennis.
È un miliardario che dopo aver divorziato dalla moglie decide di voler tornare a essere quello che è sempre stato davvero: un rozzo che vive nel degrado, un conservatore, anche piuttosto incapace, che deve la sua fortuna al suo essere un opportunista senza scrupoli e senza alcun talento o capacità, che non siano ovviamente quelle di calpestare il prossimo per trarne profitto personale.
C'è sempre il sole a Philadelphia è una sit-com davvero atipica.
Esiste come opposto di alcune regole fondamentali di scrittura del genere che, incredibilmente, si fa amare dal pubblico.
Il pilot proposto ai network fu infatti realizzato con un ricco budget di 200 dollari, una videocamera amatoriale e una manciata di aspiranti attori disposti a recitare le 10 pagine di sceneggiatura scritte.
A onor del vero prima di ricevere una chiamata dai network girarono 3 episodi, sempre in condizioni analoghe, con premesse vagamente diverse rispetto allo show poi portato in TV, dove i protagonisti erano attori perdigiorno e non proprietari di un pub di Philly.
In un certo senso C'è sempre il sole a Philadelphia è il Rocky Balboa delle serie TV di Hollywood, perché non è un concept creato da un grande network partendo da uno stilema visto e rivisto, messo in concorso per una serie di autori televisivi in cerca di fama.
Stando alle parole degli stessi creatori, all’epoca attori alle prime armi che cercavano di affermarsi nell’industria, furono proprio The Office di Ricky Gervais e Curb Your Enthusiasm di Larry David, altri due underdog del piccolo schermo, con la loro qualità cheap e il loro stile sovversivo rispetto allo standard, a ispirare la nascita di C'è sempre il sole a Philadelphia.
La sigla, filmata da Charlie Day girando in macchina per Philadelphia, è iconica proprio per il suo stile grezzo e per l’improbabile accostamento con Temptation Sensation, brano del compositore Heinz Kiessling (le cui composizioni sono presenti anche lungo gli episodi), scelto per il contrasto che dona rispetto al concept dello show, ma anche perché parte di una libreria di musiche gratuite.
[Il pilot originale di C'è sempre il sole a Philadelphia]
La satira di C'è sempre il sole a Philadelphia è per certi versi cinematografica, figlia della migliore scuola di scrittura per immagini, perché non moralizza lo spettatore didascalicamente, scegliendo invece di schiantarsi frontalmente con i temi più “sensibili” della nostra società, dato che la satira non conosce limiti, se non quello di una brutta scrittura che si traduce in ovvie, stupidamente triviali e vuote trovate comiche.
C'è sempre il sole a Philadelphia ha invece il genio di aver creato un mondo nel mondo che definisce personaggi moralmente rotti e le cui avventure consentono di parlare di tutto.
La prima stagione, seppure a mio avviso non al 100% del suo potenziale, mostra i tratti riconoscibili di un concept che già dalla seconda stagione decolla e allo stesso modo possiamo averne conferma guardando la lista dei titoli della prima stagione: The Gang Gets Racist, Charlie Wants an Abortion, Underage Drinking: A National Concern, Charlie Has Cancer, Gun Fever, The Gang Finds a Dead Guy e Charlie Got Molested; non riporto i titoli italiani perché spesso sono molto lontani da quelli originali.
Tutti argomenti da chiacchierata del pomeriggio con zia Cettina e le sue caramelle Rossana!
Razzismo, omofobia, molestie e quant’altro possono diventare oggetto di comicità perché il bersaglio è spostato sui protagonisti, che incarnano le ombre peggiori di quegli argomenti e di chi li affronta venendo da preconcetti basati sull’ignoranza.
Al tempo stesso C'è sempre il sole a Philadelphia mostra l’estro dei suoi creatori nel creare episodi che diventano immediatamente dei classici.
Potrei citare Charlie Work, episodio 4 della stagione 10 che segue Charlie mentre cerca di tenere a bada i piani folli dei membri della Gang e passare l’ispezione sanitaria ordinata dal municipio: l’episodio è girato con un finto piano sequenza, ma lungo i 22 minuti che conta la puntata ne contiene uno di ben 10 minuti.
Se state pensando a Birdman, ripensateci.
Il film non era ancora uscito e, come spesso capita, i ragazzi cercavano di omaggiare il quarto episodio della prima stagione di True Detective, famosa appunto per il suo piano sequenza.
Se volete un esempio della carica satirica distruttiva di C'è sempre il sole a Philadelphia c'è Dennis and Dee Go on Welfare, episodio 4 della stagione 2, dove la Gang diventa strumento per criticare le posizioni, spesso conservatrici, per le quali il sussidio garantito dallo Stato sia una pacchia.
La burocrazia e i requisiti per accedervi piegheranno i fratelli Reynolds con risvolti totalmente inaspettati e, ovviamente, molto divertenti.
[In C'è sempre il sole a Philadelphia il mito del Nightman ha una lunga storia]
Charlie Day, nonostante un tono di voce improbabile, è un talentuoso musicista e in The Nightman Cometh, episodio 13 della stagione 4, la Gang mette in scena un musical, ancora oggi cantato e celebrato dai fan, per impressionare la cameriera.
Ovviamente è tutto incredibilmente distruttivo e molti elementi comici ruotano attorno agli abusi dell’infanzia di Charlie.
Non Charlie Day, ma il Charlie della serie.
Gli episodi incredibili sono moltissimi ma, al fine di farvi comprendere la varietà di intenti che la Gang sa toccare, concludo ponendo l’accento su Mac Find His Pride,
season finale della stagione 13.
Dopo anni in cui la sessualità e la mascolinità di Mac vengono prese di mira, dopo intere stagioni nelle quali il papà criminale di "Mac" e la lotta di quest’ultimo per ottenere il suo amore vengono usati come elementi di commedia, in questo episodio di C'è sempre il sole a Philadelphia diventa improvvisamente dolce.
Dopo interi minuti di follia, gli ultimi istanti dell’episodio zittiscono lo spettatore.
Si smette di ridere, entra all’improvviso un’aggraziata vulnerabilità e Frank, un conservatore rozzo e disumano, costringe Danny DeVito a mostrare le sue capacità recitative più morbide.
Finiamo l’episodio presi dallo stupore, dalla commozione e dallo sgomento.
C'è sempre il sole a Philadelphia è per me uno degli ultimi baluardi della comicità in TV, nonché la più longeva sit-com live-action della storia della TV statunitense.
Una cattedrale in un deserto dove è sempre più difficile trovare ristoro da opere che si prendono maledettamente sul serio occupando ore infinite di visione allo spettatore.
Hollywood ha un po’ dimenticato di dover anche offrire divertimento, evasione e conforto al suo pubblico.
La speranza era che la lezione fosse stata compresa dopo la seconda gioventù di The Office (avvenuta qualche anno fa) e di Friends.
Quello che Hollywood ha invece capito è di dover fare un remake (che speriamo tutti sia semplicemente una bella serie comedy), ma in teoria non c’è da stupirsi, perché opere come C'è sempre il sole a Philadelphia non nascono dagli executive di Hollywood, ma da un gruppo di aspiranti attori e sceneggiatori desiderosi di portare le loro folli fantasie comiche, quello che li fa ridere, al pubblico.
Nel 2005 il titolo iniziale pensato per It’s Always Sunny in Philadelphia (titolo originale dello show) era It’s Always Sunny on Television e probabilmente, guardando al presente, è quello più azzeccato sotto ogni punto di vista.
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