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Un organo suona la versione minimalista di una messa introducendo una scritta rossa a caratteri cubitali su sfondo nero: KOYAANISQATSI.
Vita in tumulto, in disequilibrio. Stile di vita che esige un cambiamento. Questo è il significato del titolo del film d’esordio di Godfrey Reggio.
La parola deriva da una leggenda del popolo nativo americano degli Hopi:
"L’insediamento di Pivanhonkyapi era ormai caduto preda della negligenza e della febbre del gioco d’azzardo, così il capo villaggio decise di chiedere aiuto agli Dei del vento per far fronte al Koyaanisqatsi.
Gli Dei si presentarono alla festa del paese, danzando e donando ai sacerdoti delle piume rituali con l’ordine di portarle in cima al vulcano. Gli sciamani eseguirono l’ordine e da lì a poco una tempesta di fuoco iniziò ad avvicinarsi al villaggio, ma gli abitanti non furono capaci di comprendere l’avvertimento degli Dei e degli stregoni.
Essi non cambiarono il proprio stile di vita, condannando Pivanhonkyapi alla distruzione.
[Koyaanisqatsi inizia davvero col botto!]
Koyaanisqatsi è un film sperimentale, un’opera ardita, una vera e propria scommessa.
Reggio, coadiuvato dal direttore della fotografia Ron Fricke, imprime su pellicola una sequenza di paesaggi naturali mozzafiato, demolizioni controllate, immagini frenetiche velocizzate all’inverosimile alternate a ralenti, e tante altre riprese stupefacenti.
Tutto questo incessantemente accompagnato, fino a creare un’unione indissolubile, dalla musica evocativa di Philip Glass.
“Per alcune persone è un film ambientalista, per altre è un’ode alla tecnologia, per qualcuno è una merda, altri invece si sentono toccati nel profondo.
Dipende a chi lo chiedi.”
Queste parole del regista non possono far altro che indurci a ripensare a come noi affrontiamo la visione, la lettura o l’ascolto di un’opera. La limitatezza di voler trovare una chiave di lettura capace di incastrarsi all’interno del nostro modo di pensare.
E se invece stessimo solo guardando superficialmente perdendo di vista il punto?
[Una delle tantissime vedute sul traffico presenti in Koyaanisqatsi]
“Quello che ho provato a mostrare è che l’evento fondamentale di oggi non viene visto da chi lo sta vivendo.
Vediamo la superficie: i giornali, l’ovvietà dei conflitti, dell’ingiustizia sociale, il mercato…
Ma per me l’evento più grande o, probabilmente, il più importante della nostra intera storia sta passando inosservato. E l’evento è il seguente: il passaggio dall’habitat naturale, come ospite della vita umana, a un ambiente tecnologico.
Questo film non mostra l’effetto della tecnologia sull’uomo, ma che ogni cosa esiste all’interno del mondo tecnologico. Noi non usiamo la tecnologia, noi viviamo la tecnologia. La tecnologia è ovunque, come l’aria che respiriamo al punto che non siamo più consci della sua presenza.”
È proprio questo il punto focale della narrazione atipica di Reggio.
Siamo talmente circondati dalla tecnologia da considerare perfettamente regolare il nostro stile di vita, ma la nostra normalità coincide con il Koyaanisqatsi del popolo Hopi, ovvero una vita folle, in disfacimento e con assoluto bisogno di un cambiamento per ritrovare l’equilibrio.
Un punto di vista esterno su ciò che siamo diventati è il dono preziosissimo portatoci dalla visione del film. Osservare il nostro mondo da fuori ci da l’occasione per distaccarci da noi stessi e valutare il nostro operato con gli occhi di chi non appartiene alla nostra società.
In questo senso rimangono impresse nella mente le potenti ed evocative profezie Hopi mostrateci in coda al film.
Queste ci riportano alla loro visione dell’esistenza e alla catastrofe narrata dalla loro leggenda, prima di costringerci ad analizzare criticamente il nostro operato, i cui lati positivi e negativi si fondono in un un’unica gigantesca struttura.
[Anche il finale è spettacolare]
La colonna sonora
“Quando incontrai Godfrey per la prima volta nel ’78, lui mi chiamò e mi chiese se mi interessasse scrivere una colonna sonora.
Gli risposi che non scrivevo musica per film e lui ribatté che sarebbe stato un po’ diverso. In realtà fu davvero furbo: disse che mi avrebbe mostrato i primi quaranta minuti del film due volte, prima con una colonna sonora elettronica che aveva recuperato e poi con la mia musica.
Poi mi disse “Come puoi vedere con la tua musica è molto meglio”.
Cosa potevo dire? In pratica ho dovuto dire di sì.”
Stando al racconto di Glass, Reggio ci aveva visto lunghissimo. D’altronde era abbastanza scontato che un film sperimentale necessitasse una colonna sonora altrettanto d’avanguardia.
E a quale porta bussare se non a quella di Philip Glass?
Philip Glass, nato a Baltimora nel 1937, studia flauto al conservatorio e poi composizione a Parigi, dove si appassiona al Cinema della Nouvelle Vague.
Nel ’64 viene assunto dal leggendario suonatore di sitar Ravi Shankar per scrivere la partitura della colonna sonora del film Chappaqua, un lavoro che segnerà indelebilmente la sua carriera.
Il suo compito è quello di scrivere gli spartiti in modo da rendere le idee di Shankar leggibili e suonabili dai musicisti occidentali.
Compito non banale considerando la diversa divisione ritmica e disposizione degli accenti nella musica classica indiana rispetto alla nostra.
Così Glass ha un’intuizione, toglie tutte le stanghette delimitanti le battute e riconosce degli schemi ritmici non convenzionali.
Da quel momento la sua visione sulla musica si amplierà, portandolo a mischiare le influenze della musica indiana con la classica e dando vita a uno stile unico e inconfondibile, diventando uno dei pionieri del minimalismo e dell’utilizzo dei sintetizzatori.
Perché questa super-mini monografia? Perché Koyaanisqatsi è la summa stilistica del primo periodo di Glass sviluppatosi in seguito a quell’incontro.
In un’ora e venti di musica troviamo la complessità ritmica, la predilezione per la modalità e le sonorità tipiche della musica classica indiana, in simbiosi perfetta con le cadenze della musica tonale occidentale.
I synth indiavolati del compositore americano si sposano, con la benedizione di tutti gli dei, con le immagini folgoranti della coppia Reggio/Fricke, in un matrimonio imperituro.
Lo stile minimalista dei suoi esordi, nel frattempo è diventato carico di una potenza quasi wagneriana.
Il tipo di potenza adatta ad esaltare le riprese di un’esplosione atomica.
[Koyaanisqatsi: avanti verso la distruzione!]
A livello pratico, Glass ricevette da Reggio una prima versione del girato, lo divise in spezzoni e per ognuno di essi compose un pezzo.
Il regista poi decise di assemblare diversamente musica e immagini dando vita alla versione finale.
Tuttavia, questa incertezza nell’assegnazione della musica all’immagine si dissolve del tutto dopo pochi secondi dall’inizio.
L’associazione della “messa” ai pittogrammi dell’Horseshoe Canyon, seguiti dal lancio del razzo, dimostra una sensibilità artistica speciale.
Ma la parte più spettacolare è quella tra il minuto 47 e il 65: musicalmente inizia con un brano strutturalmente atonale, quindi non diretto verso una risoluzione.
Due accordi si ripetono senza sosta come a inseguirsi vicendevolmente (prima Do e Re, poi La e Re7), mentre osserviamo la vita metropolitana ripetersi ossessivamente.
Vediamo time-lapse dei processi produttivi delle nostre fabbriche seguiti dagli assalti dei consumatori ai supermercati, in un’esaltazione del dualismo creazione/distruzione. Una dualità senza un fine, esattamente come la ripetizione dei due arpeggi.
A un certo punto, però, la musica cambia.
Pur rimanendo atonale, Glass scioglie il nervosismo della ripetizione incontrollata con due cadenze di tre accordi maggiori (Mi b – Fa – Sol e Do – Re – La), come a sottolineare la nostra capacità di trovare un senso a tutto questo.
Questi tre accordi (d’altronde il tre è simbolo di completezza), seppur non utilizzati seguendo i dettami classici, ci danno un senso di risoluzione, di aver finalmente trovato una risposta nella magnificenza dell’evoluzione fine a se stessa.
Iniziare e chiudere con un pezzo lugubre in tonalità minore, come a presagire una sventura in avvicinamento, intervallandolo a momenti di esaltazione con sonorità unicamente maggiori, potrebbe sembrare una scelta schizofrenica, invece racconta perfettamente l’intento di Reggio.
Immaginate di essere un indiano Hopi e di trovarvi di fronte ad un mondo che eccede ogni vostra immaginazione.
Immaginate di rimanere esterrefatti di fronte alla distruzione dell’ambiente naturale ma allo stesso tempo esaltati alla vista di una grande metropoli.
La prossima volta che guarderete Koyaanisqatsi provate a farlo con gli occhi di un pellerossa.
6 commenti
Yorgos Papanicolaou
5 anni fa
Non posso che essere d'accordo con te. Il finale a me ha dato l'impressione di assistere a qualcosa di enormemente più grande di me. Di potente e terrorizzante. Lo riguarderesti un milione di volte in loop.
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Davide Arienzo
6 anni fa
Grazie per avermelo fatto scoprire
Ma proprio dal cuore
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Teo Youssoufian
6 anni fa
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LEONIDA
6 anni fa
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Adriano Meis
6 anni fa
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Niccolò Giannini
6 anni fa
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