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Quando è stato annunciato il film di Pinocchio per la regia di Matteo Garrone la reazione del grande pubblico è stata per la maggior parte di insofferenza: la percezione è quella di aver già visto tante, troppe volte la storia di Carlo Collodi trasposta sullo schermo e la domanda era sulle bocche di molti: era davvero necessario un ennesimo film su Pinocchio?
La percezione nasce però da un errore di fondo: nonostante non siano poche le versioni cinematografiche realizzate finora di quella che è senza timore di smentita la fiaba italiana più nota al mondo, il Pinocchio cinematografico non ha poi così tanti film degni di essere ricordati.
Il primo Pinocchio del Cinema è italiano, del 1911: un mediometraggio muto per la regia di Giulio Antamoro, di cui potete vedere i primi 6 minuti qui sotto.
Da lì in poi si passa direttamente al Pinocchio di animazione Disney del 1940, che forse è quello ancora oggi più conosciuto: il secondo Classico dopo Biancaneve e i Sette Nani fu un flop commerciale, principalmente dovuto all'arrivo della Seconda Guerra Mondiale che tagliò del tutto la possibilità di una grande distribuzione a livello globale, ma la critica lo apprezzò e il film con le sue libertà artistiche nei confronti del romanzo è ancora oggi negli occhi di tutti.
Successivamente al Pinocchio Disney furono molte le trasposizioni soprattutto televisive, e da ricordare c'è un film di animazione del 1971 a firma Giuliano Cenci, un film britannico live action del 1996 - co-produzione con USA, Italia, Francia e Germania - su cui è meglio non soffermarsi, e non vanno dimenticati né la serie TV a cartoni animati del 1972 che arrivava dal Giappone né soprattutto il famoso e amato sceneggiato televisivo di Luigi Comencini.
Cinque puntate trasmesse nel 1972 per una versione con Nino Manfredi, Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida e la coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia che nessuno ha mai dimenticato.
Ma lungometraggi con riprese dal vero per il Cinema?
C'è il Pinocchio di Roberto Benigni, del 2002.
Dopo il trionfo mondiale de La Vita è Bella chiunque aspettava il suo Pinocchio, che però deluse tutti: il film fu il più costoso di sempre per il Cinema Italiano e fu un flop commerciale, criticatissimo dal pubblico e bocciato dalla critica.
Per rispondere alla domanda iniziale, quindi, sì: era davvero necessario un ennesimo film su Pinocchio.
Soprattutto se messo nelle mani di un cineasta come Matteo Garrone, che ha già dimostrato di saper tenere le fila sia di storie crude prese dalla realtà - L'imbalsamatore, Gomorra - sia di racconti fantastici e fiabeschi dal budget importante - Il Racconto dei Racconti.
Il suo Pinocchio a mio avviso riesce là dove gli altri non erano riusciti: emoziona.
La storia è inutile raccontarla, ma va sottolineato che nel Pinocchio garroniano si vedono moltissimi personaggi mai visti prima, o che comunque non avevano ricevuto lo spazio che avrebbero meritato; il cast è pregevole e su tutti c'è da tributare un applauso alla prova di Roberto Benigni.
Invecchiato, dimesso, tenero: il suo Geppetto apre il film con la verve solita a cui ci ha abituati l'attore, mentre cerca di barcamenarsi come può per ottenere un boccone da mangiare, ma il tutto viene ammantato da un velo di malinconia che qui trova in Benigni l'interprete perfetto.
Il film è una meraviglia per gli occhi e per il cuore: la fotografia di Nicolaj Brüel riesce a raccontare la fiaba senza mai esagerare né diventare protagonista; tutto è leggero, appoggiato, e le scenografie e i costumi contribuiscono a darci quella sensazione di povertà e mestizia proprie del racconto di Collodi.
Si muore di fame, in Pinocchio, si suda e si fa fatica, non c'è il lusso dell'acqua per lavarsi e gli ambienti sono trasandati, sudici, malconci.
Il teatro dei burattini è una giostra di legno, di sentimenti e di polvere, e se la (doppia) Fata Turchina è soave e pulita i "cattivi" del film appaiono quasi demoniaci, con unghie lunghe e mezze rotte, dita annerite dallo sporco e dalla cenere.
Tutto in questo Pinocchio è materico, tangibile, vero.
L'estetica generale del film è curata in ogni minimo dettaglio, tutti i reparti tecnici contribuiscono all'atmosfera che resta ancorata al reale pur con le sue inevitabili digressioni sul soprannaturale e il fantastico.
La macchina da presa di Garrone sta accanto al suo protagonista restituendoci il suo punto di vista: quando il burattino è in scena, e spesso anche quando non c'è, il punto macchina è a un metro d'altezza, per mostrare allo spettatore quel mondo così come lo vede Pinocchio.
Una scelta che sta a metà tra il famoso punto macchina di Yasujirō Ozu e la cinepresa spielberghiana di E.T. - L'extraterrestre: da una parte spesso la scena si muove all'interno del quadro, senza bisogno di movimenti virtuosi, dall'altra ci fa tornare bambini e ci costringe a guardare cose e persone dal basso verso l'alto, con lo stupore tipico dell'infanzia.
Il make up strepitoso è firmato da Mark Coulier: con a curriculum molte creature della saga di Harry Potter e la Meryl Streep di The Iron Lady, in Pinocchio Coulier trasforma gli attori con il trucco prostetico, lasciando perdere la CGI e gli effetti visivi che stanno dominando il fantasy degli ultimi vent'anni.
Il risultato è pura magia, e ci si sorprende nel vedere le espressioni lignee di Pinocchio - un bravissimo Federico Ielapi - tanto quanto le trasformazioni leggere di Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo nei panni di Gatto e Volpe e di Gigi Proietti come Mangiafuoco o quelle estreme del Grillo Parlante, della Lumaca, del Tonno, del Gorilla giudice e dei due Corvo e Civetta dottori.
Il Pinocchio di Matteo Garrone inquieta con le atmosfere senza mai spingere troppo il pedale sul gotico, lasciando che siano le sensazioni a fare tutto il lavoro.
Il racconto del burattino che continua a cedere alle tentazioni, la morale in fin dei conti un po' opportunistica che insegna che il Male porta a delle punizioni mentre il Bene a un premio finale resta intatta, comprensibile ed evidente.
Il romanzo originale risale alla fine dell'800, in un periodo in cui l'Italia era appena nata e aveva bisogno di qualcuno e di qualcosa che potesse garantirgli un'identità nazionale, una tradizione nuova, una rettitudine alla quale appoggiarsi e conformarsi.
Cuore, di Edmondo De Amicis, è dello stessso periodo: assieme al Pinocchio di Collodi sono i due romanzi che forse meglio hanno costruito l'italiano nascente, traendo da pezzi di legno senza vita delle persone vere.
Ma se in Cuore il romanticismo e la moralità sono presenti e impersonati da pochi e delineati personaggi, in Pinocchio tutto è più sfumato, sparpagliato, suddiviso nelle maschere degli animali più diversi.
E anche oggi ritroviamo noi stessi in quella anarchica voglia di libertà del burattino, riconosciamo i nostri vizi, i nostri difetti, e nonostante il racconto nasca ormai un secolo e mezzo fa riesce ad essere attuale.
Ed è gelido il brivido che si prova vedendo l'Omino di Burro con tutti quei ragazzini alla sua mercé prima ancora che diventino dei ciuchini, quello sguardo unto e mellifluo che sottintende una malcelata pedofilia è più raggelante di tanta messa in scena esplicita.
Gli unici appunti che mi sento di muovere sono in merito alle musiche, che a volte in alcuni momenti non sono riuscite a comunicarmi il coinvolgimento che mi sarei aspettato, lasciandomi quindi più distaccato dal racconto di quanto avrei voluto, e la presenza di Roberto Benigni.
Il suo Geppetto è talmente riuscito e il carisma e la presenza scenica dell'attore così importanti che il risultato è quello di far calare inevitabilmente il film in tutta la parte in cui lui non c'è.
Ma sono minuzie, dettagli di poco conto all'interno di un'opera che finalmente porta sul grande schermo una storia magnifica e senza tempo, con una dolcezza mai vista nel Cinema Italiano e una malìa in grado di stregare sicuramente sia i piccoli che gli adulti.
Perché fondamentalmente Pinocchio è la storia di tutti noi, il suo Viaggio dell'eroe è il passaggio dall'infanzia all'età adulta, dalle azioni alle quali le conseguenze in fondo non importano granché alle responsabilità e alle prese di coscienza del fatto che ogni cosa che facciamo ha un effetto sul prossimo, su chi ci sta accanto, su chi ci vuole bene.
Matteo Garrone è quindi riuscito secondo me a rompere del tutto quella strana "Maledizione di Pinocchio", che faceva sì che chiunque decidesse di affrontare la storia del burattino che diventa un bambino vero finisse con lo scontrarsi con un insuccesso.
Il suo Pinocchio pulsa di una vita che fa bene al Cinema tutto, non solo a quello patrio, e respira un'artigianalità che andrebbe ricercata, rincorsa e ritrovata da tanti cineasti per ridare vera emozione al racconto per immagini.
Benedetto Croce disse una volta che "Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l'Umanità".
Garrone ne ha evidentemente fatto tesoro, e ha regalato all'Umanità stessa una perla preziosa, che sorpassa i confini del tempo e dello spazio, pronta per essere accolta e amata dall'abbraccio del mondo.