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Ecco la prima tranche di cinque film sui quindici facenti parte del concorso internazionale Torino 37 - dedicato a opere prime, seconde e terze - selezione principale del 37° Torino Film Festival.
Ve li presentiamo prima delle premiazioni di sabato sera.
La sezione principale del Torino Film Festival è da sempre un laboratorio per registi emergenti e sperimentazioni provenienti da tutto il mondo: in quanto tale alterna film già fatti e finiti a opere in cui è d'obbligo un approccio più vicino al cinema indipendente e con pochi mezzi.
Nonostante ciò negli anni si sono alternati film di altissimo livello - per citare solo le ultime edizioni - come Lady Macbeth di William Oldroyd, Wildlife di Paul Dano, Ride di Valerio Mastandrea, Oiktos di Babis Makridis, The Death of Stalin di Armando Iannucci, La Patota di Santiago Mitre e Babadook di Jennifer Kent, oltre a tantissimi altri titoli forse meno noti, ma che probabilmente nei prossimi anni ricorderemo come le opere prime di famosi registi affermati.
Quest'anno il livello della selezione del Torino Film Festival ci ha messo del tempo a decollare - con anche qualche piccolo colpo a vuoto - ma ha regalato più di una soddisfazione, anche se a parer mio è mancata ancora la vera e propria punta di diamante della selezione rispetto alle precedenti edizioni.
Algunas Bestias
di Jorge Riquelme Serrano
Film cileno che racconta un viaggio/riunione di famiglia in cui genitori, figli e nonni si ritrovano costretti nella stessa piccola - e malfornita - isola per alcuni giorni. Ben presto le tensioni tenute sopite da anni di conflitti, rancori e silenzi riemergeranno in tutta la loro violenta passionalità.
La casa che la coppia di genitori Ana e Alejandro vorrebbe trasformare in un hotel non è ancora in grado di ospitare persone per più di un giorno e, oltre alla mancanza di campo per i cellulari, ben presto iniziano a scarseggiare acqua e riscaldamento, acuendo le tensioni tra i familiari
Algunas Bestias è un film visivamente molto curato, a tratti davvero ben riuscito nelle scelte estetiche che inquadrano separando o unendo i membri della famiglia.
Ogni quadro è costruito per una ragione e la staticità del film unita a un forte utilizzo di simmetrie e di immagini a camera fissa - in cui i protagonisti navigano e agiscono - non pesa affatto.
Quello che meno convince, invece, è l'escalation della violenza verbale e non solo, tra i parenti rinchiusi nella casa.
Laddove Happy New Year Colin Burnstead di Ben Wheatley - nella sezione Festa Mobile dello scorso Torino Film Festival - riusciva perfettamente a creare un'esplosione grottesca ed esagerata mantenendo al contempo logicità, coerenza e tempistiche perfette, l'opera di Jorge Riquelme Serrano invece fallisce, trasmettendo l'impressione che gli snodi narrativi in cui cambiano i rapporti tra i protagonisti siano costruiti solo per esigenze di sceneggiatura e non per una naturale evoluzione delle vicende.
Serrano cerca di dare una tridimensionalità e cenni di background familiare all'ottimo cast a disposizione ma, così come le evoluzioni narrative sopracitate, grande parte dei momenti in cui restiamo soli con i protagonisti risultano essere innaturali e sempre votati all'occhio osservatore della cinepresa ("ora mi specchio e mi tocco le rughe così possono vedere quanto sia ossessionata dal mio invecchiamento").
Decisamente meglio la rappresentazione dei comportamenti, della bestialità dei protagonisti, dei loro viaggi nella natura e l'interazione con il mondo selvaggio attorno alla casa: uno degli aspetti più riusciti e interessanti del film.
Infine la violenza, tra i temi centrali del film, che ricorda un po' il cinema di Michael Haneke con la sua capacità di mostrarci da lontano e in maniera estremamente cruda - ma anche asettica - momenti di questo genere.
Tuttavia, a differenza del cineasta austriaco, Serrano non approda mai a quel senso di ineluttabilità dato dalla distanza, proponendo quindi una finzione scenica che non convince affatto.
Algunas Bestias è un'opera indubbiamente con molte qualità e punti forza, soprattutto nei comparti tecnici e nella costruzione visiva, ma che per gran parte della sua durata restituisce la sensazione di vedere qualcosa di molto artefatto - anche se ben pensato - ma in cui è difficile immergersi completamente, notando sempre più il regista e il suo pensiero dietro alle immagini stesse.
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Le Choc Du Futur
di Marc Collin
Le Choc Du Futur, opera prima di Marc Collin è il film che meno mi ha convinto della selezione del 37° Torino Film Festival fino a questo momento.
Ambientato nel 1978, il film cerca ambiziosamente di raccontare la transizione verso la musica elettronica attraverso la storia di una giovane producer discriminata in quanto donna e perchè troppo avanti sui tempi rispetto i suoi committenti dell'epoca.
Un'idea interessantissima che avrebbe potuto prendere i risvolti più disparati, ma che invece si appiattisce su una mancanza di tensione narrativa che banalizza qualsiasi tentativo di approfondimento della ragazza o del periodo storico.
Ana, la giovane producer interpretata da Alma Jodorowsky, sin dal primo mattino naviga tra sigarette, sintetizzatori, musica e varie persone con cui entra in contatto, cercando ispirazione in attesa della grande serata in cui un famoso produttore potrà sentire la sua musica durante una festa di cui è ospite.
Marc Collin sembra non aver fiducia nella forza del suo personaggio, nella sua capacità di trasmetteci la tensione creativa e la qualità del suo lavoro attraverso il solo processo creativo.
Questa mancanza di affidamento si traduce in un continuo accompagnamento dei personaggi che attorniano la protagonista.
Personaggi a cui poter mettere in bocca - con modalità sempre molto marcate - ciò che il regista vuole suggerire allo spettatore con Le Choc Du Futur: la mancanza di fiducia in una donna musicista, l'arretratezza dell'orecchio dei suoi contemporanei, la qualità della musica dell'epoca e la modernità dei suoni e delle tecniche di Ana.
Non è un caso che il momento più coinvolgente sia proprio quello in cui Ana e la cantante venuta per provare uno spot provano e scrivono assieme musica: un frangente in cui la verbosità si riduce al minimo lasciando spazio alla musica e agli sguardi - pieni di chimica - tra le due protagoniste della sequenza.
Le Choc Du Futur è un film in cui sicuramente non mancano aspetti interessanti e ben curati, in particolare alcune costruzioni fotografiche risultano davvero suggestive ed esaltano l'unica location di tre quarti del film, ovvero la casa di Ana.
D'altra parte il percorso della producer e del mondo attorno a lei è davvero troppo poco organico e drammaticamente costruito per accompagnare gli aspetti più interessanti: Ana è brava, è bella, tutti le vogliono bene e l'aiutano, tutti sperano che ce la faccia e anche coloro che sembrano ostacolarla un po' di più, come il produttore dello spot, non fanno altro che darle seconde chance, seppur lei non sembri essere in reale difficoltà creativa o di opportunità fino allo snodo fondamentale della festa, ma anche lì tutto si risolve in pochi minuti.
Le Choc Du Futur suona proprio come un'occasione mancata, non senza qualità, ma i cui i difetti smontano molti aspetti favorevoli presenti nel film.
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[La presentazione de Il Grande Passo durante il Torino Film Festival]
Il Grande Passo
di Antonio Padovani
Il Grande Passo, primo e unico film completamente italiano in concorso al Torino Film Festival, opera seconda (dopo Finché c'è prosecco c'è speranza) di Antonio Padovani con due pezzi da novanta del cinema nostrano come Giuseppe Battiston e Stefano Fresi.
La seconda fatica di Padovani risulta essere un lavoro davvero piacevole e ben costruito in cui, a tratti, una grande leggerezza di fondo lascia spazio a una profondità inaspettata.
Fratelli - come chiunque ha già pensato dei due attori - dello stesso padre ma con madri differenti Mario (Giuseppe Battiston) e Dario (Stefano Fresi) si rincontrano dopo anni perchè il primo, che vive in Veneto, ha fatto scoppiare un incendio cercando di far decollare un razzo. Così, Dario, di cui è subito lampante la romanità, parte dalla Capitale per raggiungerlo e aiutarlo.
Il film ruota attorno a due grandi interpreti che impersonano una coppia di personaggi - abbandonati da un padre assente e irresponsabile - intenti a costruire un nuovo rapporto fraterno e all'inseguimento da parte di Mario del sogno di andare sulla Luna. Sogno che non è solo l'aspirazione fantastica di un bambino, ma anche la volontà di un uomo - che ha studiato ingegneria aerospaziale - di credere in qualcosa e abbandonare una realtà che gli sta stretta.
La pellicola è genuinamente semplice: non cerca di riflettere sui manicomi o sulla malattia mentale (o almeno non lo fa in maniera invadente e preponderante), di calcare la mano su ragionamenti di ambito sociale o sui drammi di due figli abbandonati.
Padovani costruisce invece un film lineare, godibile e divertente in cui presentare l'emancipazione di due uomini che ancora non avevano trovato il loro posto nel mondo riuscendo a seguirli e farceli conoscere in maniera perfetta.
Quasi facendoci sentire parte della famiglia.
Tutto ciò lasciando trasparire le tematiche sopracitate senza però forzare lo spettatore all'analisi, lasciandolo libero - in maniera garbata e delicata - di godersi lo spettacolo per poi, se lo desidera, concedersi un momento di riflessione su quanto ha appena visto.
Un modo di fare Cinema che non sempre è riuscito in Italia, dove spesso preferiamo sovraccaricare invece che togliere: questo è senza dubbio uno dei punti di forza di questo film.
Dal punto di vista estetico, il lavoro di Padovani risulta molto curato: si gioca parecchio con i cliché visivi del cinema americano (viene citato Steven Spielberg, ed è visibile anche una certa somiglianza con la postmodernità spielberghiana di un autore come J.J Abrams) con modalità molto ironiche e azzeccatate.
Talvolta leggermente troppo derivative, ma comunque ben attenuate dallo sguardo sulle campagne, sul mondo al di fuori della città, che risulta essere ottimamente orientato e soprattutto vincente.
Un paio di battute (e scene) di troppo sulla stazza dei protagonisti e qualche personaggio secondario con una recitazione troppo macchiettistica - in un film che non sembrava richiederli - non inficiano tuttavia un ottimo lavoro come Il Grande Passo che sicuramente raggiungerà le nostre sale, rientrando in quel Cinema di Genere "leggero" che sta finalmente riemergendo nel panorama italiano.
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[La presentazione di Ms.White Light durante il Torino Film Festival]
Ms. White Light
di Paul Shoulberg
Ms. White Light, secondo film di Paul Shoulberg, pur essendo una commedia è senza dubbio uno dei film più filosofici e tematicamente difficili della selezione.
Parlare di consapevolezza della morte, di malattia, di empatia non è mai facile, ma lo è ancor meno se si vuole farlo all'interno di un film sinceramente divertente.
Alex, per quasi tutto il film ha un dono, e su quest'ultimo - assieme al padre - ha fondato un'impresa: sa empatizzare con le persone in fin di vita e quindi porta conforto ai pazienti degli ospedali vicini alla dipartita. Tanto è brava a portare serenità ai suoi clienti, tanto non lo è con le loro famiglie e in generale con tutte le altre persone.
Un film che non manca mai di perdere la sua vena comica e a tratti quasi grottesca, ma che cerca di riflettere sulla religione, sulla morte, sulla meditazione e su un'infinità di tematiche che facilmente vi si collegano. Senza dubbio il tono è il grande protagonista in positivo di questo film.
La capacità di passare dalla commozione alla risata, dalla finzione alla sincerità è davvero mirabile e compensa alcuni momenti in cui il discorso profondo sembra perdersi per strada o non risolversi appieno nonostante la sua - a tratti - verbosità.
Sembra quasi che, pur sapendo che dare risposte o essere esaustivi su tematiche di questo tenore sia pressochè impossibile, Shoulberg voglia dir troppo per portare lo spettatore - quasi maieuticamente - a una sua soluzione...
E, forse, in alcuni casi, parlar troppo in un film non è la soluzione migliore, soprattutto con dialoghi poco spontanei sul senso della vita.
Nonostante questa nota leggermente stonata il film è impeccabile, sia visivamente sia narrativamente: molto spesso le due componenti vanno perfettamente a braccetto con scelte visive che rafforzano passaggi narrativi (e viceversa), oltre a spazi lasciati dalla narrazione in cui vengono costruiti momenti davvero suggestivi.
Altro grandissimo punto di forza è la linea narrativa di Nora, giovane aspirante samurai in fin di vita che, dopo essersi salvata, decide di mettere la propria esistenza al servizio di Lex per ripagarla di tutto il tempo le è stato donato: come vogliono i precetti del Bushido, nulla potrà fermarla, neanche i respingimenti di Alex.
Una giovane Ghost Dog di Jarmusch sarcastica e brillante che dona al film un arco narrativo unico, interessante e con un finale davvero convincente, per quanto prevedibile.
Una presenza che spesso toglie il film dall'empasse di momenti "padre e figlia" che rischiavano di poter risultare ripetitivi.
L'elaborazione del lutto, l'apertura verso il prossimo, la voglia di aprirsi al mondo e alle nuove opportunità permeano questo film che pur risultando non perfetto nelle sue tesi, nelle sue risposte e nei suoi ragionamenti e pur perdendosi in un romanticismo che poteva essere gestito meglio, convince sia per il tono - sempre molto ben gestito - sia per un risultato finale che, nonostante i difetti, non sfigura per organicità, estetica e narrazione.
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Pink Wall
di Tom Cullen
Il film che fino ad ora ho preferito del Torino Film Festival, ma ammetto di avere da sempre un debole per il movimento cinematografico del mumblecore e quindi potrei essere di parte.
Tom Cullen attore di Mine, Downton Abbey e Black Mirror esordisce alla regia con la storia d'amore tra Jenna e Leon perfettamente interpretati da Jay Duplass, fratello di Mark e icona del cinema indipendente americano, e Tatiana Maslany che insieme a Cullen era stata protagonista di The Other Half di Joey Klein e che di recente abbiamo visto in Stronger di David Gordon Green.
Pink Wall ci racconta attraverso sei momenti divisi in altrettanti anni di rapporto fra due innamorati la nascita e l'evoluzione del loro sentimento.
Da subito ci viene reso chiaro - dai titoli delle sezioni del film e dai cambiamenti estetici dei protagonisti - che non seguiremo una linea cronologica ma che viaggeremo invece per associazione tra gli alti e i bassi della loro storia.
Pur essendo un film made in UK l'opera di Cullen suona perfettamente all'interno di quel gruppo artistico prettamente americano composto dai vari Joe Swanberg, Mark e Jay Duplass, Lynn Shelton e Greta Gerwig. Proprio come loro l'attore e regista inglese si muove nelle vite dei due giovani attraverso il dialogo: estenuante, insistito, ora lluminante ora superfluo per costruire un legame diretto tra noi e la vita di Jenna e Leon.
Il film è praticamente composto da sei scene, in cui non solo cambiano i rapporti di forza e l'economia del rapporto tra i due protagonisti, ma anche aspect ratio (dal 4:3 del primo incontro fino ad un formato più ampio per l'ultimo anno), vignettature e scelte cromatiche e visive in un percorso che più che riallacciarsi alla sola estetica mumblecore riprende e accentua le intuizioni di Derek Cianfrance in Blue Valentine, pur non raggiungendone la grandezza.
Il film si apre con il passaggio meno rigoroso di queste sei scene: iniziamo nel quarto anno, per passare velocemente al primo e poi tornare di nuovo da dove eravamo partiti.
Cullen mette subito in chiaro le regole del gioco e il contesto in cui stiamo muovendo dove tutto è già presente fin dall'inizio: dialogo esasperato, litigi, titoli per rappresentare gli anni e un amore in crisi.
Attraverso il racconto Jenna e Leon si svelano, ci mostrano le rispettive paure, le loro vulnerabilità e le ferite lasciate dall'altro in modo quasi ineluttabile.
Momenti in cui nessuno dei due vorrebbe vedere la direzione presa dalla loro storia che corre inesorabilmente verso un'amara conclusione.
Pink Wall è un film sull'attimo, sull'istante che cambia un'intera situazione, su come una parola in più o in meno possa scatenare reazioni diametralmente opposte e su come non si possa cambiare ciò che è appena avvenuto, ma solo cercare di farlo funzionare dopo che è successo.
Un film che si regge sulla naturalezza del dialogo tra i personaggi, dove il rispetto dato alla recitazione - e di conseguenza alla libertà d'improvvisazione tipica di questo Cinema - traspare appieno, riportando la memoria a esempi altissimi come la Trilogia dei Before di Richard Linklater (Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight).
Quello che ci viene mostrato è un mondo di giovani che cercano di sfondare e di entrare nella vita adulta, nella quale la paura di fallire, la voglia di successo e la necessità dell'altro (che può anche generare oppressione) sono i veri motori degli avvenimenti e simboli di ciò che cambia nel tempo.
Pink Wall è un gran film, non esente da difetti - come qualche appiattimento su cliché di dialogo o rispetto la narrazione romantica che risultano non necessari - ma che grazie a una forza visiva, recitativa e concettuale convince completamente, qualora si sia disposti a guardare novanta minuti di persone che parlano e discutono spesso del nulla, per cercarvi all'interno la decostruzione e la fenomenologia dell'amore.