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Manta Ray è il nome inglese per le Mante, pesci cartilaginei che raggiungono anche i 9 m di lunghezza: le Mante sono classificate dalla scienza come vulnerabili - quindi vicine al pericolo di estinzione - e per proteggersi durante le grandi tempeste marine, che corrispondono al periodo dei monsoni asiatici, tendono a rifugiarsi nei pressi della costa, laddove la loro vulnerabilità viene notevolmente amplificata.
I Rohingya sono, invece, una minoranza etnica di religione musulmana che vive nel nord del Myanmar, un paese a maggioranza buddista: perseguitati a causa della propria fede, sono costretti a cercare la fuga attraverso il fiume Moei, confine naturale tra la propria terra e la Thailandia, o via mare, incontrando spesso la morte e venendo, conseguentemente seppelliti nella foresta thailandese.
Quella delle Mante e quella dei Rohingya sono parabole tristi e per molti versi speculari, che Phuttiphong Aroonpeng, cineasta thailandese di formazione artistica statunitense, ha messo in relazione all'interno della sua opera prima.
Manta Ray, infatti, è anche il titolo del film di esordio di Aroonpeng.
[Phuttiphong Aroonpeng premiato nella sezione Orizzonti della 75ª edizione della Mostra internazionale del Cinema di Venezia per Manta Ray]
La pellicola ha avuto un successo deflagrante: è risultata vincitrice nella sezione Orizzonti della Mostra Internazionale di arte cinematografica di Venezia 2018 e contestualmente ha ricevuto il premio come Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.
A partire dal 10 ottobre, Manta Ray, film patrocinato da Amnesty International Italia, è arrivato nel nostro Paese e, malgrado una distribuzione inevitabilmente limitata, ha continuato a ottenere consensi.
La chiave di lettura per l'interpretazione dell'opera deriva proprio da Aroonpeng:
"Il fiume Moei. Un piccolo specchio d’acqua segna il confine tra la Thailandia e il Myanmar.
Sono arrivato in questo posto nel 2009, solo ed emozionato, guardando il Myanmar.
Non c’era nessun check-point per il controllo dell’immigrazione, nessun soldato di pattuglia, nessun filo spinato.
Solo un torrente profondo fino alla cintola mi separava dall’attraversamento.
Un bambino spuntò da un cespuglio.
Entrò in acqua e cominciò a nuotare nella mia direzione, verso il mio paese.
Sul mio lato della riva, a un paio di metri di distanza, altri due ragazzi stavano scherzando. Gridarono al ragazzo straniero di nuotare e unirsi a loro.
Guardai come i tre ragazzi nuotavano e cantavano insieme nel Moei.
Quello stesso anno, sulla costa thailandese, barche che trasportavano rifugiati furono respinte dalle autorità.
Cinque barche di legno si rovesciarono.
300 Rohingya scomparvero in mare.
Avrei voluto per loro il destino di “Thongchai”, il personaggio principale della mia sceneggiatura; ferito e scaraventato sulla costa tailandese, ma vivo."
Con queste parole il regista di Manta Ray ha introdotto la propria opera in occasione della kermesse veneziana e, proprio grazie a queste parole è più semplice per noi tracciare le coordinate di un'opera che fa del silenzio inframezzato da sonorità insolite, della contemplazione e dei forti richiami simbolici i propri punti di forza.
[La locandina italiana di Manta Ray]
Manta Ray si apre proprio con una dedica ai Rohingya e ci mostra immediatamente la figura inquietante di un uomo munito di mitra e coperto di luci sgargianti che fa la ronda nella foresta thailandese, luogo centrale all'interno dell'opera grazie alla forza misterica che è in grado di trasmettere.
Proprio nella foresta avviene l'incontro che dà il via alla narrazione: un pescatore, il cui nome resterà ignoto per tutta la durata del film, ritrova un uomo Rohingya gravemente ferito.
Il pescatore se ne prende cura, lo sfama e gli permette di tornare a una vita normale, ma l'uomo ritrovato non è in grado di parlare, probabilmente a causa del trauma subito prima del suo ritrovamento.
Il pescatore, comunque, offre a quello sconosciuto tutto ciò che la sua umile vita può concedergli: un tetto sotto cui ripararsi, del cibo, e, soprattutto, un nome.
Lo chiama Thongchai, come una nota pop-star thailandese.
Tra i due protagonisti nasce un rapporto profondissimo, che porta il pescatore a raccontare al suo nuovo amico del suo passato e del fallimento del matrimonio con sua moglie Saijai, che lo ha lasciato per un soldato.
Il pescatore introduce il suo ospite anche alla sua attività di cercatore di pietre preziose sepolte sotto il terreno nella foresta e alla sua vita da uomo di mare, arrivando anche a spiegargli cosa spinge le Mante nei pressi della riva nel periodo dei monsoni.
Grazie ai brevi racconti del pescatore emergono dunque le due metafore centrali della pellicola: Thongchai, rappresentazione dell'intera popolazione Rohingya, viene accostato sia alle Mante che cercano rifugio, sia alle pietre preziose che si trovano sepolte nella foresta.
[Trailer internazionale di Manta Ray]
Thongchai è fuggito dalla tempesta della guerra cercando un riparo su una riva serena, come una Manta, e ed è stato ritrovato per terra nella foresta, nascosto dalla vegetazione, proprio come una pietra preziosa.
I due simboli più evidenti vengono quindi introdotti con delicatezza, all'interno della rappresentazione di un rapporto caratterizzato da gesti quotidiani e lunghi silenzi.
L'amicizia tra i protagonisti diventa l'elemento centrale della pellicola, finchè il pescatore non scompare in mare.
Thongchai a questo punto cerca di sostituirsi al suo amico perduto proseguendone la routine e fronteggiando alcuni eventi imprevedibili al suo posto.
Pur mettendo in scena delle dinamiche piuttosto semplici tra uomini feriti dalla vita, Manta Ray ci appare come un film estremamente complesso sia nella costruzione narrativa che nella interpretazione allegorica.
La narrazione procede prevalentemente grazie alla forza simbolica delle immagini - visto che i dialoghi tra i personaggi sono pochissimi e ridotti all'osso - e lo spettatore è costantemente sprovvisto di reali coordinate che possano indirizzarne l'attenzione.
Il mondo di Manta Ray è animato da componenti di natura opposta che si incontrano sullo schermo e producono un continuo effetto di straniamento: all'estremo realismo che pervade la pellicola nella sua interezza fanno da contraltare sequenze dalla forte carica simbolica, pervase di un alone di magia che spiazza e costringe a riflettere.
Malgrado allo spettatore risulti evidente l'attualità e la crudezza della storia, l'intero film è avvolto da una sensazione di sospensione, di onirismo.
Il risultato è una sorta di potentissimo realismo magico che pervade la pellicola, rendendola un'esperienza profonda, complessa, unica nel suo genere.
Il lavoro congiunto di Aroonpeng con il direttore della fotografia Nawarophaat Rungphiboonsophit è da questo punto di vista ineccepibile: Manta Ray è un film visivamente impattante e obbliga lo spettatore a contemplare a lungo ogni quadro, sfruttando l'estrema dilatazione temporale dei propri tempi narrativi per far sorgere nello spettatore interrogativi e riflessioni che non si esauriscono con la visione.
La pellicola aderisce con decisione al proprio intento di dar voce a chi non ha voce.
Manta Ray sfrutta la sua natura anti-narrativa e si sofferma a lungo sulle varie sfumature che il silenzio può assumere, sull'importanza dei suoni più semplici e sulla possibilità di poter comunicare anche in assenza di voce.
L'opera fornisce, poi, gli spunti per riflettere anche sui concetti di memoria collettiva, di dualità, di catarsi e di mutamento storico -che emergono netti proprio quando Thongchai si sostituisce all'uomo che lo aveva salvato- ma non insiste mai sugli stessi in maniera didascalica.
Ciascuno di questi temi rende ancor più evidente il riferimento di Manta Ray all'eracliteo πάντα ῥεῖ (Pànta rheî), la riflessione sul divenire che coinvolge pienamente l'umanità e le sue esperierienze, ma nessuno nuovo spunto tematico contribuisce alla ricostruzione completa e immediata dei tasselli dell'opera.
L'autore lascia nelle mani dello spettatore un'enorme parte del lavoro di connessione dei pezzi disseminati di Manta Ray: un compito non semplice, reso ancor più ostico dalla delicatezza dei temi trattati.
Malgrado la natura evanescente della sceneggiatura, Aroonpeng si è dimostrato capace di dirigere con maestria tre personalità notissime in Thailandia in maniera funzionale alla sua pellicola.
Il pescatore, il personaggio che ci permette di entrare in contatto con le metafore di Manta Ray, è interpretato dal Wanlop Rungkamjad, autentica leggenda del cinema tailandese.
Thongchai è, invece, interpretato Aphisit Hama, dj e fashion stylist, che nell'opera si è mostrato straordinario nell'interpretazione di un uomo costretto a comunicare senza poter parlare.
Persino Saijai ,la moglie del pescatore, è interpretata da un volto noto della cultura pop thai: Rasmee Wayrana, notissima cantante che mette al servizio dell'opera anche il suo talento canoro in una delle scene più liriche del film.
Il fatto che un autore debuttante abbia potuto godere di un cast così prestigioso testimonia quanto sentito in Thailandia sia il tema alla base di Manta Ray.
Un tema che, grazie alla potenza delle immagini e al linguaggio simbolico dell'opera, ha raggiunto in maniera fragorosa anche il pubblico occidentale.
Se amate il Cinema anti-narrativo e la profonda contemplazione delle immagini, se amate quei momenti nei quali la settima arte ci costringe a riflettere e a fare i conti con gli aspetti più duri legati alla condizione dell'essere umani, questa è una pellicola che non potete lasciarvi sfuggire.
Manta Ray sarà per voi una visione complessa, a tratti ostica, ma in grado di immergervi completamente in un mondo mai esplorato in precedenza.
Voto: 78%
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