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Uno dei tanti, enormi, colossali, ridicoli, tragicomici errori di comunicazione che esiste e divide critica e pubblico, riguarda la definizione di "Cinema d'autore".
Da un punto di vista del tutto personale, come potete aver intuito dall'introduzione vittima dell'aggettivismo sfrenato, l'inghippo è creato in primis dalla critica stessa, arcignamente seduta in quella posizione che l'uomo della strada ha stigmatizzato nella figura del professorone sinistroide spocchioso e radical chic che in un tripudio marzullesco, esibendosi in voli pindarici semantici, non si spiega e non spiega il Cinema ai suoi lettori.
Si trincera dietro la sua saccenza glorificando "L'occhio della madre" e dando pane ai denti di chi come il ragionier Ugo Fantozzi si sente di parlare come mangia e grida che "La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!".
Il pubblico, così, è diventato un po' vile nel credersi giusto nella sua crociata da asino ragliante, quella che a scuola ci additavano quando dicevamo troppo "Io! Io! Io!", cercando a tutti i costi i 92 minuti di applausi, la battuta sagace da commentatore memorabile e glorificando la convinzione che la propria opinione sia un fatto e non, appunto, un'opinione basata unicamente sulle proprie conoscenze.
Come potete vedere in questa sporca vicenda c'è un circolo vizioso di rancori e malriposte convinzioni che gettano benzina su un brutto errore di veicolazione delle informazioni tra specialista e pubblico che, quando legge un contenuto critico, desidera essere informato e non indottrinato da un saccente accondiscendente.
Un circolo che ha generato i mostri e diffuso convinzioni sbagliate e malumori, paragonabili allo spargimento di sale su un campo di guerra contaminato da troppe scorie.
Arrivati quindi alla conclusione che il critico è quello che ha creato la prima barriera e che il pubblico è colui che ha poi deciso di darsi alla barbarie, sembra quantomai opportuno provare a risolvere uno dei problemi causati da questa battaglia, facendo chiarezza su cosa sia il Cinema d'autore ed entrando nel rapporto, odi et amo, tra l'autore e il pubblico.
Il Cinema d'autore non è identificato da un film elevato o culturalmente superiore, come si pensa comunemente, e non si chiude nemmeno nella sfera di un genere.
Questa è la comune credenza che porta, molto spesso, gli entusiasti del Cinema e i buffoni armati di tante risorse e molto tempo da perdere a fondare festival cinematografici dove il premio o la selezione si basa unicamente su prodotti volutamente ricercati o che fanno leva su tutti quegli elementi drammatici definiti, nel corso degli anni, "da festival".
Un "Mattone polacco minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo, copie vendute: 2", non fa il film.
Un errore comune di chi a un festival vero non c'è mai stato, altrimenti saprebbe che il Festival del Cinema di Cannes ha premiato anche Cinema lontano dal dramma, spesso di genere, consegnando la Palma d'oro a film quali Taxi Driver, Cuore Selvaggio, Pulp Fiction e non solo ai cosiddetti lungometraggi festivalieri come La stanza del figlio o The Tree of Life - film stupendi, siamo chiari.
Il film d'autore è invece un film riconoscibile all'interno della logica dell'autore che lo gira, non del genere che viene messo in scena o di uno stilema narrativo identificabile come d'autore.
Quentin Tarantino è un autore, perché che voi stiate guardando Le Iene o The Hateful Eight, la poetica del suo Cinema e i segni distintivi della sua scrittura e messa in scena sono comunque riconoscibili.
David Lynch è un autore perché, allo stesso modo, da Eraserhead a INLAND EMPIRE, passando anche per Twin Peaks, il suo segno è riconoscibile e identificabile anche nel caso la sceneggiatura non sia sua - come avvenne per Una storia vera - o quando la storia si sposta su toni più umani come The Elephant Man.
[La première di Fuoco cammina con me a Cannes]
Rob Zombie è un autore perché che stiate guardando il suo remake di Halloween o Le streghe di Salem, vi troverete i suoi tocchi visivi e i suoi stilemi narrativi e il suo personale concetto di horror.
Woody Allen è un autore perché nel corso della sua ampia filmografia si è reso riconoscibile nei temi di sesso e decesso, nella sua regia da cavalletto, quadrata e sbrigativa "così possiamo tornare a casa in tempo per la partita", nelle sue brillanti sceneggiature e nella ricerca di alcuni totem narrativi comuni sia nel dramma che nella commedia.
John Carpenter è un autore e lo capite da tutte le strutture narrative che applica ai suoi film, che siano horror o commedie, mettendo in scena sempre determinati temi da evolvere e declinare attraverso nuovi espedienti a seconda del film che si trova tra le mani, ma pur sempre riconoscibile.
I modi di fare Cinema di queste personalità prendono quindi il loro nome e si creano termini quali carpenteriano, tarantiniano, burtoniano, lynchiano, alleniano, romeriano, cronenberghiano, scorsesiano, felliniano, argentiano, kubrickiano, herzoghiano e via dicendo, molti dei quali ufficialmente inseriti nell'Oxford English Dictionary, tanto per sottolineare la serietà della cosa.
Anche nella serialità abbiamo cominciato ad avere alcuni autori ed è inutile negare che Vince Gilligan sia diventato una voce d'autore riconoscibile all'interno del panorama dello storytelling televisivo, segnando il medium con le sue vie di scrittura, racconto e messa in scena.
Breaking Bad e Better Call Saul, uguali eppure diversi, sono opere gilliganiane.
[Dietro le quinte di Breaking Bad]
Al tempo stesso, che non me ne vogliano i soggetti citati, esistono registi che anche quando di talento non si distinguono per un proprio segno autoriale.
Prendiamo ad esempio un regista che personalmente amo alla follia e che la massa, il pubblico, conosce indirettamente: Richard Donner.
Donner è stato uno dei più grandi registi di Hollywood e avere lui alla regia, indipendentemente dal genere, significava sicuramente avere tecnicamente un lavoro solido e che funziona.
Ma non è un autore.
Non è un regista con un segno distintivo e posso dimostrarvelo citando alcuni dei suoi film più celebrati che vi riporteranno all'affermazione fatta poco sopra: The Omen, Superman e Superman II, I Goonies, Ladyhawke, Arma Letale, SOS Fantasmi.
Nessuno di questi film ha un segno autoriale, una voce donneriana in comune, bensì si contraddistinguono per una direzione oltre il solido, un manuale di come si dirige un film, che sia commedia, azione o horror.
Prendiamo in esame un regista italiano: Paolo Genovese.
Un regista celebrato in Italia, ma che contrariamente a Matteo Garrone, Stefano Sollima o Paolo Sorrentino non possiede un segno autoriale riconducibile a un'idea di Cinema o a una poetica di scrittura e messa in scena.
Esiste magari un filone narrativo a lui congeniale e la sua regia può essere lodata tecnicamente, ma nessun segno distintivo è presente per dire che Paolo Genovese è deus ex machina di quelle pellicole.
Sapevate che La banda dei Babbi Natale è diretto da Paolo Genovese?
Io no, e non avrei saputo dirlo.
Perché non è un autore.
Ricapitolando, il Cinema d'autore è proprio dell'autore che lo fa e che vi si distingue nel farlo, non del genere o della forma che questo prende una volta confezionato.
Arrivati a questo punto si sblocca il conseguente cortocircuito creato dal pubblico, incapace di identificare e riconoscere adeguatamente l'autore e il suo Cinema, visto l'errore di comunicazione da parte della critica, e che fatica con il passare del tempo e lo spostarsi delle produzioni a dare una valutazione pulita a ciò che vede.
Quello che si viene a creare è un fraintendimento per il quale dopo qualche tempo la critica che viene mossa verso certi personaggi è quanto questi si stiano ripetendo o, paradossalmente, estremizzando nell'allontanarsi dai loro prodotti seminali.
Prendiamo in esame alcuni autori utili a questa disamina.
Wes Anderson è attualmente in fase di produzione del suo nuovo film The French Dispatch, che al momento vede nel cast una serie di attori feticci del regista - come Bill Murray, Owen Wilson e Jason Schwartzman - e nuovi volti - Timothée Chalamet - anticipando un film dal cast sconfinato - Adrien Brody, Benicio Del Toro, Henry Winkler, Léa Seydoux, Kate Winslet e Jeffrey Wright, per citarne alcuni - ennesima opera corale che andrà a unirsi a pellicole quali Moonrise Kingdom, I Tenenbaum o Grand Budapest Hotel.
Conoscendo gli stilemi di storytelling visivo, i toni della sceneggiatura idiosincratica, il tipo di direzione artistica, i tempi e gli ambienti che Wes Anderson dona ai suoi film, conoscendo quindi l'autore, sono molti coloro che non vedono l'ora di ammirare il film sul grande schermo.
Molti altri hanno invece iniziato a sollevare l'ipotesi che l'operazione cominci a essere stanca, stantia, l'ennesimo racconto di un regista che fa sempre lo stesso film e non sa più cosa dire o come innovarsi.
Il teorema dell'assurdo.
Come spiegato sopra, Wes Anderson è un autore e in quanto tale è stato contraddistinto da una poetica talmente personale da diventare un aggettivo, una definizione, che quando viene emulata diventa uno scimmiottamento del suo Cinema, portando la gente a dire "Ehi, ma quello sta copiando Wes Anderson!".
Chiedere a Wes Anderson di diventare Paolo Genovese non ha alcun senso perché il regista, come ogni autore, è in grado di esprimersi unicamente attraverso la sua personale poetica.
Come un alieno che è capace di comunicare attraverso un proprio linguaggio e che, intrappolato nelle sue maniere, ne fa tesoro nel tentativo di veicolare al suo interlocutore i meravigliosi sentimenti che condivide con lui, nonostante gli anni luce di distanza e le impossibilità di comunicazione della lingua.
Non concependo questo aspetto del segno autoriale e del Cinema d'autore, il pubblico va a denigrare o svalutare un lavoro che è uguale a se stesso dato che non vi è altra strada o altro viandante che possa imboccarla senza sentirsi un intruso o una triste emulazione.
Allo stesso modo abbiamo Quentin Tarantino, regista e sceneggiatore riconoscibile non soltanto nelle sue abilità di scrittura, ma in un Cinema che in scrittura tanto quanto in regia e messa in scena vive di citazionismi e mescolanze, figlie di altri autori e altri generi.
Tarantino crea delle proprie realtà verosimili eppure fittizie, per rendere plausibili e familiari i suoi personaggi, portandoli poi in cima grazie alle commistioni della sua regia che mescola il Cinema americano à la Sam Peckinpah, lo sguardo italiano di Sergio Leone e la dicotomia orientale tra Toshiya Fujita e Akira Kurosawa.
Segue la regola secondo la quale "Se devi rubare, ruba dai migliori", prendendo la sapienza di Federico Fellini per la scena del ballo di Pulp Fiction e la blaxploitation di Foxy Brown per un noir dolente come Jackie Brown, pellicola che guarda caso, spostandosi nei toni seppur riconoscibile nella poetica del suo autore, viene spesso ignorata quando si parla di Quentin Tarantino.
[Ciao Cinema orientale, come stai?]
Jackie Brown, come The Hateful Eight e C'era una volta a... Hollywood, appare al pubblico e a certa critica come un film non appartenente al segno di Tarantino, pur rappresentando un percorso di personale ricerca all'interno della logica del suo autore.
Tarantino, contrariamente a Wes Anderson o ad altri, non ha mai del tutto assestato la sua poetica d'autore e nel corso del tempo, pur portando avanti i fondamenti del suo linguaggio, ha cercato di muoversi da una fase più adolescenziale e giovanile verso toni più maturi e posati.
Il suo C'era una volta a... Hollywood è la successiva evoluzione di un autore che cambia la sua visione del racconto cinematografico per virare verso qualcosa di diverso, anche di messaggio e tema da trattare, ma questa evoluzione non gli è stata perdonata da molto del suo pubblico, come non lo perdonò per Jackie Brown ai tempi, lasciando la sala per poi pentirsene quando qualcuno gli ha detto, "Ma nel secondo tempo fa la sua cosa à la Tarantino!"
Altro esempio di autore che evolve la propria logica narrativa è David Lynch.
Un artista che si riconosce in alcuni capisaldi, come il tema del doppio, e che da Eraserhead a INLAND EMPIRE ha attraversato diverse fasi, creando con Velluto Blu il neo-noir per poi reinventarlo con Strade Perdute e Mulholland Drive, creando un nastro di Möbius e identificandosi in quello che viene volgarmente chiamato mind-fuck movie.
Lynch è tutto in Eraserhead, se volete capire i suoi archetipi narrativi, ma nel corso del tempo ha ampliato la sua coscienza artistica, sentendo l'esigenza di mettere in scena storie con un respiro differente, arrivando a rivoluzionare la serialità televisiva con Twin Peaks, che è un magnifico pretesto per creare un proprio universo nel quale mettere in scena tutte le sue idee sul mondo, sul lato spirituale della sua persona e le credenze che governano la sua mente.
Fondendo infanzia ed età adulta e sfociando nella consapevolezza totale con Twin Peaks - The Return.
David Lynch, pur rimanendo riconoscibile in quanto David Lynch, ha portato al pubblico un tipo di evoluzione che ha generato molteplici reazioni violente da parte del pubblico.
Quello stesso pubblico che si è detto schifato dalla violenza di Cuore selvaggio, che è andato al cinema a vedere Fuoco cammina con me convinta di conoscere Lynch e che si è invece indignato per un flow narrativo a lui alieno, non conoscendo la logica cinematografica del Lynch libero di creare.
Lo stesso pubblico che dopo aver celebrato Twin Peaks per anni è rimasto attonito assistendo alla première di Twin Peaks - The Return, tradendolo nuovamente perché tanto diverso, seppure in verità sempre uguale a se stesso.
Il pubblico, in questo gigantesco equivoco che è la concezione di Cinema d'autore, non riesce a collocare il proprio gusto e rimprovera l'autore à la Wes Anderson o à la Woody Allen di essere sempre uguale e noioso, quando questo è invece inserito in un proprio linguaggio ben preciso, declinato per raccontare storie e sentimenti diversi, e allo stesso modo lo contesta quando il suo sentire vira verso altre forme di espressione, pur rimanendo dentro il proprio ideale di Cinema.
Prendendo un altro cineasta che ha cambiato ed evoluto il suo storytelling e la sua forma nel corso del tempo e delle produzioni potremmo citare Nicolas Winding Refn, il cui percorso da Pusher a Too Old to Die Young mostra tutte le sfumature del suo giocare con i tempi, del suo creare protagonisti silenziosi e monolitici seppur dominati da sentimenti stratificati, da una rabbia animale o da un vuoto interiore.
A mioo avviso Refn è al momento un mistero autoriale: non ho ancora capito dove stia andando con la sua esplorazione visiva e di storytelling, né quale sarà la sua vena da qui in avanti, se il suo incedere estremamente posato e vischioso visto in Too Old to Die Young prenderà il sopravvento o se le esplosioni di azione viste in Drive o la cinetica di un racconto come Bronson torneranno a dominare la scena in altri racconti, come l'annunciato reboot televisivo di Maniac Cop, il cui focus sarà proprio di proporre azioni frenetiche e un racconto di genere autentico e non edulcorato.
Autentico, unico e dannatamente interessante da seguire, anche quando mi fa storcere il naso.
Tornando invece a un autore il cui segno non è mai cambiato, è possibile buttare nella mischia il buon Guillermo del Toro che da Cronos a La forma dell'acqua, fino a fare una sosta alla sua serie TV The Strain, ha mantenuto una sua poetica ben precisa.
Poetica tipica di un regista che non è interessato a raccontare il reale o il reale di qualcun altro - come nel caso del suo Hellboy, reso molto più cinetico e saturato e meno noir - e che ha sfruttato le sue doti creative e di designer per dare forma a mondi e storie che possono declinarsi in favole orrorifiche, che spezzano terrificanti spaccati di guerra e di oppressione, racconti di fantasmi umani, riecheggianti immagini iconografiche classiche.
Il suo Crimson Peak è un po' un giallo all'italiana con l'assassino che ha cappellaccio e mano guantata, ed è anche un po' horror gotico inglese.
Il suo La forma dell'acqua è un po' Mostro della Laguna e un po' Scooby-Doo.
Il suo Pacific Rim è un po' Neon Genesis Evangelion, con tanta gente che non lo ha riconosciuto salvo dichiararsene estimatore qualche anno dopo, e molto figlio del manga kaiju giapponese e dei robottoni.
Eppure è tutto Guillermo del Toro, palesemente arricchito dalla sua poetica d'autore anche quando riproduce volutamente - e se non lo capite buona pace per la vostra anima - il cliché del mostro nascosto nel cestone della biancheria.
Forme di citazionismo autoriale, arricchito da una propria idea di Cinema e racconto, che il pubblico perdona ad altri ma non al buon Guillermo perché, per le ragioni di cui sopra, vede ogni singolo film del regista come un film e non come l'opera di un autore.
E dimentica, o forse non gli è stato spiegato dal recensore, che Il labirinto del fauno è figlio anche de La spina del Diavolo e che la logica tarantiniana di Bastardi senza gloria, della storia con la s minuscola, a quel film di qualche anno prima gli dà del "tu".
Guillermo del Toro, come Wes Anderson, è un autore: possiede un proprio stile ben consolidato e lo mette al servizio dello script che sceglie di portare sullo schermo, e come Tarantino sente l'esigenza di creare un proprio, personale mondo citando altri stilemi e icone, anche quando retoriche, principalmente per il piacere e l'amore che nutre verso di esse.
Il fatto che il pubblico le riconosca più facilmente di un riferimento a Mario Bava o ad Antonio Margheriti non sminuisce il suo segno.
Il pubblico, come anticipato, non è però innocente e nel suo essere bue non nasconde solo il criminale distacco che il critico ha creato con lui, ma la tendenza dell'industria a trasformare il Cinema in televisione.
Il Cinema è diventato rassicurante e la televisione, ora foriera di libertà d'espressione e di idee, garantisce lo spazio utile a destabilizzare, a creare contesti e racconti sempre più complessi, affascinanti e a volte duri con le budella dello spettatore.
Lo schermo del cinema, quello massificato e pop per il grande pubblico - non entriamo nelle ottime eccezioni - è sempre più simile al piccolo schermo anni '80 e tra supereroi, reboot, remake, saghe infinite e operazioni nostalgia, ha trovato l'incasso, quando va bene, abituando lo spettatore non a segni autoriali, non a film che rimangono e lasciano qualcosa, ma al rassicurante anonimato delle pellicole fast food, prodotte in serie, senza grassi idrogenati e con un sapore brandizzato.
Lo spettatore, non sapendo più cosa sia un autore, segue il brand, segue la moda e non sa più identificare bello e brutto, scegliendo quello che tira.
Se tira il Joker andrà a vedere Joker e se tira Tarantino andrà a vedere Tarantino, ma la codifica post-visione, quello che l'intimo del pubblico lasciato al buio in sala dovrebbe processare, non inizia e non vi è molto spesso elaborazione personale di quello che il racconto ha comunicato, quanto una dichiarazione pubblica da dare in pasto ai social network, come fossero politici chiamati a rilasciare una comunicazione istituzionale.
Gli autori nel loro senso ampio - quindi nel Cinema, come nella televisione, nella musica, nel gaming o nella letteratura - sono il sale che nutre la forma di intrattenimento e che la porta a diventare bella, memorabile, appassionante.
Capire cosa ci piace, chi ci piace e perché, ci aiuta non solo a costruire un nostro personale gusto, quindi un'identità, ma disinnesca la vera noia, ovvero l'ossessiva fruizione di prodotti brandizzati da guardare in quanto evento e non per un reale interesse.
Per quanto sia importante capire e assistere a un evento, si rende molto più importante capire gli autori e capire cosa stiamo guardando e quali ingranaggi l'autore muove anche dentro di noi e non solo nel suo artigianato, al fine di dare vita a sentimenti potenti, storie memorabili, mediocri o semplicemente apprezzabili.
Il Cinema non vive di assoluti, non vive di capolavori o di filmacci, vive di sfumature e di autori che creano mescolanze complesse: sta a noi viverle, assorbirle e comprendere quali ci piacciono o no, entrando nelle logiche a noi affini e scoprendo, ascoltando, i linguaggi di altri che, in quanto tali, possono essere uguali a se stessi o suonare con qualche strano accento di tanto in tanto, ma pur sempre unici e mai noiosi.
Perché non si è mai sentito di un uomo che si sveglia e dice
"Sai che c'è? L'accento di casa mia mi ha stufato, questa lingua è sempre uguale, che noia!"
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4 commenti
Filman
5 anni fa
Personalmente penso che le influenze "Bayiane" si siano fermate alla TV pre-2010. Ma potrei sbagliarmi.
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Mi sono piacevolmente sbagliato.
Bay non lo reggo ma, quantomeno, mi rendo conto che un film di Bay è riconoscibile in quanto foriero di un suo personale linguaggio.
Un linguaggio che è stato imitato e riprodotto, soprattutto quando è lui a fare il produttore.
Molti non saranno proprio contenti, eppure Bay è un autore, perché riconoscibile in un suo segno.
Tanti dimenticano che il genere che questo fa non ha nulla a che vedere con il fatto che un cineasta sia un autore o meno.
A Bay riconosco una buona mestieranza nel girare per lavorare con l'effetto speciale, cosa difficile e che non molti sanno fare, ma al tempo stesso quella mestieranza la butta via con altre cose.
Eppure non sono proprio d'accordo con quanto dici, poiché è lo stesso Bay nella citazione, sempre che Bay l'abbia effettivamente detta, a smentirti.
Un autore, per essere influente, deve creare un filone, essere imitato e diventare oggetto di discussione e ammirazione da parte di colleghi e aspiranti tali.
Bay se la canta e se la suona.
Che poi abbia trovato un pubblico, non ha molto da dire, un pubblico enorme lo ha trovato anche Tommy Wiseau.
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Alla stessa domanda avrei forse risposto, "se mia nonna avesse le ruote, sarebbe una cariola".
Un regista che non è Quentin Tarantino non avrebbe saputo girare quel film in quel modo e quell'opera non esisterebbe per come è stata vista a schermo.
Il film di Tarantino è una di quelle cose che mi ha spinto a scrivere questo pezzo, perché il pubblico contesta l'autore quando è canonizzato nei suoi schemi di linguaggio e quando si discosta per prendere toni differenti.
Se dopo Le Iene e Pulp Fiction avesse fatto un ennesimo Pulp Fiction al posto di girare Jackie Brown, lo avrebbero accusato di essere il solito regista.
Siccome ha fatto Jackie Brown, alcuni lo hanno quasi ritenuto bollito, perché non capivano l'operazione fatta dal regista nel suo omagginare un certo tipo di cinema e non comprendevano il ritmo più languido di una storia posata e dove la comicità era meno grindhouse e più elegante.
Il pubblico non capisce quello che guarda e molto spesso nemmeno il critico e molto spesso nemmeno io, ma mi rendo conto di quanto a volte sia necessario anche il tempo al fine di digerire qualcosa che è formato da complessità nuove.
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Alessandro Dioguardi
5 anni fa
Il pubblico non ha capito che il nome del regista ha la stessa valenza del nome di un AUTORE sulla copertina di un libro o sul CD/Vinile/versione digitale di un album musicale; io leggo un libro di Michael Chabon a prescindere dell'argomento, poiché amo la sua scrittura ed i suoi temi e allo stesso modo compro un album dei RHCP o del Black Keys perché amo la loro musica e non in base a chi lo abbia prodotto.
L'affetto che il pubblico nutre per certi brand non lo condanno.
Quello capita a tutti e in altri media.
Quello che non perdono è il non rendersi conto di quando quel brand ti sta prendendo in giro e sei vittima della sindrome di Stoccolma, ma anche questo è un diverso discorso.
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