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William Shakespeare ha scritto che "siamo fatti della stessa sostanza dei sogni", ma questo è stato molto tempo prima che la scienza cominciasse a comprendere la vera natura dell’uomo, prima che ci venisse detto che abbiamo un DNA, un codice genetico a dettare i nostri tratti somatici, il colore dei nostri occhi, il sesso, la statura, la stazza, facendo dell’essere umano un elemento organico generato proceduralmente estraendo a sorte, o per leggi della natura, gli elementi comuni di due individui.
A quel punto l’essere umano ha iniziato a chiedersi se nel DNA non ci fosse scritto anche il fato, il destino, il percorso che un uomo avrebbe poi intrapreso.
Era possibile che fra le eliche della genetica ci fosse risposta anche ai nostri demoni?
Nasciamo buoni o cattivi? Siamo programmati per diventare alcolizzati cronici tendenti all’infelicità o no?
Alcuni istinti oscuri, le violenze e gli abusi vengono forse da un genoma che ci spinge a compiere atti deplorevoli?
Honey Boy, in buona misura, mette questo argomento a contorno di una storia scritta da Shia LaBeouf come terapia per cercare e distruggere il centro della sua rabbia, dei suoi traumi e di quei contrasti che lo hanno portato a essere incline ad azioni violente.
Una rehab che ha portato l’attore a riconoscere il centro nevralgico dei propri traumi nel rapporto estremamente conflittuale con il padre, un uomo che lo ha costretto a maltrattamenti fisici quanto mentali.
Un percorso del quale Honey Boy beneficia e che trova proprio nella scrittura dei personaggi e nella rappresentazione dei punti cardine dell’animo in frantumi di LaBeouf, il principale punto di forza.
In fondo una ottima prosa è una prosa onesta e la penna di LaBeouf per questa sceneggiatura è quanto di più autentico e genuino possiate mai trovare in un biopic.
Sarebbe stato molto facile presentare un film indulgente, poco marcato nelle mancanze mostrate dal doppio di Shia LeBeouf e ben più crudeli nei confronti del padre, scatenando un retorico vittimismo del divo hollywoodiano dal passato difficile.
In Honey Boy, invece, Hollywood è quasi una postilla a pie' di pagina, una nota che lo spettatore conosce implicitamente e che non è importante per il film, poiché il focus diventa immediatamente un protagonista che non ha un conflitto con la sua celebrità o con il suo dover essere un attore, bensì con qualcosa dentro di lui che lo consuma, riscrivendone il DNA e decretando la sua discesa lungo un cammino fatto di alcol e scollamento dal mondo.
Otis, il protagonista del film, è irascibile, supponente, arrogante, depresso, dominato da sentimenti di rabbia che lo portano a essere la peggiore versione di se stesso, assecondando eliche di un DNA scritte da altri e imposte alle generazioni future con un lavaggio del cervello crudele.
Però Honey Boy si concentra sull’Otis bambino, sul suo essere un attore estremamente talentuoso ma utilizzato come riscatto sociale da un padre violento ossessionato da quello che avrebbe potuto essere e non è stato, un personaggio da rodeo, un clown che della maschera ha solamente il suo rovescio, configurandosi come una presenza caustica per il giovane Otis.
Honey Boy avrebbe potuto scivolare facilmente nella retorica del dramma caricaturale, mentre sceglie invece di utilizzare dei paralleli, messi in scena con molta grazia dalla regia di Alma Har’el, fondendo lo stilema del cinema indipendente e intimista americano a un taglio incredibilmente dolce, riuscendo a portare a schermo una delle scene d’amore - non di sesso, attenzione - tra due ragazzini, come raramente si è visto sul grande schermo.
Il racconto vive di visioni, di un Otis adulto che entra nei ricordi e si muove nel presente di una ricerca confusa e arrabbiata, trovando nel passato non solo ricordi dolorosi ma delle immagini estremamente eteree, a rappresentazione di come gli assoluti non esistano e di come anche un rapporto spezzato e affettivamente brutale come quello che ha con il padre, possa celare molti ricordi positivi, piacevoli, evocando una nostalgia indecifrabile.
Un aspetto che rende la regia e la messa in scena di Alma Har’el fondamentali, poiché Honey Boy vive di tramonti, di luci del mattino, di nottate al neon e di pochi momenti plumbei, cosa che nei drammi americani generalmente domina la scena, proponendo la complessità di certi sentimenti anche visivamente.
Otis ha vissuto molta tristezza ma, nella fatiscenza della sua età dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta in un motel di Hollywood, ha anche trovato il piacere dell’abbraccio di una donna, l’innocenza di un bacio dato non per forza per arrivare al sesso, di un momento intimo creato solamente per sentirsi bene.
Per guarirsi a vicenda e non per distrarsi.
Il racconto di Honey Boy sceneggiato da Shia LaBeouf dimostra come l’uomo si componga di molte parti complesse e di come la rabbia che porta certi uomini a essere mostri orribili sia un qualcosa da disinnescare, come la furia di un mostro che combatte una folla di popolani armati di torce e forconi.
Un film dalla scrittura onesta, pura, dove convivono l’amore e l’abuso fisico e psicologico, dove la rabbia si mescola con la gentilezza e dove le risate e le lacrime camminano con i tramonti rosa e arancioni e le notti blu e rosse di neon e gli abbracci e le carezze e gli schiaffi e le sigarette fumate di nascosto.
Shia LaBeouf porta al cinema una sceneggiatura piena di grazia e una prova d’attore memorabile, regalando allo spettatore un attore bambino formidabile nell’interpretare una parte complessa e una storia resa sublime dai contrasti, dalle sfumature e dalla cruda onestà.
Honey Boy è un film autentico, quasi europeo nel suo modo di trattare le sfaccettature dei sentimenti del protagonista e nella sua matura consapevolezza di come il rapporto con il padre sia stato funestato da terribili maltrattamenti come da momenti di felicità.